DOPO LA PUBBLICAZIONE DE “LE RELAZIONI”
A cura di Marco Ignazio de Santis
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DOMANDA – I racconti che ora compongono
la silloge “Le relazioni” (Bastogi ed., 2012) sono stati pubblicati negli anni
Ottanta del Novecento nella rivista “Singolare/Plurale”. Una prima ragione
della loro ripubblicazione è il desiderio di evitarne la dispersione. C’è anche
qualche motivo più intrinseco?
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RISPOSTA
– Io penso che i racconti de “Le relazioni” possono essere
considerati praticamente
inediti, perché pochissimi dei
lettori di S/P ricordano di averli già letti su quel periodico. Riproporre,
quindi, questi racconti dopo trent’anni
e tutti insieme per la loro sostanziale unità stilistica e tematica è servito
davvero a sottrarli al silenzio al quale
sembravano ormai irrimediabilmente condannati… E considerati i
risultati, ossia i primi lusinghieri
apprezzamenti che mi giungono da chi ora legge “Le relazioni”, devo dire che la
mia scelta, cioè la pubblicazione in volume dei racconti, non è stata una scelta sbagliata.
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DOMANDA – Nel 2006 è uscito “Renato e i
giacobini”, che ha riscosso un lusinghiero successo di critica. C’è qualche
rapporto tra quest’opera e i sei racconti che compongono “Le relazioni”?
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RISPOSTA
- Sicuramente questo rapporto c’è. I racconti, infatti, scritti prima di
“Renato e i giacobini”, che insieme a
“La bella sorte” è tra i miei libri più fortunati, per alcuni aspetti (la
scrittura veloce e leggera, senza fronzoli e smancerie lessicali, il taglio ironico presente specie nella
rappresentazione dei rapporti interpersonali, e la presenza di un io narrante
che sembra spiare non visto i vari
personaggi), preannunciano situazioni e
atmosfere che saranno proprie del romanzo, o antiromanzo come preferisce
definirlo qualche critico.
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DOMANDA – Come docente e come lettore
hai esplorato in lungo e in largo la letteratura italiana dell’800 e del ‘900.
In che senso e in che modo con la tua scrittura hai realizzato una rottura
rispetto ad alcuni modelli e risultati della tradizione narrativa dell’800 e
del ‘900?
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RISPOSTA
- A me sembra ormai un dato generalmente
acquisito nei miei libri la mia propensione alla rottura con la prosa
tradizionale, e non solo per l’assenza di una narrazione consequenziale, ma
anche perché spesso si sorvola sulla
descrizione degli ambienti e i personaggi non sono rappresentati a tutto
tondo ma solo nei loro pensieri e nelle loro azioni, lasciando quindi al
lettore il compito, coinvolgente, di riviverne emozioni e sentimenti. Quanto, poi, in che misura
questo mio essere sperimentale derivi da Svevo o da Pirandello, da Pavese
o da Calvino, da Gadda o da Pasolini, o da nessuno di questi, è compito
del critico e non certo dell’autore, specie se questi, come nel mio caso, in
fatto di percentuali è davvero un disastro.
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DOMANDA – Semplificando il discorso, si può dire che nei racconti di cui andiamo
discorrendo hai privilegiato due tipi di approccio: la rappresentazione
oggettiva e la deformazione ironica e farsesca delle relazioni interpersonali.
Perché in alcuni casi hai preferito evitare le sovrapposizioni soggettive e in
altre evenienze hai optato per una deformazione espressionistica?
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RISPOSTA
- Che cosa dirti? E’ tutta una questione di ritmi narrativi, di pesi e contrappesi, spesso
neanche teorizzati ma comunque funzionali a quella leggerezza e a quella velocità espositiva di
cui ti ho già detto e alle quali a me pare rispondano adeguatamente a volte la rappresentazione oggettiva, a volte la deformazione ironica e farsesca, e a volte, come nel dialogo de “La tromba delle scale”, insieme l’una e l’altra.
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DOMANDA – Già, “La tromba delle scale”…
un racconto che si affida tutto a un lungo e fitto dialogo…Perché ti sei
orientato verso questa struttura narrativa?
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RISPOSTA
– Appunto per realizzare quella rappresentazione oggettiva di cui ti ho detto.
L’intervento personale dell’io narrante è ridotto al minimo, infatti, in questo
dialogo, che trascritto così come è stato registrato. produce un effetto estraniamento
convincente. Non trovi?
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DOMANDA – Il tuo sguardo di narratore si
è soffermato soprattutto su un “bestiario” umano rappresentato da personaggi
piccolo-borghesi e da intellettuali di provincia irretiti da una crisi di segno
esistenziale, politico e sociale. E’ accaduto perché costituiscono la tipologia
umana più vicina al tuo ceto di appartenenza o vi sono altre ragioni?
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RISPOSTA
- In gran parte è così. Ma dico “in gran parte” e non “del tutto” perché in passato ho scritto anche
racconti i cui protagonisti erano operai o comunque di estrazione popolare. Si tratta naturalmente di racconti giovanili ispirati dalle scelte politiche del momento e
per le quali la classe operaia finiva con l’assumere persino una connotazione “mitica”. Ma esauritosi poi, per
una serie di ragioni che qui non importa ricordare, l’entusiasmo da neofiti che
mi aveva spinto a scriverne e anche a
mitizzare la classe operaia, e ormai consapevole che è meglio scrivere di ciò che
si conosce e che si conosce bene, eccomi decisamente orientato a
scrivere racconti con temi e personaggi più vicini per così dire al mio
ceto di appartenenza. Anche per questo sarà difficile, e soprattutto per la progressiva
diminuzione di modelli di riferimento, che io mi metta a scrivere di
aristocratici e dei loro problemi.
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DOMANDA – I personaggi dei tuoi racconti
sono anti-eroi o preferisci un’altra definizione?
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RISPOSTA
– Io non so dire se i miei personaggi siano eroi o anti-eroi. A me pare
soprattutto che siano dei càndidi, e che affrontino la vita con tanta ingenuità e fiducia nel prossimo. Ed è per questo che
l’urto con la realtà si fa più
traumatico, ed anche più grottesco per l’inconsapevole
ostinazione a non accettare gli esiti
del disvelamento.
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DOMANDA - In altre parole e in estrema
sintesi, nella vita ci sono i trascinatori e i trascinati, i capi e
i gregari, e i tuoi personaggi, pur trascinati e gregari, continuano ad aver
fiducia nei rapporti umani.
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RISPOSTA
– Già, è così… In altre parole e in estrema sintesi…
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DOMANDA – Che importanza, quindi, hanno le convenzioni sociali e il loro
disvelamento nell’opera di cui stiamo parlando?
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RISPOSTA
- I miei personaggi, o almeno i protagonisti delle mie opere narrative, hanno speso quasi tutta la vita nell’affermazione dei diritti civili e nella lotta contro i
soprusi e le ingiustizie sociali, per cui sono decisamente convinti nel
sostenere quelle convenzioni sociali ispirate da un senso del bene comune. Per
questo - ho già detto - la presa di
coscienza che a volte ben altri sono gli obiettivi di queste convenzioni, si fa strada con
riluttanza o a volte è addirittura negata,
finendo, paradossalmente, col
riaffermare anche nei lettori la fiducia
nei rapporti umani.
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DOMANDA – Che peso ha la sessualità nei tuoi versi e in questi racconti?
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RISPOSTA
– Il peso che merita. Il sesso, infatti, è una delle più belle poesie della vita. Per
questo va vissuto gioiosamente e non va sporcato
con la volgarità e con la pornografia.
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DOMANDA – A volte la nostra vita è
grigia e alienante. Come hai rappresentato questa dimensione esistenziale
nell’ultimo racconto, cioè “L’album di famiglia”?
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RISPOSTA - Credo che tu voglia sapere se questo racconto
è autobiografico. Ebbene, nel ribadire che non esiste opera che non sia autobiografica,
ti dico che si tratta comunque di una autobiografia
filtrata e quindi contestualizzata al punto tale che finisce
col non avere più nulla a che fare con il modello di riferimento.
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DOMANDA – E per finire guardiamo un po’
al futuro. Pensi di replicare questa esperienza narrativa oppure hai altri
progetti in mente?
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RISPOSTA
– Ti confesso che ho alcuni progetti nella testa, Innanzi tutto vorrei finire un mio libro su Nino Palumbo, lo scrittore
tranese morto nel 1983 e, purtroppo, ingiustamente dimenticato nella sua città natale. Eppure la
commissione toponomastica del Comune di Trani, da me più volte
sollecitata, ha finalmente deliberato
che a Palumbo potrebbe benissimo essere
intitolata una strada cittadina. Ma finora nessun passo è seguito a questa
proposta.
Vorrei
poi raccogliere i miei versi e
pubblicarli a mo’ di collected poems,
oppure come “antologia personale”dei
miei sessant’anni di attività poetica.
Quanto
alla narrativa, infine, sto pensando da qualche tempo di scrivere, dopo “Renato e i giacobini”,
un secondo volume su questo mio personaggio ironico e auto-ironico, narciso e
istrione, ma anche tenero e appassionato;
e il libro, considerate le nuove
vicissitudini nelle quali egli si imbatte,
potrebbe avere come titolo “Renato e i libertini”.
E
poi potrei anche mettermi a scrivere su… Ma mi viene in mente che mi ci vorrebbe un tale numero d’anni per dare
corpo a questi miei progetti che è preferibile mettere qui il punto, come si suole
dire, e lasciare quindi alle Parche il compito di filare in piena libertà lo stame della mia vita.
Trani, 13 giugno 2012