LE VEDUTE DI TRANI DI COSIMA CAVALERA*

Il Monastero di Colonna, la Villa comunale, il Fortino, la Cattedrale…
Ecco, insomma, anche in questa cartella le immagini-culto della Trani da cartolina, le sue icone, proprio quelle con le quali, da tempo immemorabile, si cimentano, chi più chi meno inna-morati della nostra città, artisti e pseudo tali, pittori e fotografi che siano, e disegnatori incisori litografi, nostrani e foresti…
Perché, allora, fermarsi a rimirare le vedute di Trani che Cosima Cavalera qui raccoglie?
Perché una cosa è - per volare alto - la Roma del Corot, o la Venezia del Canaletto, e un’altra quella raffigurata da un anonimo imbrattatele.
Perché, in altre parole, nell’arte importa di più non quello che si dice ma come lo si dice.
Eccoci, allora, intenti a capire che, al di là dell’idea di pre-vedibilità o, se si vuole, di familiarità che possono dare i paesaggi con i quali si ha lunga consuetudine, in queste vedute c’è un segno, ed una luce, che non ricordo di aver già visto altrove.
Immagini delicate, fissate con tecnica analogica e come me-diante l’uso di filtri.
Immagini quasi rarefatte, perlopiù costruite secondo contrasti tonali.
Immagini che non si concentrano sui particolari quanto sul-l’insieme formale e tonale.
Immagini che catturano la luce radiante e la foschia della scena e le collegano armoniosamente senza che la verità oggettiva venga sacrificata.
E ne viene fuori una testimonianza suggestiva del paesaggio tranese, del quale in queste vedute si riesce a cogliere tutto l’incanto.
Domenico di Palo

* Presentazione all’omonima cartella di disegni e incisioni, Landriscina Editrice, Trani 2009

DEDICATO A IVO *

Dieci anni fa, introducendo la mia monografia su Ivo Scaringi, alla quale avevo dato mano ancora sotto l’emozione della sua morte, scrivevo che la sua prima mostra personale, nel maggio del 1964, fu davvero una svolta nella storia della pittura pugliese del secondo novecento.

Oggi, acquietatasi quella emozione, come accade per le cose degli uomini, ma non spentosi il rammarico per la sua prematura scomparsa (perché ancora tanto egli poteva dare all’arte, ai suoi cari e agli amici), sono sempre convinto che, parlando di Ivo, si debba partire dal forte impatto che quella sua prima mostra alla “Vernice” di Bari ebbe sui suoi numerosi visitatori.

Nello stanco panorama dell’arte pugliese del tempo, infatti, quella per intenderci delle figurazioni manierate degli ulivi, dei trulli, delle case imbiancate di calce e dei paesaggi a terrazze della Murgia, quella mostra segnò, decisamente, un punto di rottura, nell’innovare nella tradizione la pittura della nostra regione…

Le facce rugose di vecchie terribili come megere, dipinte infatti nelle sue tele; i lineamenti esasperati di donne tarantolate, o in preda a pratiche esorcistiche o al travaglio del parto; quei braccianti induriti come la pietra e quindi ormai insensibili al dolore e alla fatica; le masse materiche di usci tutti a croste o slabbrati come quelli di certi nostri vecchi terrazzi e sottani; e poi i letti disfatti situati in interni poveri e dai muri sporcati dal tempo e dall’incuria; e le fucilazioni, con quei corpi che caduti per terra si riducevano a poveri stracci abbandonati; e ancora certi visi stravolti, dipinti di scorcio, di tre quarti, in primo piano; quelle tele insomma, raffiguranti sì il segno di una polemica sociale ma anche il sentimento acuto dello squallore, della disperazione e della morte, erano di certo ben altra cosa dell’oleografisno, del figurativismo “grazioso” e di evasione e dello spento naturalismo di tanta tradizione pittorica nostrana.

Ecco perché allora ebbi la sensazione di essere testimone di un evento storico della pittura pugliese, una sensazione che certamente condivise anche Pietro Marino, all’epoca ritenuto un’autorità nella critica d’arte in Puglia, Pietro Marino che, scrivendone sul suo giornale, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, salutava in Ivo Scaringi “il più sicuro e maturo rappre-sentante della nuova generazione di artisti pugliesi” e, non potendo negare la forza della sua voce, per essa credeva doveroso “compromettersi”. Pur non accettandone - aggiungeva poi, forse con eccessiva prudenza - pur non accettandone “il punto di partenza, la matrice ideologica”.

E a quale punto di partenza, a quale matrice ideologica egli si riferisse era ben chiaro a tutti.

I primi Anni Sessanta, a Trani, eccoci infatti, un gruppo di giovani amici (i giacobini, ci chiamò Franz Brunetti) decisamente animati da una voglia sacrosanta di cambiare il mondo, ed eccoci quindi impegnati a reagire alle chiusure retrive, alle censure e alla messa al bando di quelle iniziative culturali che cercavamo di promuovere nel grigiore della vita cittadina. Come il Circolo del Cinema, ad esempio, il primo ad essere fondato a Trani, o come “Il Canocchiale”, il periodico cittadino, nel quale aveva trovato espressione, si disse, “una componente di sinistra, libertaria e innovatrice rispetto alla pesantezza del PCI pugliese”.

Ed ecco, paralleli a queste esperienze, i nostri “corti viaggi sentimentali” in Lucania, sulle orme di Rocco Scotellaro, “il poeta della libertà contadina”, “l’intellettuale nuovo” che nel clima pesante del dopoguerra, sulla base di un’esperienza reale, fu portato dagli avvenimenti a impegnarsi fino in fondo nella lotta politica e a pagare amaramente il prezzo della sua scelta.

Quanto a Bari, eccoci, nello studio bohémien di Tony Prayer, insieme ad altri giovani pittori, a parlare tutti ad alta voce, della Puglia, dell’arte, della sua funzione. E a leggere persino le lettere di Siqueiros, e ad esse mescolare, alla rinfusa, i nomi di Picasso, di Gaetano Salvemini, di Tommaso Fiore e di una Spagna senza Franco.

Eccoci insomma animati da quella passione che avremmo riscoperto, di lì a qualche mese, nella galleria del “Sagittario” di Giacomo Cinquepalmi, con gli amici di “Nuova Puglia”; nel tentativo di “fare gruppo”, di uscire finalmente dall’individualismo atavico del Mezzogiorno d’Italia, nel tracciare le linee di un progetto artistico che fosse nutrito di istanze morali e sociali, e che - seguendo l’esempio del molfettese Salvatore Salvemini e di Ginetto Guerricchio, il pittore materano da pochi anni disceso in Puglia fresco di studi e di successi conseguiti al nord - rivolgesse il colorismo plastico di Francesco Spizzico, di Vito Stifano e di Roberto De Robertis (gli antichi maestri di Ivo all’Istituto d’Arte di Bari e protagonisti di un timido rinnovamento negli anni Trenta-Cinquanta) in direzione di un neoespressionismo nervoso e impetuoso. Disfacendo colori e piani, e assumendo come referente la crisi della civiltà contadina nel Sud, e l’emergere delle contraddizioni della nuova cultura urbana.

Vivevamo, insomma, il nostro ’68, anticipato nel tempo, è vero, ma per ciò più eroico e, chissà, forse più autentico.

Anche Ivo, dunque, faceva parte del gruppo. Ma un po’ defilato, quasi nell’ombra, attento solo ad ascoltare. Al punto che a volte a tutti noi, neofiti entusiasti, sembrava eccessivo il suo silenzio, e incomprensibile la sua riservatezza, alla quale finiva col sacrificare anche la cura della propria immagine.

Ma Ivo invece, a differenza di noi, non si sentiva un neofita, e all’impegno politico nei partiti (l’impegno che in quegli anni cominciavamo a vivere), anche per una sorta di consuetudine familiare, sapeva guardare con la superiore saggezza di chi ha già lunga esperienza delle cose del mondo.

Né si era mai definito un “militante”.
Né, d’altra parte, ci era ancora del tutto chiaro che lui, naturalmente di poche parole, consumava nella pittura l’ormai acquisita consapevolezza della condizione umana, esauriva in essa il suo (così poi fu scritto) “urlo biologico”, che la sua arte, insomma, e il suo modo di essere già andavano oltre la polemica sociale, oltre la storia, per farsi, in rigorosa solitudine, segno immutabile, una lucida e disperata testimonianza della tragedia del vivere, e del morire.

Questo e non altro, allora, era Ivo Scaringi, con buona pace di noi impetuosi “giacobini”, che quindi sbagliavamo a pretendere da lui ciò che egli non poteva darci.

Abitava allora, a Trani, nella casa paterna di Via Sasso 32, nel quartiere di San Michele. Quella con le ghirlande di pomodori rossi messi ad essiccare alle pareti dell’androne, con una scala buia e stretta che sbucava in un terrazzino pieno di calchi di gesso e di statuine cimiteriali (opera di suo padre, lo scultore Nicola Scaringi); due vecchie poltrone di vimini; e poi un piccolo locale col tetto spiovente e trasformato nello studio del pittore, in mezzo al quale, tra decine di tele appoggiate al muro, barattoli di latta, tubetti di colore allineati con cura, una cartella zeppa di disegni su una sedia impagliata, un fiasco vuoto, panni vari aggomitolati in modi diversi, attrezzi da giardino, arnesi arrugginiti, troneggiava una grossa ciotola di latta, una sputacchiera trasformata in portacenere e colma di cicche e mozziconi vari.

Ivo se ne stava seduto vicino al cavalletto, come sempre ricurvo sulle spalle, la mezza sigaretta tra le labbra e con la coppola calata sul capo. E se ne stava lì ad ascoltare, in silenzio, i miei discorsi torrenziali sui massimi sistemi, mentre lui, tra mille ripensamenti, squadrava la tela, vi tracciava segni, vi spandeva colori su colori, facendo quindi emergere, lentamente, ma come per incanto, quella che lui definiva la struttura materica del quadro, la sua ossatura, che, per la consapevolezza che egli aveva del mestiere di pittore, una consapevolezza da lui acquisita da ragazzo nella bottega paterna, mai dunque si riduceva ad una semplice pellicola, ad una semplice superficie colorata.
“Sono un pittore all’antica - amava spesso definirsi - Credo al mestiere del pittore, alla pittura costruita: quella che, battendo sulla tela, ti risponde”.

E così, quando avevo esaurito le mie divagazioni, eccolo Ivo, quasi ad allontanare da sé un’eventuale taccia di musone, che mai avrebbe tollerato, eccolo dare sfogo a tutto il suo sottile umorismo, venato di garbata ironia, ed alludere al pittore di comune conoscenza che si faceva quotare sul “Bolaffi” a pagamento e che sborsava periodicamente somme cospicue al critico di turno per una compiacente segnalazione sul suo giornale; al politicante chiacchierato che faceva spudoratamente professione di onestà amministrativa; o al visitatore con la puzza sotto il naso che, aggirandosi nel suo studio a scartabellare una tela dopo l’altra, gli chiedeva di tanto in tanto: “Ma questa che significa?”.
“Uh!... Madonna. Ci resto male - diceva Ivo rifacendo, con arguzia, il verso al nostro severo e sprovveduto inquisitore - Ci resto male quando mi chiedono cosa vogliono dire i miei quadri”.

Finché, inevitabilmente, mi riconduceva sul suo terreno preferito, e si parlava di mestica, di disegno, di colori, come per rammentarmi che quello soltanto era, dopo tutto, il suo linguaggio e che desiderava farsi capire solo attraverso i suoi quadri.

E intanto il suo prestigio si consolidava nella regione e fuori di essa. I riconoscimenti autorevoli (tra cui quelli di Vito Carofiglio, Pietro De Giosa, Anna D’Elia, Camillo Langone, Maria Marcone, Filiberto Menna, Dario Micacchi, Duilio Morosini, Giancarlo Pandini, Enzo Panareo, Michele Prisco, Paolo Ricci, Franco Sossi, Marcello Venturoli, Luciana Zingarelli, e soprattutto di Vittore Fiore e di Elio Mercuri, autori nel 1970 di due saggi a mio avviso fondamentali sulla sua arte), si facevano numerosi).

E pure nella fine ingloriosa di “Nuova Puglia”, nel 1966, e di “Immaginazione e Realtà”, nel 1971, una fine che avevano contribuito ad affrettare non solo l’ostilità dell’ambiente (stretto fra ostinate resistenze conservatrici e l’autorevolezza da poco conquistata dai De Robertis, dagli Spizzico e dagli Stifano), ma anche - perché no - l’esaurimento dell’uso strumentale che di queste esperienze alcuni partiti politici si erano illusi di poter fare; nonostante la vita breve di queste esperienze di gruppo - dicevo - restava incorrotta la fama di “maestro” di Ivo Scaringi che, ormai, anche pittori già affermati ritenevano “il migliore di tutti”, come Guerricchio, ad esempio, quando apertamente confessava che alcuni dei quadri di Ivo avrebbe voluto saperli dipingere anche lui.

Indiscusso protagonista della pittura pugliese di quegli anni, sembrava, insomma, che non ci fossero più ostacoli per affermare definitivamente la sua “immagine” o per prendere, come si dice, il volo per traguardi più ambiziosi.
E, in verità, non gli mancavano le occasioni.

A metà degli anni Sessanta, per esempio, un noto gallerista di Bari gli fece una proposta che qualunque pittore al mondo avrebbe considerato vantaggiosissima.
Quel gallerista si disse disposto a versargli mensilmente qualsiasi cifra, in cambio di una periodica e puntuale consegna di un certo numero di quadri.
Ma Ivo rispose di no.

“Mettersi in mano ad un mercante d’arte significa dipingere quello che vuole il pubblico” disse in un intervista.

E ancora, qualche anno dopo, parlando di sé nel corso di una delle sue ultime mostre: “Non ho l’assillo del mercato, non ho scadenze da rispettare. Sono un pittore libero, li-be-ro!” dichiarò orgogliosamente.

Fu così che cominciò a definirsi il suo ruolo di artista libero e solitario.

E fu così che cominciò a costruirsi la leggenda del pittore dal talento indiscusso ma in volontario esilio in provincia, una leggenda della quale Ivo finì in verità anche col compiacersi se di tanto in tanto, con un po’ di civetteria e con evidente orgoglio, rammentava quanto su di lui aveva scritto ancora Pietro Marino nel 1965.

“Ivo Scaringi - aveva scritto il critico barese – poteva diventare il cocco dei buoni borghesi che comprano quadri per il salotto. Ne aveva tutti i requisiti: il senso sicuro del colore aggressivo e squillante, come le gam-me dei rossi che infondono allegria o eccitano; il segno scattante, di una eleganza capace di dar senza pericolo i brividi della modernità; la perizia grafica. Poteva persino qualificarsi, il giovane pittore tranese, come un interessante portatore di neocaravaggismo: mettendo d’accordo - come s’è visto, in certi momenti della sua ancor breve carriera - drammaticità neorealista e un revival di monumentalismo barocco napoletano. L’istanza meridionalista - che nutre con lontane radici umanistiche la cultura pugliese - sarebbe rimasta appagata del tributo resole con soggetti popolareschi, interni di dimore contadine, volti operai del boom industriale. Temi, anche questi, affrontati da Ivo Scaringi con aggressiva sofferenza. Ma Scaringi ha smantellato il suo facile destino, man mano che meditava sulla realtà complessa e contraddittoria del nostro tempo. E la sua pittura tende sempre più a rifletterne le interne tensioni e lacerazioni, ad assumere i segni idonei a significare la condizione alienata dell’uomo…”.

Ecco perché non servivano a nulla le sollecitazioni di amici ed estimatori a curare di più, come si dice, la sua immagine, e quindi a impegnarsi in direzione di una sua più diffusa e radicata popolarità.

Così, diviso tra l’insegnamento nella scuola media (dal 1969 si era fatto trasferire dall’Istituto d’arte di Bari, dove, per meriti artistici - cosa davvero d’altri tempi - nel 1960 era stato assunto come docente di discipline artistiche), un tranquillo ménage familiare e la frequentazione di pochi e sinceri amici, continuava la sua paziente e faticosa ricerca, ma in piena libertà e solitudine.
“La libertà – gli piaceva ripetere – non te la regala nessuno. Per questo è preferibile – aggiungeva – che certe esperienze si facciano sulla propria pelle, anche nell’incertezza e nelle cadute”.

Certo, in tempi di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, di ferree logiche di mercato, di culto dell’immagine, di spettacolarizzazione, a volte cinica, della vita e della stessa morte, forse non siamo più abituati a sentire parole come queste.
Eppure è in queste parole la chiave di lettura di tutta la sua vita e di tutta la sua opera.

Io, pur frequentandolo a volte meno spesso per i casi della vita, ebbi comunque la fortuna di seguire puntualmente in quegli anni il suo itinerario pittorico, lo svolgimento dei suoi nuovi cicli figurativi, dagli inventari alle ricomposizioni, negli anni Settanta, di elementi tecnologici e di frammenti di realtà, che avevano perduto la loro identità e che, al di là della persistente felicità del colore e della indiscutibile certezza del segno, riducendosi alla loro stessa oggettività, insinuavano un sentimento di sottile angoscia, fino a certe soluzioni formali, fino a certi risultati artistici che sembravano andare al di là della stessa pittura; e, dopo queste “prove”, in verità di breve durata, dopo questo nuovo approdo della sua attività creativa, tornato egli improvvisamente all’antico, ai bellissimi acquerelli della fine di quel decennio.

Riprendemmo a frequentarci più assiduamente dai primi anni Ottanta, quando lo coinvolsi in alcuni miei progetti editoriali (invitandolo, tra l’altro, prima a illustrare un mio nuovo libro di versi e poi a disegnare le copertine di “SINGOLARE/PLURALE”, il periodico di critica e costume che, avvalendosi di collaborazioni qualificate, riuscii a far durare per 13 anni, fino al 1991).

Ivo intanto aveva cambiato studio. Si era trasferito infatti in Via Perrone Capano, e qui nei pressi della sua nuova abitazione, aveva affittato un piccolo e umido locale, che sembrava tuttavia “bellissimo e suggestivo” ai suoi visitatori, perché vi si accedeva “per un corridoio di vegetazione superando viottoli e cancelli”.

Fu in questo studio che continuò il nostro dialogo, tuttavia sempre più ricco di pause e di silenzi, e che si consolidò la nostra amicizia, anche perché dell’originario gruppo di amici dei primi anni Sessanta, Ivo ed io eravamo gli unici rimasti a Trani.

E fu così che a me toccò non dico fargli da mèntore, chè i suoi progetti egli bene li definiva e bene aveva chiari, ma un po’ da cassa di risonanza, spentisi anche progressivamente sui giornali o altrove gli echi delle sue più rare “personali” e partecipazioni a quei sodalizi occasionali per qualche mostra.

Ad esempio, infatti, era stata del tutto ignorata la mostra personale che, dopo tante nostre pressioni e con non poca fatica riuscì ad organizzare nella galleria “La nuova Papessa” a Roma, nell’ottobre del 1981.

Così come quasi ignorate - nonostante lo straordinario successo di pubblico e al di là di alcuni efficacissimi servizi giornalisti, come quello di Antonio Rossano su RAI 3 e un articolo di Michele Campione sul “Corriere del Giorno” di Taranto - furono le ultime due bellissime personali da lui messe su nel settembre del 1994 al Museo diocesano di Trani e nel marzo del 1995 nella galleria “Arte Spazio” di Bari.

Pagava, purtroppo, il prezzo del suo isolamento, del suo amore per la libertà, del suo rigore morale.
E ne provò amarezza, certamente, ma ne ricevette anche nuovo stimolo per la sua pittura, che si fece ancora più grande, e per la sua riflessione ininterrotta sulla vita strozzata, sulla morte, sulla dimensione ontologica di essa, ché tale infatti è venuta, penso definitivamente, chiarendosi la sua ricerca.

Ripenso ai suoi nodi dei primi anni Ottanta, a quei fagotti che per Ivo potevano contenere di tutto, ma che ormai mi danno soltanto l’idea di freddi sudari.

E poi alle grandi tele della “Zattera della Medusa”, l’importante mostra itinerante del 1984 che, organizzata insieme a Luigi Guerricchio Beppe Labianca e Leo Morelli, rivisitava in chiave moderna il famoso quadro di Theodore Gericault; ripenso al “Naufragio in una stanza” che faceva parte di quel ciclo e, al di là delle allusioni autobiografiche che vi si possono cogliere, mi balza più evidente agli occhi il carattere metastorico della tragedia che vi è raffigurata.
E così, certamente ispirata da quelle per le quali si accedeva al suo studio di pittore, rileggo le sue vegetazioni, che faticosamente si fanno spazio tra strutture e lamiere, come segnali dell’eterno conflitto tra la vita e la morte.

E ancora i suoi dipinti sul mare, il simbolo della madre e della vita, inquietanti nella loro freddezza metallica.

O - tema centrale della sua ultima produzione pittorica - le visite ai monumenti, le ricognizioni sulle sculture medievali, che nella loro bellezza formale e nella loro ricchissima simbologia da sempre lo avevano affascinato fino a imprimersi definitivamente nella sua memoria e, ponendosi - per lui - come punto di riferimento esclusivo di altre bellezze, a divenire il luogo dove la storia si annulla, e il presente e il passato si fanno un tutt’uno di mostruosità e di stupore.

Ora, e mi avvio alla conclusione, non è questa la sede per discutere alcune opinioni che, dopo la morte di Ivo, sono state espresse su di lui (come quella, ad esempio, sulla sua incapacità di adattarsi al nuovo); né mi sembra questa la sede per esprimere le proprie preferenze per questa o per quell’altra sua stagione pittorica.

Questo è il compito del critico, o meglio del critico militante, perché lo storico, invece, il biografo, così come ho cercato di fare anche nel mio libro, queste stagioni alla storia dell’arte le consegna tutte.

Semmai, mi sembra opportuno dire che se bene hanno fatto “I Dialoghi di Trani”, nell’ottica di una politica culturale tesa al recupero della nostra memoria storica e alla valorizzazione delle nostre più qualificate risorse artistiche, a dedicare, nel decimo anniversario della sua morte, questo spazio a Ivo Scaringi, altrettanto bene oggi farebbero le istituzioni a impegnarsi a realizzare finalmente ciò che promisero dieci anni fa, e quindi, a progettare non solo l’organizzazione di un premio di pittura a lui dedicato, ma, partendo da un primo nucleo di una sessantina di tele (che la famiglia, rimasta fedele custode della sua opera, sarebbe disposta a donare), anche l’allestimento di una mostra permanente, organica ed approfondita, da collocare, s’intende, nella sede più idonea e che restituisca, anche in concretezza visiva, le dimensioni del personaggio e, con lui, una pagina certamente importante della storia dell’arte contemporanea in Puglia.
Domenico di Palo

* Testo della conferenza tenuta il 26 settembre 2008 nell’ambito della Sezione dedicata a Ivo Scaringi dall’edizione annuale dei “Dialoghi di Trani”.

I FRATELLI PASTINA E LA LIBERTA’ DI STAMPA NEL REGNO DEL SUD *

Mi preme innanzitutto dire anche in questa sede che non ho la presunzione di ritenermi uno storico e che, al di là delle pressioni affettuose degli amici di “Obiettivo Trani”e della “Società di Storia Patria”, mi spinge ad associarmi a questa rievocazione dei fratelli Pàstina solo un occasionale interesse per la storia locale, nella quale, per la mia antica attività di pubblicista, mi è capitato a volte di fare delle incursioni.
Dei fratelli Pàstina, dunque, io ho conosciuto di persona soltanto Nicola. Domenico, infatti, era già morto da qualche mese (era il 1959) quando – mi si perdoni l’annotazione personale – ho cominciato a guardarmi intorno non più con gli occhi del giovanotto inquieto e distratto, ma con maggiore attenzione per le persone che hanno fatto grande la storia di Trani.
Così, me lo ricordo, Nicola Pàstina, magro e dall’aspetto sobrio e severo, nei primi anni Sessanta e soprattutto d’estate, venire lentamente da Via San Giorgio e quindi sedersi con un gran fascio di giornali sotto il braccio, ai tavolini del “Gran Bar” in piazza della Repubblica, che all’epoca si chiamava ancora piazza Vittorio Emanuele…
E fu in quegli anni che venni a sapere del suo passato di antifascista, un passato coerentemente e coraggiosamente vissuto, insieme al fratello Domenico, prima nelle file di “Giustizia e Libertà” e poi nel Partito d’Azio-ne; fu allora che seppi della sua brillante attività giorna-listica nel giornale satirico “Becco giallo” e nel “Risorgimento”; e fu allora che cominciai a leggere con crescente interesse gli articoli che di tanto in tanto egli veniva pubblicando sul “Ponte”, sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” ed anche sul “Tranesiere”.
Poi, a metà degli anni Sessanta, eccolo profondamente coinvolto nella bella avventura della nuova serie della “Rassegna pugliese” che, idealmente collegata alla gloriosa rivista di Valdemaro Vecchi, era stata fortemente voluta da Agostino Caiati.
Della nuova “Rassegna”, alla quale ebbi anch’io l’onore di collaborare saltuariamente con alcune recensioni, Nicola Pàstina non solo assunse la direzione responsabile ma fu il coordinatore della sezione cultura. E i suoi interventi, sempre caratterizzati da una fine ironia e ispirati da un’appassionata attenzione alla storia cittadina erano per me esemplari (fu il primo in quegli anni a insistere sulla necessità di recuperare la memoria di Valdemaro Vecchi e a convincere quindi Benedetto Ronchi a lavorare ad una completa e ordinata rassegna della vasta produzione del grande editore).
Ricordo, in proposito, un episodio verificatosi proprio sulle pagine della nuova “Rassegna Pugliese”, un episodio che ormai viene ritenuto molto significativo e quindi è puntualmente citato quando si discute del particolare stile giornalistico di Nicola Pàstina, polemista d’eccezione, capace di una scrittura rapida e incisiva e nel contempo di un’ironia pungente e sottile.
Mi riferisco alla polemica con lo scrittore Giuseppe Prezzolini, celebre penna velenosa della storia letteraria italiana e non alieno, nel passato, da simpatie mussoliniane.
Orbene, a Prezzolini non era affatto piaciuto che nel numero di ottobre 1966 della rivista tranese, e in un articolo a firma di Walter Tommasino, si fosse affermato tra l’altro che la “Rassegna Pugliese” di Valdemaro Vecchi “non solo fu l’antesignana delle riviste fiorentine dell’inizio secolo, ma soprattutto il modello insuperato della ‘Voce’ di Prezzolini”.
Per cui, sia pure ultra ottantenne, eccolo, Prezzolini, non farsi sfuggire l’occasione per risfoderare la sua penna al cianuro e, dalle pagine del “Borghese”, la rivista fondata da Leo Longanesi e alla quale, all’epoca, egli collaborava, eccolo rispondere testualmente: “E’ proprio vero che i creatori delle riviste fiorentine dell’inizio del secolo s’ispirarono alla ‘Rassegna Pugliese’. Papini non faceva che leggerla giorno e notte, Corradini se la portava a tavola e la leggeva mentre faceva colazione per non perdere tempo. Prezzolini la teneva al capezzale del letto, per pre-parare gli articoli dell’indomani. Borgese conservava la collezione ed ogni tanto andava a consultare i fascicoli arretrati. Non parlo poi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile: se ne disputavano le copie”.
Ironia raggelante, indubbiamente, e comunque tale da lasciare di sasso qualsiasi incauto interlocutore. Ma non Nicola Pàstina, che nel numero successivo della “Rassegna”, dopo avere elegantemente riconosciuto le qualità letterarie dello scrittore perugino, così aggiungeva: “L’umorismo non è un genere facile, e forse Prezzolini era un più raffinato umorista quand’era più giovane e scriveva che l’Opera Nazionale Balilla era la più grande rivoluzione sociale che si sia compiuta in Italia da secoli; oppure era lui Prezzolini, e non l’ottimo prof. Tommasino, uno dei più grandi inventori d’Italia quando scopriva che il duce era un motore unico e centrale, instabile e onnipresente che spinge, spinge, spinge”.
Questo dunque fu il Nicola Pastina che io conosciuto.
E suo fratello Domenico, invece?
Ben altro, per le ragioni che ho già detto, fu il mio approccio con lui, più indiretto, più mediato dalle letture e dai racconti altrui, ma non meno stimolante, non meno coinvolgente.
E allora?
“Dell’un dirò, però che d’amendue/ si dice l’un pregiando, qual uom prende,/ perch’ ad un fine fuor l’opere sue/…” ripeterei con il poeta se non temessi di far torto ad entrambi appiattendo le loro biografie in una superficiale consonanza di ideali e di opere.
Forte fu, infatti, la personalità di Domenico Pastina e forte fu quella di Nicola, al di là della comune mitezza di carattere, e fu per questa forza che entrambi s’impegnarono con spirito critico nella lotta politica, furono lucidi testimoni della vita pubblica non solo pugliese ma nazionale e, in misura diversa, entrambi furono protagonisti di un episodio che, dopo gli anni bui della censura fascista, contribuì ad avviare la stagione della libertà di stampa in Italia. Mi riferisco, ovviamente, alla pubblicazione presso la Tipografia Vecchi, nell’ottobre del 1943, di un numero dell”Italia libera”, un giornale che giustamente è stato definito l’antesignano della libertà di stampa in Italia.
E, non prima di contestualizzarlo, vengo dunque al tema che mi è stato chiesto di trattare e al quale da ora disciplinatamente mi atterrò.
Quale fu, allora, il contesto storico nel quale si collocò la pubblicazione dell“Italia libera”? E quali furono le sue motivazioni originarie?
La sera dell’8 settembre del 1943, dunque, veniva im-provvisamente diffuso per radio l’annuncio dell’armistizio.
Il 10 settembre Vittorio Emanuele III, a bordo della nave “Baionetta”, con tutta la corte e il maresciallo Badoglio giungeva a Brindisi a conclusione della sua precipitosa fuga dalla capitale.
Iniziava così la fragile e incerta vita di quel “Regno del Sud” che, “per garantire - come si disse - la continuità dello Stato italiano”, si limitò temporaneamente ad esercitare la sua sovranità prima sulle province pugliesi di Bari Brindisi Lecce e Taranto e, dal febbraio del 1944 fino al suo trasferimento a Salerno il 5 giugno dello stesso anno, su tutta l’Italia a sud delle province di Foggia e di Napoli.
Una vita incerta, ho detto, che davvero sembrava “composta da ordini diversi di esseri viventi”.
Da una parte, infatti, vi era uno Stato corroso e svalutato anche dall’interno e i partiti politici (il Partito liberale, la Democrazia Cristiana, il PSIUP, nel quale si raccoglievano i socialisti del tempo, il PCI e il Partito d’Azione) con scarsi legami con le masse e ancora gestiti da pochi volenterosi; e dall’altra una popolazione ancora scossa dalle paure di una guerra lunghissima e dai continui estenuanti sacrifici per sopravvivere, una popolazione praticamente tagliata fuori dal mondo (i giornali erano scarsamente diffusi e la radio trasmetteva solo musichette e mai un commento ai gravi fatti che avvenivano in Italia) e che quindi sapeva con uno sfasamento di sei/sette giorni sull’avvenimento che ormai faceva parte del “Regno del Sud” e che il resto dell’Italia (dove risorgeva il fascismo e dove pure si andavano organizzando i primi nuclei partigiani) era in mano ai tedeschi.
Su tutto, insomma, il segno drammatico di una guerra che continuava realmente, per la presenza, fino a Bari, di un’amministrazione militare anglo-americana, forte di una potenza di mezzi mai immaginati, e, per alcune improvvise incursioni nel nord barese, delle ultime retroguardie tedesche.
E’ in questo contesto che va pertanto collocato non solo l’episodio della rappresaglia nazista dei 50 ostaggi a Trani, ma anche la pubblicazione, presso la Tipografia Vecchi, dell’”Italia libera”, che uscì come organo del Partito d’Azione, una forza politica costituita in gran parte da militanti dell’ormai disciolto movimento di “Giustizia e Libertà”.
E’ stato lo storico Giovanni De Luna, in un suo libro pubblicato negli anni ’80 da Feltrinelli (”Storia del Partito d’Azione – 1942-1947”) a dare un più giusto significato all’esperienza azionista nella crisi bellica e postbellica, a valutare le ragioni della sua affermazione durante la Resistenza e del suo declino dopo la Liberazione, e quindi non solo a rimuovere quel pregiudizio che, diffuso a sinistra non meno che a destra, ha fatto stimare gli azionisti degli intellettuali piuttosto che dei politici, degli idealisti piuttosto che dei realisti, ma a chiarire che il fallimento del partito non sia da addebitare al loro modo di fare politica ma in gran parte agli equivoci e alle contraddizioni che caratterizzavano la scena nazionale come quella internazionale.
Non mi sembra questa la sede per riprendere tali argomentazioni, ma insieme a De Luna è opportuno ricordare non solo che il Partito d’Azione, insieme al PCI, fu il movimento più numeroso e agguerrito del tempo e che si qualificò come importante strumento di mediazione sociale, ma che gli azionisti, al di là della loro intransigenza politica e morale, intuirono molte cose sullo sviluppo della società italiana in un regime democratico, colsero l’importanza dell’apparato statale e la necessità di una sua riforma profonda dopo l’esperienza fascista e affrontarono con intelligenza sia i nuovi termini della questione meridionale sia il ruolo sempre più decisivo che le classi medie erano destinate a giocare all’interno di uno sviluppo capitalistico.
Ne consegue, in questa luce, che anche il giornale pubblicato a Trani nell’ottobre del ’43 assume certamente un’importanza maggiore di quella che finora pur gli è stata riconosciuta.
Orbene, nei tempi di cui ci interessiamo, tra gli azionisti pugliesi (perlopiù giovani intellettuali formatisi nel gruppo vicino alla casa editrice Laterza, fortemente segnati dall’influenza di Tommaso Fiore) i più impegnati erano indubbiamente Michele Cifarelli, magistrato ancora trentenne, il prof. Fabrizio Canfora, illustre professore di storia e filosofia al liceo “Orazio Flacco” di Bari e padre dello storico Luciano Canfora, l’avv. Giuseppe Papalia, Vincenzo e Vittore Fiore, figli di Tommaso, e i tranesi Domenico Pàstina, avvocato allora 45enne, suo fratello Nicola, di 3 anni più giovane e l’avv. Vittorio Malcangi, l’illustre penalista, al quale si deve la progettazione del primo comitato antifascista a Trani.
Ad essi si era unito l’ing. Vincenzo Calace (anch’egli tranese, ma vissuto prevalentemente a Bisceglie) che, appena liberato da lunghi anni di detenzione nelle carceri fasciste, era ormai tra gli esponenti più attivi del Partito d’Azione che, nello storico primo congresso dei partiti antifascisti tenuto nel teatro “Piccinni” di Bari il 28 gennaio del 1944, lo designerà come proprio rappresentante nella Giunta esecutiva permanente del C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale).
Fu in questo gruppo, il 12 settembre del ’43, due giorni dopo l’arrivo del re a Brindisi, che, commentando quella notizia, venne dunque l’idea di estendere l’azione politica impossessandosi di uno strumento di propaganda valido su un vasto territorio.
Si decise così di utilizzare le antenne di Radio Bari che, organizzata dagli alleati, divenne ben presto “la voce dell’antifascismo pugliese”, e, sul fronte giornalistico, fallito il tentativo di garantire alla direzione della “Gazzetta del Mezzogiorno” un direttore antifascista e progressista (“Furono tutti d’accordo nell’indicare Domenico Pàstina di Trani” – ricorda Mario Dilio) per una sterzata alla politica di quel giornale, già compromesso col passato regime, i fratelli Pàstina e Vincenzo Calace, grazie all’appoggio del tipografo Francesco (Bebè) Petra-rota, pensarono di dar vita all’edizione meridionale dell’”Italia libera”, la cui direzione responsabile fu affidata a Nicola Pàstina.
Il giornale sarebbe stato composto soltanto da quattro fogli di piccolo formato, ma avrebbe avuto una tale forza d’urto da procurare non poche noie al governo Badoglio.
Scrive in proposito Fabrizio Canfora nella sua bella prefazione alle “Pagine sparse” di Mimì Pàstina, raccolte da Nicola per l’ Adriatica editrice nel 1971, che, in una situazione che vedeva il governo Badoglio teso a ricostruire e a rinsaldare l’ossatura del vecchio stato prefascista, a fare del Mezzogiorno una sorta di Vandea, di contraltare delle forze democratiche più avanzate, pre-minenti e impegnate nella guerra di resistenza nel Nord, era naturale che i democratici del Sud, per deboli che fossero, tentassero con ogni mezzo di saldare moralmente e politicamente Nord e Sud della penisola.
Primo obiettivo del locale gruppo dirigente del Partito d’Azione, quindi, fu quello di strappare dal governo brindisino il decreto sulla libertà di stampa, sul diritto dei partiti a operare alla luce del sole e a disporre d’un proprio organo d’informazione.
Fu così che, a un mese dall’insediamento del re e del suo seguito a Brindisi, nell’ottobre venne lanciato, in violazione all’ancora vigente legislazione fascista sulla stampa, il primo numero dell’”Italia libera”: al fine, appunto, di provocare la reazione del locale governo e di indurre quindi gli alleati, sensibili in questioni di forma, ad intervenire.
E la reazione, naturalmente, non mancò. Quel “foglietto striminzito di quattro pagine” - come l’ebbe a definire lo stesso Nicola Pàstina - fu infatti considerato clandestino e, fatto sequestrare, diede luogo all’incriminazione e all’arresto di Vincenzo Calace, dello stampatore Francesco Petrarota, e - si dice per errore, ma non ne sono tanto convinto - di Domenico Pàstina.
A base però della pronta reazione repressiva - scrive ancora Canfora - era senza dubbio l’intonazione trasparentemente repubblicana del giornale, il quale - aggiunge Nicola Pàstina in un articolo pubblicato nel 1966 in un fascicolo della rinata “Rassegna pugliese” - poneva con chiarezza i problemi della nuova Italia ed accusava senza riguardi la monarchia e gli uomini del suo entourage, recando di conseguenza un grave colpo alla realizzazione del progetti brindisini.
Tra gli articoli apparsi su quel foglio, infatti, vi erano: un editoriale firmato da Michele Cifarelli (“Il dovere supremo”), in cui si sosteneva la necessità di concorrere con gli alleati nella lotta contro i tedeschi se si voleva in qualche modo “contare” e riscattare il paese; un’intervista al conte Carlo Sforza, tornato in Italia il 19 ottobre del ’43 dopo lunghi anni di esilio in America, e nella quale il futuro ministro degli esteri criticava aspramente l’idea di Churcill che l’Italia dovesse raccogliersi attorno al re e in cui si chiedeva “un netto colpo di scopa del governo italiano”; un trafiletto dedicato al ministro della Real Casa Acquarone, descritto come un “Metternich in 64°”; un articolo, non firmato, di Vincenzo Calace, pieno di umanità e di bontà, sul tema dell’epurazione e contro le liste di proscrizione e nel quale con coraggiosa fermezza si protestava contro la “caccia all’uomo” che si verificò nei primi mesi dopo la caduta del fascismo; e soprattutto uno scritto di Domenico Pàstina contro la monarchia e i ministri del governo Badoglio, da Pàstina giudicati personaggi mediocri e incapaci di “liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo”.
Ma leggiamo insieme, perché ne vale la pena, alcuni passi di questo scritto, tutto grondante sdegno e ironia.
“Domandiamo innanzi tutto - scriveva Mimì Pastina - se esiste un Governo regolarmente funzionante. Or è un mese, il Maresciallo Badoglio abbandonò Roma e i suoi ministri civili e si rifugiò a Brindisi con i ministri militari. Nulla si sa della sorte di quegli infelici che dovrebbero considerarsi tuttora in carica, dato che nessun prov-vedimento ufficiale è stato preso nei loro confronti (…): Certo si è che, venuta meno la compagine ministeriale, il Maresciallo si è (…) circondato di gente di statura troppo piccola per poter dirigere il popolo italiano nel momento di eccezionale gravità che si attraversa. Un ministro della real casa, alcuni prefetti educati e allevati in regime fascista non possono e non potranno mai liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo. Chi si è avvezzato a dare ordini a colpi di scudiscio, a vedersi davanti schiene prone di lacchè compiacenti, non avrà mai la capacità di discutere liberamente i problemi dell’ora da paro a paro con liberi cittadini degni di questo nome (…)”.
E aggiungeva: “Alle cariche pubbliche vengono chiamati uomini screditati o dal passato politico inquinato da filofascismo; dalla Radio di Bari sono stati eliminati elementi di alta cultura e di provata fede antifascista per ridare alla propaganda la vuota e bolsa intonazione dei tempi fascisti.”
“Il Partito d’Azione - dunque - tradirebbe la sua missione, se non gittasse alto il suo grido di allarme; chi vieta la trasmissione radiofonica degli inni di Mameli e di Garibaldi dimostra tanta ottusità politica, dà prova di essere permeato di tanto fascismo, da meritare il più aspro anatema! Né ci si venga a dire che il Governo Badoglio ha molto da fare e che è opera antipatriottica creargli delle difficoltà: nulla di più falso. Il Governo (…) del Maresciallo Badoglio, nel mese trascorso, non ha fatto nulla e per l’avvenire non ha intenzione di far nulla. Vi sono problemi gravi e angosciosi e urgenti, quali l’assistenza, l’alimentazione, la finanza pubblica, il riordinamento dell’esercito, che non vengono, prima che risolti, neanche affrontati, neanche proposti. Vi è poi il problema formidabile e fondamentale della guerra. Noi siamo in guerra contro la Germania, ma dove sono i nostri soldati, dove sono i nostri volontari? I cittadini animosi ed entusiasti, che a migliaia arrivano per arruolarsi da tutti i territori, liberi od occupati d’Italia, sono sistematicamente respinti dalle autorità militari. Le iniziative individuali sono severamente proibite. E allora che cosa si aspetta? (...) Finiamola - dunque - con i sistemi ermetici di governo! Il popolo ha il diritto di sapere ciò che si vuole e dove si va e i governanti hanno il dovere di far partecipare il popolo al governo. Diversamente andremo incontro a un fascismo peggiore”.
E concludeva: “Noi, come combattemmo il fascismo, combatteremo anche, se sarà necessario, e con tutte le nostre forze, questa che potremmo definire una degenerazione del fascismo.”
Che forza, in queste parole, così dirette, così esplicite, e quanto lontane da certo politichese dei giorni nostri. E quanta passione civile esse riflettono!
Sembra proprio di vederlo Mimì Pàstina, lui che fortunosamente, nell’ottobre del 1930, era scampato alla “retata” dei giellini operata in varie città d’Italia dall’OVRA, la polizia politica che il regime aveva istituito per combattere e reprimere l’opposizione al fascismo, sembra proprio di vederlo ergersi nella sua gentile persona e affiancarsi con fierezza ai tanti suoi compagni di “Giustizia e Libertà” che invece erano finiti arrestati (e fra i quali Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, e lo stesso Vincenzo Calace) e il cui maggiore elogio è scritto proprio nelle parole della sentenza del Tribunale speciale fascista che condannandoli nel 1931, insieme ad altri antifascisti, e nell’illusione di bollarli per sempre e giustificarne la condanna, li aveva definiti “uomini audaci, al di sopra di ogni personale interesse, capaci di tutto pur di abbattere il regime”.
E che implacabile disanima dei problemi della nuova Italia, che lucida consapevolezza della vera natura del governo Badoglio che, nel giro di qualche ora, con l’arresto di Calace, dello stampatore Petrarota e di Mimì Pàstina (non trovato in casa, questi si costituì il giorno dopo), manifestò chiaramente che non solo non aveva intenzione di procedere al ripristino della libertà di stampa, di cui il paese da diciotto anni era stato privato, ma che non intendeva riconoscere ai partiti antifascisti il diritto di organizzarsi e propagandare liberamente le loro idee e i loro programmi, né accordare un minimo di credito e fiducia a tutti coloro che avevano fama di antifascisti.
Quella operazione poliziesca, dunque, non fu solo un tentativo di rappresaglia e di intimidazione contro degli azionisti che ponevano al primo punto del loro programma la istanza repubblicana, ma anche un atto di furberia provinciale di chi riteneva di poter continuare a spadroneggiare impunemente nella vita politica della nazione, e per di più di una nazione ridotta a due regioni del Mezzogiorno, sui cui sentimenti filomonarchici si faceva ancora assegnamento.
Ma si vide ben presto quanto fosse sbagliato questo calcolo.
L’arresto dei due azionisti, infatti, ricorda ancora Nicola Pàstina in quell’articolo del 1966, e specialmente di Vincenzo Calace, un antifascista che aveva trascorso tredici dei suoi anni migliori tra carcere e confino, determinò una penosissima impressione in tutte le nostre città, e “fu un tipico esempio di boomerang che si risolve in danno di colui che lo ha lanciato”.
Vi fu, infatti, l’autorevole intervento del conte Sforza, del giornalista Alberto Tarchiani, poi ministro del secondo governo Badoglio e per dieci anni ambasciatore italiano negli Stati Uniti; vi fu la veemente insurrezione dei partiti politici; se ne parlò persino alla Camera dei Comuni, a Londra; e i Comandi alleati, sensibili – come abbiamo già detto – alle questioni di forma, non poterono negare l’enormità di quella odiosa misura poliziesca.
Così l’occasione fu utilissima e servì a rendere clamorosamente evidente quale fosse il preteso nuovo abito democratico di Vittorio Emanuele, di Badoglio, dei generali e dei ministri di corte; i quali furono a malincuore obbligati a fare marcia indietro e a concedere un minimo di libertà di stampa, la libertà di riunione e di propaganda politica e, ovviamente, a scarcerare, dopo soli otto giorni di detenzione nel carcere barese di Via Carrassi (una detenzione che, in verità, ricorda suo fratello Nicola, Mimì Pàstina prese con spirito e ironia e se ne divertì molto) i due azionisti e il tipografo Petrarota.
Certo, si potrebbe obiettare che prima o poi la libertà di stampa si sarebbe ottenuta, e che nessun governo avrebbe potuto a lungo farsi scudo della legislazione fascista sulla stampa.
L’episodio, cioè, certamente non va sottovalutato, ma - come d’altra parte riconosce lo stesso Nicola Pàstina - nemmeno sopravvalutato.
E’ innegabile, tuttavia, che l’arresto dei nostri azionisti fu l’occasione propizia, la causa determinante, diciamo pure il pretesto, per accelerare i tempi, consacrare tangibilmente la decadenza morale, la natura illiberale di quella legge sulla stampa, che risaliva al 1928, e costringere il governo Badoglio a un primo riconoscimento del nuovo assetto democratico.
Un episodio, insomma, che pure al di là dei meriti che Giovanni De Luna ha riconosciuto al Partito d’Azione, non sarebbe giusto far passare sotto silenzio.
Per questo, allora, a 64 anni dalla pubblicazione dell’”Italia libera”, a 48 anni dalla morte di Domenico Pàstina e a trent’anni esatti da quella di Nicola Pàstina, ne parliamo ancora oggi, e con la speranza, naturalmente, che se ne tragga insegnamento.
Domenico di Palo


* Il testo qui riportato (uscito nel 2007 a puntate sul “Giornale di Trani” e poi ripubblicato in edizione aggiornata nel 2009 da Landriscina Editrice) è la relazione da me svolta nel Convegno su “I fratelli Pàstina e la difficile nascita della democrazia a Trani e in Italia”, organizzato a Trani il 16 giugno 2007 dall’Associazione “Obiettivo Trani” e dalle Sezioni di Trani e di Andria della “Società di Storia Patria per la Puglia”, in collaborazione con il Comitato di Bari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, e al quale intervennero anche i professori Franz Brunetti, Giuseppe Brescia e Giovanni de Gennaro.

“RENATO E I GIACOBINI” ALLA LIBRERIA PALOMAR *

Soltanto poche parole, e innanzitutto per ringraziare il prof. Gaetano Bucci, che con la sua consueta efficacia discorsiva vi parlerà del mio ultimo libro “Renato e i giacobini”; l’Ufficio stampa della Palomar, e soltanto quello; e, naturalmente, tutti voi che davvero mi onorate con la vostra presenza.
Quanto al mio libro, poi, non credo di dovere dire molto.
Penso, infatti, che in queste occasioni l’autore, lasciando ai critici il compito di chiosare il suo testo, debba limitarsi (così come farò leggendovi alcune pagine del libro) a proporre un approccio diretto alla sua opera, anche per evitare di sovrapporre le intenzioni originarie ai risultati che, in fondo, sono quelli che contano.
Tuttavia, e con la speranza che possano in qualche modo essere utili, mi preme fare alcune precisazioni.
In “Renato e i giacobini”, (al di là del piacere di scrivere di un personaggio come Renato, che è un intellettuale di provincia con l’uzzolo della letteratura sempre vagheggiata e saltuariamente praticata, ironico e autoironico, narciso e istrione ma anche tenero e appassionato); in “Renato e i giacobini”, dunque, attraverso la parabola esistenziale del suo protagonista, attraverso i brandelli di vita, pubblica e privata, che Renato viene rievocando per accumulare il materiale necessario per il romanzo che ha deciso di scrivere, io ho voluto raccontare soprattutto la storia di una generazione, o meglio di un gruppo di giovanotti (i giacobini) che negli anni ’60 e ’70, con le loro debolezze e i loro slanci, hanno sognato di cambiare il mondo, e che purtroppo poco hanno stretto tra le mani, e che per questo, anche di fronte ai vizi e ai mali che ancora oggi incancreniscono il Sud Italia, hanno finito con l’assumere un atteggiamento mentale e una disposizione sentimentale ormai svuotati di illusioni e di inutili attese.
Di qui, allora, la sostanziale disinvoltura con la quale nel libro si affrontano i problemi, anche i più seri, e di qui la leggerezza e la sobrietà che sottendono i diversi temi che vi sono sviluppati, che siano amari o spiritosi, dall’infanzia di guerra agli anni della giovinezza inquieta, dalle grandi amicizie solidali all’impegno politico totale e alle grandi lotte ideali, dal degrado politico sociale ed esistenziale all’incipiente vecchiaia con le solitudini e le malat-tie.
Per prevenire, poi, una domanda che ormai mi fanno in molti sulla eventuale dimensione autobiografica del libro, dico subito che, certo, Renato sono io, ma soltanto al 5%, nel senso che il mio libro è sicuramente autobiografico, ma – come accade in un’opera letteraria – si tratta pur sempre di un’autobiografia filtrata o manipolata, per così dire, per esigenza… di copione.
In ogni caso, va bene così, e ognuno vi legga quello che vuole.
Per concludere permettetemi di comunicarvi che naturalmente sono felicissimo che il mio libro si legga – come mi riferiscono – tutto d’un fiato, e che piaccia molto anche agli “addetti ai lavori”.
Certo, so bene che per il successo editoriale, oggi, biso-gnerebbe scrivere soprattutto di commissari di polizia siciliani e di avvocati che fanno le loro belle indagini giudiziarie, o con-fezionare tormentate storie d’amore tra adulti e adolescenti.
Ma, come non c’è niente di male a fare tutto questo, non c’è niente di male a sperare, nel mio caso, in un colpo di…fortuna, e quindi a pensare che si possa essere letti anche scrivendo di personaggi come Renato e come i suoi amici “giacobini”.
E, detto questo, credo proprio che basti. Grazie.
Domenico di Palo


* Bari, 13 aprile 2007

SU NINO PALUMBO PERCHE’ TANTO OBLIO? *

Caro direttore,
ti scrivo perché la recente pubblicazione di un nuovo libro su Nino Palumbo non solo mi ha fatto immenso piacere per la rinnovata attenzione all’opera di un caro amico che fu scrittore serio e meditato, ma mi ha messo anche, per così dire, un po’ di veleno sulla coda ed io, nonostante la mia non più giovane età, mi sento nella condizione di chi se non parla… scoppia.
Il libro, dunque, uscito nel 2004 da Marsilio a cura di Francesco De Nicola, professore di letteratura italiana all’Università di Genova, e di Pier Antonio Zannoni, giornalista professionista che lavora alla RAI genovese, raccoglie le relazioni presentate al convegno nazionale di studi “Nino Palumbo, vent’anni dopo” (da cui il titolo del volume) che si è tenuto a Rapallo il 20 giugno 2003.
Dopo, infatti, le parole introduttive dell’illustre storico della letteratura italiana Giuliano Manacorda, che ha seguito fin dagli esordi la produzione narrativa di Nino Palumbo, ecco un denso saggio sull’”Itinerario della scrittura palumbiana” di Sebastiano Martelli, il critico già autore di una monografia sullo scrittore tranese uscita nel 1979 e che successivamente ha svolto un’analisi accurata degli inediti di Palumbo. Ed ecco la relazione di Luigi Surdich su “Gli impiegati di Palumbo”, ossia sui problemi di coscienza dei protagonisti dei romanzi “Impiegato d’imposte” e de “Il giornale”; ed ecco uno scritto di Elvio Guagnini su “La mia università”, il bel libro di racconti che Palumbo pubblicò da Bastogi nel 1981; e poi un curioso intervento di Massimo Bacigalupo su “Palumbo nel Tigullio”, dove lo scrittore si trasferì con la moglie Donatella nel 1951 (aveva trent’anni) per coltivare nella solitudine di S. Michele di Pagana la vocazione letteraria che gli era scoppiata dentro. Ed ecco, di Claudio Marabini, un altro studio sui racconti del Nostro (“Alcuni racconti di Palumbo”), a cui segue un interessante saggio di Francesco De Nicola, il curatore del volume, su “’Prove’: una rivista e un premio letterario”, che ripercorre la storia della rivista che Palumbo fondò nel 1960 (e alla quale collaborarono nomi prestigiosi della letteratura italiana, tra cui Leonardo Sciascia, che vi pubblicò i primi capitoli de “Il giorno della civetta”) e del premio “Rapallo-Prove” per la narrativa inedita, da lui voluto nel 1962 e della cui giuria, prima presieduta da Maria Bellonci e poi dall’indimenticato Mario Sansone, a testimonianza dell’importanza di quella manifestazione e della capacità di Palumbo di riunire intorno a sé rappresentanti altamente qualificati della letteratura e della critica italiane, fecero parte Elio Filippo Accocca, Giorgio Bàrberi Squarotti, Lanfranco Caretti, Bartolo Cattafi, Giuliano Manacorda e Carlo Salinari.
Chiude il volume uno studio sull'ultimo Palumbo (Dal "Serpente malioso" a "Domanda marginale") di Daniela Bisello Antonucci.
Il libro, dunque, come si evince dalle relazioni riportate, è un ennesimo eloquente e significativo contributo alla già ricca bibliografia critica sul compianto scrittore tranese, un contributo che giustamente Giuliano Manacorda, a conclusione del suo intervento introduttivo, definisce “un atto dovuto, all’uomo e allo scrittore davvero troppo a lungo obliato nella sua prima patria pugliese e nella seconda, Rapallo. E che oggi - scrive l’illustre critico romano - vogliamo riprendere per ricordare l’uomo caro e sincero, ospitale, e lo scrittore che avendo segnato ad alto livello una stagione della nostra letteratura, penso che meriti non soltanto le parole che noi oggi gli dedichiamo, ma una nuova e approfondita considerazione da parte dell’editoria, della critica, dei lettori”.
Parole sacrosante, aggiungo io, di fronte alle quali non ci resta che annuire in silenzio o, al limite, aggiungere a fior di labbra: E’ vero, è tutto vero!...
Ma allora, mi dirai, perché aprire questa lettera parlando di “veleno sulla coda”?
Perché, ti dico subito, a fronte del piacere per un giudizio che giustamente rivendica all’opera di Palumbo uun ruolo più significativo nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento, ecco il mio rammarico per l’oblio nel quale invece Egli è caduto nella sua “prima patria pugliese”, a Trani e nella regione; ed ecco la mia amarezza e la mia delusione per l’inutilità del grande impegno che, per più di due anni, insieme all’amico Eduardo De Simola di “Obiettivo Trani”, io ho profuso per coinvolgere l’Amministrazione comunale in un'iniziativa che, a venti anni dalla sua morte, ricordasse degnamente lo scrittore tranese.
Eppure da parte del sindaco, con il quale, in più occasioni, l’amico De Simola ed io abbiamo avuto l’onore di parlare della cosa, non sono mai mancate parole di fervida adesione alla nostra proposta (“Stia tranquillo, professore. Faremo tutto quello che lei vuole per Nino Palumbo”); né sono mancate, come a sottolinerare l’assoluta serietà di questa adesione, solenni dichiarazioni di principio (“Noi investiamo tutto sulla cultura!”).
Di qui l’invito ufficiale, per sollecitarne la collaborazione, a proseguire i miei contatti con il prof. Sebastiano Martelli, animatore, con Francesco De Nicola, del convegno organizzato a Rapallo il 20 giugno del 2003 e che oggi certamente è lo studioso più impegnato delle opere di Palumbo.
Di qui l’idea di ripubblicare con l’editore Avagliano (quello del best seller “Il resto di niente” di Enzo Striano, e con il quale sono stati già definti spese e titoli) le due più importanti opere di Palumbo, “Il giornale” e “Pane verde”.
Di qui la proposta di una giornata di studi da tenere a Trani con la partecipazione di studiosi e docenti delle Università di Bari, Salerno, Roma e Genova.
Di qui, infine, la previsione di incontri con studenti e insegnanti delle scuole secondarie di Trani, previa distribuzione alle scuole delle due opere riedite dello scrittore.
Di qui, insomma, un progetto qualificato, per la realizzazione del quale il prof. Martelli assicurava tutta la sua disponibilità a dare una collaborazione “per il valore - egli scriveva in una lettera al sindaco di Trani del 9 dicembtre 2003 - che l’opera di Palumbo conserva mella letteratura italiana contemporanea e per i rapporti personali di amicizia che mi hanno legato allo scrittore.”
Ma, nonostante tutto, cominciano a passare settimane, passano mesi, passano anni e per Nino Palumbo al Palazzo di Città non si muove un dito. E quando alle nostre sollecitazioni (quella mia e di De Simola) viene risposto di ricontattare il prof. Martelli per ribadire la precisa volontà dell’Amministrazione comunale “di dare corpo ad una iniziativa che onori degnamente la memoria del nostro illustre concittadino”, torno a sperare che si tratti davvero della volta buona…
E, naturalmente, capita che un giorno l’amico De Simola mi faccia sapere che è tutto rinviato all’anno nuovo (?) e che per ora su Palumbo al Comune non si pensa proprio niente.
Ecco, allora, caro direttore, perché c’è veleno sulla coda, ecco perché sono incazzato nero, ecco perché vado dicendo in giro che in futuro non mi presterò più a fare certe figure con il prof. Martelli; ed ecco perché mi chiedo come mai ho ancora a che fare con i politici.
Hai ragione – mi dirai – ma la triste esperienza della biblioteca comunale, da anni ancora impraticabile nonostante le sempre più ferme promesse di muovere mari e monti per riportarla al suo antico splendore, avrebbe pur dovuto insegnarmi qualcosa.
Ma come vedi, purtroppo, la mia ingenuità non conosce confini.
Nella vita, si sa, non si finisce mai d’imparare, né penso che, per quanto mi riguarda, finirò domani o dopodomani, quando con l’amico De Simola mi recherò dal sindaco di turno e gli chiederò, per esempio, come si muoverà l’Amministrazione comunale per celebrare degnamente, nel 2006, il centenario della morte di un altro grande “figlio” di Trani come Valdemaro Vecchi.
Cari saluti, e grazie per l’ospitalità.
Domenico di Palo

* In “Il Giornale di Trani , 8 luglio 2005

GLI ANNI DEL “TRANESIERE” E DI “SINGOLARE/PLURALE” *

Ho conosciuto Raffaello Piracci quand’ero ancora un bambino.
In quel tempo, infatti, Piracci, amico di alcuni zii materni, frequentava spesso casa mia, in Via Giustina Rocca, la strada in cui sono nato e dove ho abitato per più di venti anni.

Si tratta, d’altra parte, di un’amicizia ricordata da lui stesso nel libro appunto dedicato a quella strada, un libro che, non perché vi sono direttamente coinvolto, è tra le opere di Piracci che ancora oggi preferisco.
“Via Giustina Rocca a Trani”, infatti, che giustamente fu definito un “romanzo d’ambiente”, è un libro che si legge tutto d’un fiato ed è ricco di pagine davvero suggestive per la straordinaria capacità di rievocare, con tratti cordiali e misurati, tipi e scenette di un tempo ormai passato per sempre.

Penso insomma che con questo libro Piracci ci abbia dato (insieme ad “Accadde a Trani nel ‘43” che, nella struttura e nel contenuto, in gran parte anticipa quel “Trani in guerra” pubblicato quattro anni fa dal “Giornale di Trani”) una delle sue prove migliore di studioso impegnato a ricostruire certo colore locale e certa storia più intima della nostra città e che con la sua attività di storico e di pubblicista caratterizza di sé una stagione molto feconda della cultura del ‘900 a Trani, la stagione del “Tranesiere” (1959 – 1992), la sua creatura prediletta, e che, a ragione, egli definì “il periodico tranese più duraturo del secolo”.

E fu proprio col “Tranesiere” che, dopo aver fondato nel 1978 “SINGOLARE/PLURALE”, il mio periodico di critica e costume (e vengo adesso all’argomento sul quale mi è stato chiesto di intervenire), ebbi l’avventura, per tredici anni, fino al 1991, di misurarmi con grande impegno ma con grande lealtà.

Rispondevo, d’altra parte, nel modo che mi pareva più adeguato alle parole che Piracci, recensendo un numero del mio periodico, aveva scritto nel marzo del 1979 sul “Tranesiere”.
“Noi del ‘Tranesiere’ – aveva scritto tra l’altro – non possiamo ignorare questa pubblicazione, anche perché la nascita di un nuovo organo di stampa nella nostra città non può considerarsi priva di riflessi positivi, specie sotto il profilo culturale, e le rivolgiamo i nostri auguri. E’ vero – aggiungeva Piracci – non ci trova d’accordo la sua impostazione ideologica, ma di tanto in tanto ci offre l’occasione di verificare la nostra e soprattutto la nostra coerenza, in una dignitosa professione di umiltà che non deve farci credere migliori degli altri, ma tenerci in continua tensione di progresso.”

Era il suo caratteristico modo di affrontare le questioni, di piegarli cioè alla sua visione del mondo ma senza togliere ad esse autonomia di vita e di funzione.
Il Prof. Piracci, infatti, pur saldo nelle sue idee, aveva un profondo rispetto per chi professava idee diverse. Purché ci fossero, naturalmente, queste idee, e purché non ci si irretisse in tinte forti e nella faciloneria.
Per questo finì col detestare la volgarità e il chiasso di un giornale che, come meteora, in quegli anni circolò a Trani,

E per questo, soprattutto nei colloqui privati, era capace di sottile ironia nei confronti di chi s’improvvisava storico della città, ma, alieno, com’egli era dai pettegolezzi, senza andare mai sopra le righe.
Non venendo mai meno, insomma, alla particolare natura del suo moderatismo, per il quale se è vero che, con gli anni, sulle pagine del “Tranesiere”, egli sfuggì alla polemica (qualcuno gliene fece una colpa) e negli studi storici a volte sospese il giudizio critico, è anche vero che, libero da ogni preconcetto, era capace di apprezzare la serietà dell’impegno e l’onestà intellettuale, quella serietà e quell’onestà che, a prescindere dal fervore con cui sul mio giornale mi capitava a volte di affrontare la discussione, ad ogni numero di “SINGOLARE/PLURALE”, bontà sua, egli continuò a riconoscermi.
Ed io, naturalmente, gli fui molto grato, e da parte mia, ricambiandogli la stima, cominciai a considerare non più come un limite ma come un elemento distintivo il suo moderatismo, e sempre più spesso gli diedi atto di buon senso e di equilibrio nel giudizio e nel comportamento.
Un rapporto, dunque, per così dire non di buono ma di ottimo vicinato quello intercorso fra il “Tranesiere” e “SINGOLARE/PLURALE”, e per esso fu possibile realizzare quella che alcuni nostri comuni lettori del tempo, “al di là di ogni autonomia e distinzione ideologica e politica”, definirono una “sintesi culturale, sociale e civile”.

E’ quanto, ad esempio, scrisse da Milano l’Avv. Giuseppe Sarni in una lettera al mio giornale che pubblicai nel numero 34 del 1984.
Mi piace oggi ricordare questa lettera perché, più di ogni altra mia considerazione, è la testimonianza oggettiva di come in quegli anni le due diverse esperienze del “Tranesiere” e di “SINGOLARE/PLURALE” si siano sviluppate e abbiano potuto convivere lealmente.

Nella sua lettera, infatti, l’Avv. Sarni, tra l’altro, diceva: “… Apprezzo il contenuto del periodico da lei diretto, si tratta di un ulteriore e notevole contributo al pur cospicuo patrimonio culturale di Trani…” E aggiungeva: “Figure come quelle del Prof. Piracci e del Prof. di Palo hanno per me qualcosa di mistico e mitico allo stesso tempo, qualcosa che riporta ai tempi del Romanticismo nonché ai tempi degli intraprendenti cronisti della old America, del western e del new deal…”. E ancora: “Il vostro ruolo è di insostituibile efficacia nel far da sprone e pungolo alla città: Voi siete la libertà di stampa! Il giorno in cui le voci delle vostre riviste dovessero tacere così come quella del grillo parlante di Pinocchio, la città si sarebbe privata della voce della propria coscienza e sarebbe non dissimile da un burattino legnoso privo di anima…”. E concludeva: “SINGOLARE/PLURALE” e “Il Tranesiere”, ognuno a proprio modo, non sono tesi e antitesi, bensì componenti integranti di una sintesi culturale, sociale e politica per Trani, al di là di ogni autonomia e distinzione ideologica e politica…”.

Di fronte a lodi così sperticate, vi confesso che provai non poco imbarazzo, per cui rispondendo all’Avv. Sarni, lo ringraziai sì per le sue parole, ma gli dissi anche di considerarle un po’ eccessive.
Certo – aggiungevo – le condizioni difficili in cui svolgevamo il nostro lavoro (un po’ meno, in verità, lo erano per “Il Tranesiere”, che contava su una rete più consolidata di abbonati e quindi su migliori risorse finanziarie), la dimensione ancora artigianale nella quale si confezionavamo i due periodici, potevano richiamare alla mente dell’avvocato certi tempi mitici, ma, almeno per quanto mi riguardava, avrei preferito – gli dissi – essere calato in dimensioni meno eroiche. E soprattutto perché ero pienamente consapevole dei miei limiti.

Come dimenticare infatti che l’esperienza di ogni giorno (eravamo nel 1984 ed erano passati soltanto cinque anni dall’uscita del primo numero del mio giornale) più volte mi aveva costretto a ridimensionare i miei progetti originari.

Quanto poi alla “sintesi culturale, sociale e politica” in cui l’Avv. Sarni vedeva integrate le esperienze del “Tranesiere” e di “SINGOLARE/PLURALE”, da parte mia non c’era nulla da eccepire, naturalmente, dal momento che i due periodici continuavano a coesistere. Ma, rischiando forse una gaffe, aggiungevo che essa si legittimava non, come egli riteneva, “al di là di ogni autonomia e distinzione ideologica”, bensì proprio per questa autonomia e questa distinzione, che, dopotutto,, dei due periodici era la ragione di essere, e quindi di durare.
Al Prof. Piracci, attento lettore come sempre del mio giornale, non sfuggì la mia puntualizzazione, ma non tardò a capire che si trattava soltanto di una orgogliosa rivendicazione di identità e non – come maliziosamente aveva insinuato qualcuno – della pretesa di un mio primato nella pubblicistica tranese di quegli anni, un primato che, d’altra parte, non solo non aveva alcun fondamento, ma sarebbe stato sciocco e di cattivo gusto sostenere proprio nei confronti di chi, come il direttore del “Tranesiere”, parlando del mio giornale aveva fatto nel passato “dignitosa professione di umiltà”.

A quale identità, comunque, io mi richiamassi è presto detto.
Se “Il Tranesiere”, infatti, seguendo le chiare e ormai consolidate motivazioni originarie, continuava:
- a valorizzare da par suo il grande patrimonio storico di Trani;
- a contribuire alla dialettica sulla problematica cittadina;
- e a registrare puntualmente gli avvenimenti locali;
“SINGOLARE/PLURALE”, nato per recuperare alla riflessione concreta sulle cose, al dibattito democratico i delusi da certi esiti terribili della lotta politica (erano gli anni di piombo del terrorismo), e quindi teso a ricucire il privato al pubblico, il personale al politico, pur non perdendo di vista la realtà locale, già cominciava invece, nonostante la povertà dei mezzi a disposizione ma grazie anche alla collaborazione di non poche “firme” prestigiose, ad assumere quella fisionomia che lo avrebbe caratterizzato come punto di riferimento come un punto di riferimento nel dibattito politico e culturale della Terra di Bari prima e di tutta la Regione poi.

Vogliate scusarmi se in un incontro destinato a celebrare Raffaello Piracci io intervenga con un discorso che potrebbe sembrarvi soltanto auto-referenziale.
Ma serve anche questo per mettere nella giusta luce il rapporto intercorso tra i nostri due periodici.
Giacché accanto alla stima di cui il mio giornale generalmente godeva si manifestarono ben presto non solo serie preoccupazioni di carattere economico (l’autofinanziamento, che fin dal numero di saggio avevo praticato per amore di libertà, si rivelava assolutamente inadeguato per la sopravvivenza del periodico), ma anche una pesante ostilità da parte di certi ambienti politici cittadini che, per essere ancora immaturi alla libera circolazione delle idee e al dibattito democratico, cominciarono a sabotare con ogni mezzo “SINGOLARE/PLURALE”, smentendo decisamente quello spirito di tolleranza che aveva ispirato all’Avv. Giuseppe Sarni la lettera di cui vi ho già parlato, e finendo col rendermi più preziosi d’altra parte l’interesse e l’attenzione con i quali, scrivendone puntualmente sul “Tranesiere”, Raffaello Piracci continuava a guardare alla mia attività di pubblicista e di letterato.

Mi avviavo, così, a concludere la storia del mio periodico, una storia faticosa ma sempre esaltante, e destinata, nonostante tutto, a rimanere a lungo nella memoria storica della città e della regione, e al di là dell’amara sensazione che allora ebbi di aver perduto tanti anni a gridare nel deserto.

Una sensazione questa che, confidata qualche mese dopo a Piracci (anch’egli nel frattempo, ormai gravemente ammalato, aveva chiuso “Il Tranesiere”), in un ultimo moto di stima e di solidarietà, che lo portò simpaticamente a identificarsi con la mia esperienza, così fu da lui commentata in una lettera scrittami il 24 marzo del 1993:
“… Quanto alle tue considerazioni sul ‘gridare nel deserto’, esse trovano in me un’eco che rimbalzerebbe per tutto il testo della presente, dopo oltre trent’anni di macerazione in una pubblicistica che trovava favore solo in una sparuta minoranza di gente aliena dal pettegolume fin e a se stesso.”

Così allora egli giudicava molti dei lettori del suo periodico e, come per i venticinque lettori di manzoniana memoria, riduceva ad una “sparuta minoranza” quelli che lo avevano realmente capito e seguito fino alla fine.
Io non ho elementi per dire se le cose fossero davvero così, ma sono comunque sicuro che in quella “sparuta minoranza” di estimatori c’erano tutti gli amici qui presenti che, ricordandolo oggi a dieci anni dalla sua morte, contribuiscono decisamente a valorizzare la sua meritoria opera di storico e di pubblicista innamorato di Trani.
Domenico di Palo



* Intervento svolto nel Convegno su “Raffaello Piracci, Trani e il suo ‘Tranesiere’ - Ricordo di R. Piracci a dieci anni dalla morte”, tenuto a Palazzo Palmieri, Trani, il 27 marzo del 2004. Poi pubblicato su “Il Giornale di Trani” del 28 maggio del 2004.

I 40 ANNI DI PITTURA DI VINCENZO ROMANELLI *

Ho conosciuto Vincenzo Romanelli più di 30 anni fa, nel 1969, in occasione di una mostra da lui organizzata al Circolo Unione di Bari e per la quale mi capitò di scrivere una presentazione in catalogo.
Da allora non ci siamo più rivisti, o meglio qualche volta ci siamo salutati per strada, ma non ho saputo più nulla della sua attività di pittore e, al di là dei quadri esposti nel 1972 qui a Trani nello”Studio 188” di Michele Ladogana, non ho più avuto modo di vedere le sue opere.

Ma ecco ora, improvvisamente, questa sua retrospettiva e, con essa, ecco questa monografia che, curata dal critico d’arte Mauro Corradini, celebra ben quarant’anni di attività artistica (Mauro Corradini, “Vincenzo Romanelli – 40 anni di pittura”, Manerbio 2002).
E, ancora di più, ecco Romanelli che, come se avessimo continuato a frequentarci in tutti questi anni, in modo assolutamente informale e con un tono estremamente sommesso, com’è d’altra parte nel suo stile di uomo discreto e gentile, mi chiede di parlare del libro.

Ed io, piacevolmente sorpreso da tutte queste novità e in verità anche un po’ spiazzato dalla singolarità della sua richiesta, non sono stato capace di dirgli di no, pur rischiando di assumere un ruolo che non è certamente di mia competenza.

Vi confesso, infatti, che non mi ritengo in nessun modo un critico d’arte, ma un letterato piuttosto, che per ragioni molto contingenti qualche volta si è trovato a fare incursioni in un campo (quello artistico, appunto) non privo di insidie.
Per questo allora, per evitare ogni rischio e a scanso di equivoci, stasera mi limiterò a fare soltanto alcune considerazioni brevi e alla buona sul libro, sperando in ogni caso di non deludere le vostre aspettative.

Comincerò intanto a sottolineare due aspetti per così dire preliminari.
Il primo è relativo alla data di pubblicazione del volume e alla nota fuori testo nella quale Romanelli scrive: “Nel licenziare questa mia monografia, che illustra tanta parte della mia attività artistica, non posso non ringraziare mia moglie Etta e i mie figli Isabella, Nico e Alessandra, i quali con affetto e collaborazione hanno sostenuto il mio impegno di pittore e vinto la mia ritrosia per rendere possibile questa pubblicazione…”.

Ebbene, se queste sono, per così dire, le sue ragioni genetiche, questo libro, finito di stampare nel 2002, proprio in coincidenza dell’ottantesimo anno di età di Romanelli, è non solo il più bel regalo di compleanno che si possa fare ad un artista, ma soprattutto un grande segno di amore e di stima, uno di quei segni che davvero gratificano un’intera esistenza.
Il secondo è che, dopo aver visto la monografia, dopo aver letto la bella ed esauriente presentazione di Mauro Corradini e le (27) testimonianze critiche raccolte in appendice, dopo aver guardato le oltre novanta tavole di opere che, riassumendo appunto quaranta anni di attività artistica, corredano il libro e che in parte vengono riproposte in questa mostra, mi sono chiesto se non sia riduttivo parlare di Romanelli come di un pittore per così dire a mezzo servizio, come del resto, nei “cenni biografici” di pag. 97 e con la naturale modestia che lo contraddistingue, egli stesso sostanzialmente ama definirsi.

E riduttivo perché, sebbene condizionato da particolari vicende biografiche (tra cui persino una noiosa allergia ai colori), vicende che con l’arte non hanno nulla a che fare e che all’arte anzi si contrappongono come la notte al giorno, favorendone di conseguenza – ha ragione Corradini – una dispersione maggiore di quanto di solito accada; e al di là delle lunghe pause, Vincenzo Romanelli non ha mai tradito la sua naturale vocazione, la sua disponibilità all’arte, quella passione per la pittura dunque alla quale, nonostante tutto, egli è rimasto fedele per tutta la vita e, per lunghi periodi, ha pure coltivato in segreto.

E, anzi, non è forse per questo ancora più ammirevole di chi alla propria vocazione ha potuto dedicarsi liberamente e senza problemi?
Pertanto diamo a Romanelli il riconoscimento che gli spetta di diritto.
Egli è un pittore tout court, un pittore e basta, un artista a tutto tondo, e come ogni artista che si rispetti, con i suoi riferimenti espressivi, le sue tematiche, il suo stile, la sua poetica.

Giunge davvero a proposito allora la monografia di Mauro Corradini che, nel saggio che apre il volume, questi riferimenti, questa tematica, questo stile e questa poetica riesce a cogliere con chiarezza e acume critico.

Raggruppando per decenni le sue opere (tra le quali prevalgono, almeno fino agli anni Ottanta, i pastelli, gli acquerelli e quelle a tecnica mista), e attraverso una puntuale contestualizzazione o classificazione storica (che implica dunque una riflessione sugli eventuali rapporti con le tendenze artistiche coeve) Corradini ripercorre tutte le tappe dell’attività pittorica di Romanelli, né trascura di soffermarsi sulla sua formazione di “autodidatta anomalo”, sui lunghi anni di sforzi e tentativi, sulle “brusche frenate” che lo costringono a volte a porre in sordina la propensione e il talento espressivi”.

Ma è dagli anni Sessanta, gli anni della sua maturità pittorica, anzi dalla prima mostra del 1958 a Verona (aveva 36 anni) e dall’affermazione nella sua città natale, Brescia, con l’esposizione del 1967, che prende l’avvio la ricognizione critica di Corradini, anche perché le opere precedenti sono andate perdute o persino distrutte dall’artista.

Così eccolo individuare nel realismo neoclassico del Novecentismo (da cui l’artista assume la lezione della costruzione dell’immagine) e nelle esperienze del movimento milanese di “Corrente” (da cui deriva la libertà di gesto e di segno, largo e insistito, proprio dell’espressionismo, ma anche dell’informale) i primi significativi riferimenti culturali di Romanelli.

Eccolo collocare nei modi espressivi della “nuova figurazione”, e ancor prima nel realismo esistenziale degli anni Cinquanta la sua successiva ricerca pittorica.
Eccolo quindi cogliere in uno stile a metà strada tra felicità narrativa ed espressività della materia la sua cifra individuale, uno stile che nasce dalla volontà di affrontare i temi congeniali (il paesaggio e la natura morta) non “come un oggetto da descrivere, ma come un motivo da sviluppare”.

Eccolo poi sottolineare nelle opere degli anni Settanta (per lo più a tecnica mista) il definitivo abbandono della scenetta aneddotica e quindi un’immagine più sciolta, più sicura che tuttavia – citando da una nota critica del barlettano Aldo Carugno – non cessa di essere “apprensiva e sensibile nel suo modo di essere umana e di riconoscersi nei limiti oggettivi del mondo naturale”.

Eccolo, di fronte alla produzione più continua e organica degli anni Ottanta e Novanta (in verità non agevolmente ricostruita dal momento che Romanelli non usa datare le proprie opere), ritrovare il senso di un’esperienza espressiva ancora in evoluzione e, quindi, un sapore poetico ancora più intenso nei paesaggi e negli scorci, “colti per lo più sui toni del crepuscolo, quando la sera incombe sulle cose e l’artista sente più profondamente la poesia della natura”.

Eccolo, insomma, delineare un percorso artistico nel quale, se il paesaggio, la natura morta restano i temi dominanti, questi temi nel tempo sono filtrati da una sensibilità che, raffinandosi sempre di più, finisce col sostituire alla iniziale percezione retinica l’emozione interiore, dalla memoria alla nostalgia, dalla coscienza di un bene perduto all’incanto del suo recupero.

Fino all’acquisita consapevolezza del nostro destino nelle sue ultime opere, fino alla saggia malinconia della maturità quando, ricorrendo più frequentemente alla pittura ad olio su tela e su cartone, l’evocazione paesaggistica (dove ormai è scomparsa ogni figura umana) si fa quasi panico della natura, un’oscura angoscia di attesa fino a farsi metafora della vita e, per la vana ricerca della bellezza, dell’intera vicenda artistica.

E questo allora che fa di Romanelli non un pittore en plen air alla maniera degli impressionisti (cioè all’aria aperta, dal vero), ma un artista della memoria e della evocazione, non un pittore dello sguardo ma dell’anima, pur rischiando con questa definizione – ha ragione Luigi Salveti, che ne scrive nel 1990 – di ripetere un concetto troppo frequentato o di limitare al puro intimismo un’esperienza artistica.

Ed è questo che fa di lui, secondo un’acuta osservazione di Mario Lepore, “tendenzialmente un espressionista e un lirico”, ovvero un ossimoro incarnato, dal momento che due dimensioni contrapposte vengono poeticamente unificate. Ed è in sostanza quanto, in altre parole - perdonatemi l’autocitazione - già prefiguravo 30 anni fa, scrivendo che Romanelli “non lambicca ma costruisce il colore e… lascia libero campo ad una rappresentazione non epidermica della realtà… per cui le sue opere non sono edulcorate, non sono convenzionali se riflettono con forza l’emozione breve di un momento o conquistano la immagine rapida di paesaggi cari nella memoria, o se suggeriscono l’impressione di una grande forza emotiva inespressa”.

Certo, lontane sono le problematiche sociali ed estraneo egli rimane alle grandi avanguardie artistiche internazionali.
Ma è così che Vincenzo Romanelli ha fatto i conti con la crisi del naturalismo, alla luce di un atto di fede nella pittura e continuando ad operare dentro la tradizione.

E la sua fedeltà all’immagine, il suo rispetto della forma e del contenuto, quel suo cercare soluzioni all’interno dell’una o dell’altro, sono la riprova che ancora oggi è possibile, senza macchinose manipolazioni, esprimere le testimonianze della propria coscienza.
Quelle testimonianze che ora la bella monografia di Mauro Corradini ci restituisce con profondità di dottrina e intelligenza di analisi.
Domenico di Palo


* Per la presentazione della monografia d’arte “Vicenzo Romanelli – 40 anni di pittura” di Mauro Corradini (Manerbo 2002), tenuta in occasione del vernissage della mostra omonima a “La Maria del porto” il 21 giugno 2003. Poi pubblicato in “Il Giornale di Trani”, 11 luglio 2003.

EMILIO COVELLI ANARCHICO *

Un terzo, malaugurato incidente (ancora l’urto violento di un automezzo) e il busto di Emilio Covelli, raffigurato sulla lapide posta ad un angolo del palazzo omonimo tra Via Ognissanti e Via Zanardelli a Trani, è andato completamente in frantumi. “E questa volta sarà difficile recuperarlo - mi ha detto qualche giorno fa con grande rammarico la signora Maria Cristina Covelli - giacché gli “addetti ai lavori” da me finora interpellati praticamente si sono dichiarati incapaci di restaurarlo. In ogni caso io conservo tutti i frammenti che sono stati raccolti dopo l’incidente, ed anche alcune fotografie dell’opera dello scultore tranese Nicola Scaringi.”
Così, dopo gli analoghi episodi verificatisi negli anni Ottanta, testimone indignato di un ennesino attentato al patrimonio storico di Trani (nel passato ho proposto più volte la sistemazione della lapide in una sede più sicura), mi sembra il caso di ricordare i tempi in cui l’effigie di Emilio Covelli fu scoperta (nel secondo dopoguerra, per iniziativa degli anarchici), ma soprattutto di tornare a scrivere sulla figura e sull’opera dell’uomo che Giacinto Francia (fu lui a tenere per l’occasione il discorso commemorativo) era solito accomunare a Giovanni Bovio per indicarne la città natale (“Trani, la città di Bovio e di Covelli”); che l’illustre filosofo e politico tranese definì “uno dei più potenti ingegni delle Puglie”; e che Carlo Cafiero, suo inseparabile compagno, rispettò ed amò con tutte le forze dell’animo.




*****


Economista e cultore di scienze sociali e statistiche “di livello e frequentazioni europee”, ma soprattutto fervente internazionalista, teorico dell’anarchia e, con Carlo Cafiero, “attivissimo fino ai processi repressivi e alla morte”, Emilio Covelli nacque a Trani, da ricca e aristocratica famiglia, il 5 agosto del 1846.

Dopo aver frequentato, con Carlo Cafiero, il Ginnasio e il Liceo nel Seminario di Molfetta, Covelli si recò all’Università di Napoli, dove conseguì la laurea in Giurisprudenza.In quella città, come tanti altri suoi coetanei, fece parte del “Comitato Napoletano di Azione”, un’associazione di tendenze politiche liberal-democratiche. Poi, per le sue relazioni con i “Giovani hegeliani”, che egli frequentò durante i suoi viaggi in Germania (ad Heidelberg partecipò ad alcuni congressi internazionali di scienze sociali ed economiche, discipline delle quali egli era studioso ed apprezzato docente) finì con l’aderire alle teorie del socialismo anarchico.
“Personaggi come Marx, Bakunin, Babeuf, Owen e Fourier – ha scritto Michele Dell’Aquila in un capitolo della “Storia della Puglia” a cura di Giosuè Musca e pubblicato da Adda nel 1979 – avvenimenti come l’Internazionale del 1864, la Comune di Parigi del 1871, ebbero diffusione attraverso fogli e riviste numerosi presenti quasi in ogni centro, accanto alle teste moderate e della borghesia conservatrice (…). E se Francesco Fanelli e poi Francesco Colella erano gli animatori dei circoli e dei primi comitati operai nei centri bracciantili di Andria, Corato, Minervino, Spinazzola, San Severo, Lucera, Barletta, Trani, Brindisi, Taranto, la Puglia ebbe anche i suoi teorici: Carlo Cafiero (1846 – 1892), un aristocratico di Barletta, di alto ingegno e di vasta cultura, venuto a contatto con Carlo Marx e con Bakunin, ed Emilio Covelli, di Trani. Certamente – continua Dell’Aquila – si trattava ancora una volta di intellettuali, in qualche caso perfino di aristocratici, come il Cafiero, ma questa volta meno isolati nei confronti delle masse che venivano comprendendo la dura lezione della storia e si aggregavano nelle prime leghe operaie.”

Di qui, allora, gli arresti subìti da Covelli nel 1875 e nel 1877 sotto l’imputazione di “propaganda sovversiva” prima e la falsa accusa di aver partecipato alla rivolta di S. Lupo (una borgata in provincia di Benevento, dove, il 3 aprile del 1877, sotto il comando di Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, un gruppo di internazionalisti insorse “a nome della rivoluzione sociale”. La rivolta fu domata dall’intervento dell’esercito e gli insorti portati nella prigione di S. Maria Capua Vetere).

Prosciolto dopo quattro mesi di carcere preventivo, Covelli fu costretto a ritirarsi a Trani per ingiunzione paterna. Ma, intollerante della sorveglianza della polizia pugliese, evase di nuovo a Napoli prima e a Genova poi, dove venne nuovamente arrestato “per reato di cospirazione intesa a cambiare e distruggere la forma di governo e di eccitamento ai cittadini di armarsi contro i poteri dello Stato” nonché “per diffusione di stampe incendiarie nel regno e all’estero”.

Prosciolto in istruttoria nel dicembre del 1878, ma ammonito “a non dare luogo ad ulteriori sospetti sul suo conto e di sottomettersi alle prescrizioni che gli saranno imposte dall’autorità di pubblica sicurezza”, fu obbligato dalla presenza dalla questura genovese ad abbandonare la Liguria e, munito di foglio di via obbligatorio, rientrò a Trani.
Ma anche questa volta il soggiorno nella sua città natale fu breve.
In seguito alla furiosa reazione che seguì all’attentato di Passanante contro il re Umberto I, fu tradotto di nuovo a Genova, processato e nuovamente assolto. Di là, temendo di ricadere nelle mani della polizia, si rifugiò, conducendo vita di miseria, in Svizzera e in Francia.
Ritornò in patria dopo alcuni anni di esilio, ma la polizia si accanì ancora contro di lui. Venne arrestato e tradotto nelle carceri di Genova, donde i compagni tentarono di farlo uscire presentandolo, nel 1882, candidato alla Camera dei deputati nel collegio di Monselice.
Alle elezioni però ottenne soltanto pochissimi voti (malgrado la riforma elettorale del’82 il suffragio era ancora ristretto perché rimanevano esclusi dal voto gli analfabeti e i nullatenenti).
Un altro tentativo di rendergli più sopportabile la prigionia, che ormai lo aveva fiaccato nello spirito e nella salute, facendolo trasferire nel carcere di Trani, fu poi sdegnosamente respinto da Covelli (“si sarebbe lasciato portare all’inferno – egli scrisse – piuttosto che mendicare la pietà del ministro Zanardelli”).
Liberato, infine, per la quinta o sesta volta nel giro di sette anni, si stabilì a Parigi dove, nonostante la sua malferma salute e lo stato di estrema indigenza nel quale si era ridotto, s’impegnò attivamente nelle dispute e nelle polemiche che, all’epoca, dividevano il movimento socialista e rivoluzionario.
“Povero Emilio – scrisse in quegli anni Carlo Cafiero – Spoglio di libri come di panni, viveva poveramente in una stamberga. Malgrado tutto ciò, nei due giorni che passai con lui, egli non cessò mai di parlare delle cose nostre, pieno di fede nell’avvenire della nostra Italia, il paese meglio disposto per iniziare la nuova era.”
Risale a questi ultimi anni parigini la famosa “Protesta” che Emilio Covelli scrisse contro quei compagni che, come Andrea Costa, nel frattempo avevano abbandonato le idee anarchiche e avevano maturato l’adesione al socialismo.
E’ certamente una testimonianza, questa “Protesta”, della fine dell’utopia anarchica, ma anche un violento atto di accusa contro l’opportunismo politico e un’affermazione di dignità e di fierezza d’animo.
“In quanto a me – vi scrisse infatti tra l’altro – non mi vendo né ai governi né ai partiti (…). Io ho rifiutato tutto, ed ho bramato la miseria, le persecuzioni, le calunnie per restare ciò che sono…”.
Si tratta delle parole che si leggono nella lapide scolpita da Nicola Scaringi a Trani e che ancora oggi, per tanti giovani, suonano come un esempio altissimo di rigore morale e di coerenza intellettuale.
Era il 1884 quando Covelli tornò in Italia: Ma, ormai logorato da tanti anni di persecuzioni poliziesche e di sventure, in preda ad uno “sconcerto nervoso”, venne costretto a peregrinare da allora attraverso i manicomi d’Italia. In uno di questi, secondo la testimonianza di alcuni suoi compagni, fu rinchiuso arbitrariamente per 63 giorno nel 1884. Nel 1887 languiva ancora nel manicomio dei Ponti rossi a Napoli, e in quello di Nocera inferiore, il 15 agosto del 1915, all’età di 69 anni, egli si spense,
Ventitre anni prima, proprio in quel manicomio, era morto Carlo Cafiero, l’amico e il compagno di sempre che, nel 1882, scrivendo da Locarno per sostenere la candidatura di Covelli, così, tra l’altro, aveva detto: “In causa delle sue idee socialiste, Emilio Covelli ha perduto salute, averi ed uno splendido avvenire borghese (,,,). Debole, quale egli è fisicamente, ha saputo per lungo tempo sopportare le durezze dell’esistenza ed, al bisogno, vendere il letto e le camicie per soccorrere la causa, affrontando con la miseria anco il manicomio ed il dolore di suo padre, che nel suo cuore affettuoso trovavano un’eco profonda. Nell’indigenza, non gli è stato possibile procurarsi un pane, non solo per la sua natura troppo riservata e non troppo adatta per certi lavori manuali (…), ma soprattutto per la sua estrema delicatezza di sentire, spinta, talvolta, sino all’assurdo. In tale condizione, ha dovuto sottomettersi a sacrifici ben più gravi, tra i quali citerò la vendita dei suoi cari libri. (…) Io conosco Emilio a fondo (…) e lo rispetto e lo amo con tutte le forze dell’animo. L’amo e lo rispetto per la sua grande dottrina e per la sua filosofia, l’amo e lo rispetto per la squisitezza dei suoi sentimenti, per la delicatezza di tutto il suo essere tanto gentile ed umano, e per se stesso soggetto a soffrire più di qualunque altro, l’amo e lo rispetto per l’amore e il rispetto che, non conoscendolo, altri non gli porta…”.

Tra gli scritti di Emilio Covelli, riportati perlopiù indirettamente dai suoi numerosi studiosi (tra i quali Antonio Lucarelli, Raffaele Cotugno, Alfonso Scirocco e Mario Spagnoletti, autore, quest’ultimo, di un saggio fonda-mentale dal titolo “Emilio Covelli tra Marx e Bakunin”, pubblicato nel 1982 in un fascicolo dell’”Archivio Storico Pugliese”) ricordiamo soprattutto: “L’Economia politica e il Socialismo”, Napoli 1874.
Domenico di Palo



LA PROTESTA



“Anarchico italiano, rifugiato a Parigi, assistendo ieri sera al meeting pubblico della Conferenza Internazionale alla sala Levis, fui oggetto della più vile delle provocazioni da parte del cittadino Jofffrin. Io lo designai al cittadino Brousse come agente provocatore, ma non potei ottenere alcune spiegazioni sia dall’uno che dall’altro.
Ero di già assai eccitato, e malgrado mi si chiamasse timido perché non avevo ancora risposto con schiaffi a coloro che li avevano sì ben meritati, pure dichiarai ai miei vicini che sarei stato tranquillo, avendo compreso che tutto questo non era che una macchina montata espressamente per espellermi dalla sala e fors’anche per farmi arrestare.
Si voleva impedirmi d’essere presente all’allocuzione del deputato Costa, che temeva d’essere sentito da me nel suo rapporto sulle cose d’Italia; fors’anche si voleva costringermi a raccozzarmi con Costa, a domandare d’essere delegato alla Conferenza e ad ingaggiarmi nel Partito Operaio. Macchina o intrigo, è stato un fiasco. Ho resistito a tutte le provocazioni ed hanno dovuto sciogliere la seduta per poter farmi uscire con degli altri, e solo dopo hanno fatto parlare Costa, che non ha più avuto paura della mia presenza. Lascio la gesuita Brousse ed al suo mandatario Joffrin la responsabilità delle loro azioni. Ho deplorato che degli italiani che sono sotto l’influenza di un francese, abbiano usato delle violenze nel meeting del 30 ottobre. Un delegato inglese ha detto allora che bisognava lavare in famiglia la biancheria sporca della politica italiana, ed io risponderò che del sudiciume ce n’è dappertutto, anche nel paese dove gli operai protestano contro la condanna di Luisa Michel in Francia, e non muovono un dito per gli orrori dei loro padroni contro i poveri Irlandesi. Gli italiani, come tutti i popoli, sono divisi; ma ne sono causa gli sfruttatori
Ciò che deploro ancor di più, è che si dice sovente che bisogna conoscersi per intendersi, che si teme la luce e si perseguitano i contraddittori.
In quanto a me che sono combattuto, perché non mi vendo né ai governi né ai partiti, non mi resta che dichiarare che amo molto la Francia, ma che diffido di tutti i pretesi capi dei Governi dell’avvenire, che da quanto si vede presentemente, non sono né più giusti né più umani di tutti gli sfruttatori passati e futuri.
Infine, nel caso che Joffrin e Brousse siano stati ingannati dalle insinuazioni di Costa, io sfido questo rinnegato che ha accettato d’essere deputato e triunviro della democrazia, mentre io ho rifiutato tutto, ed ho bramato la miseria, le persecuzioni, le calunnie per restare ciò che sono, lo sfido pubblicamente ad attaccarmi, se può, senza maschera.”
Parigi, 1°
novembre
1883.
Emilio Covelli


* Pubblicato in “Il Giornale di Trani” del 27 settembre 2002 con il titolo “Covelli, un pezzo di storia… in pezzi”, e riscritto sulla base dell’articolo già uscito su “SINGOLARE/PLURALE”, Trani gennaio-febbraio 1981.

IL CASO VECCHI*

Signore e, signori, buona sera e grazie a voi tutti per la vostra presenza.
Cercherò naturalmente di assolvere nel modo migliore possibile il compito che mi è stato affidato, ma prima di parlarvi di Valdemaro Vecchi permettetemi comunque di dirvi che non ho la pretesa di considerarmi uno storiografo e, se è vero che ho pubblicato anche un libro sulla cultura del ‘900 a Trani e che ho scritto alcuni articoli sul nostro grande tipografo ed editore, non presumo di fare lo storico della città.
Sono un letterato piuttosto, a cui di tanto in tanto piace fare delle incursioni nella storia locale, e a cui di tanto in tanto, per amore di Trani, piace cimentarsi in battaglie culturali che, suo malgrado, finisce spesso col perdere.
Già, le mie battaglie perdute, come quella, ad esempio, sostenuta proprio in nome di Valdemaro Vecchi sul quale stasera sono stato invitato a parlarvi, un invito perciò che certamente mi onora ma che, vi confesso, solo in parte mi ricompensa dell’amarezza che provai nel febbraio del 1984, quando, per l’ordinanza di un pretore, la Tipografia Vecchi fu sfrattata dai locali di Via Cavour, nella quale era stata fino allora ubicata, costretta a trasferirsi altrove e quindi, quasi per un insanabile precipitare di eventi, a cedere, ad un distributore librario barese, persino la titolarità.
Certo, sul piano della procedura civile, non c’era nulla da eccepire al modo con cui si concluse il contenzioso tra il nuovo proprietario dello stabile e il tipografo erede del Vecchi.
Tuttavia – e perdonatemi se parlo ancora di me – come sottolineai su “SIMGOLARE/PLURALE”, il periodico da me diretto per tredici anni, con quel provvedimento per l’alto valore storico e culturale della Tipografia, a Trani si cancellava per sempre una pagina gloriosa della sua storia.
Dissi allora, e non ho alcuna remora a ripeterlo oggi, che sbagliava il proprietario dello stabile quando destinò i locali della tipografia ad uffici della sua ditta; sbagliava il tipografo quando solo tardivamente si mostrò capace di prescindere dagli interessi della sua azienda; ma soprattutto sbagliavano le autorità competenti, le istituzioni, i partiti politici che, non accogliendo l’accorato appello da me, purtroppo in grande solitudine, ad essi rivolto dalla pagine del mio giornale (per la cronaca il Consiglio Comunale dell’epoca si limitò ad approvare un ordine del giorno in cui si facevano soltanto “auspici” perché il patrimonio culturale della tipografia non andasse disperso), non adottarono alcun provvedimento (il vincolo, ad esempio) teso a conservare alla città i locali dell’antica tipografia, con tutto quello che conteneva e che la valorizzava.
E così Trani fu privata per sempre dalla testimonianza di n momento altissimo non solo della sua storia, ma di quella dell’intero Mezzogiorno d’Italia.
Nei locali della tipografia, infatti, soprattutto nelle prime due stanze, ancora si respirava l’atmosfera pregnante di quei fermenti culturali che si ebbero nel Mezzogiorno nei primi decenni dell’Unità d’Italia.
L’arredamento, anche se malandato, era ancora quello dello studio in cui attorno al Vecchi si erano avvicendati, nella loro intensa attività di promozione culturale, le personalità intellettuali più illustri del secondo Ottocento.
In quei locali, tra la caduta del fascismo e l’avvento della democrazia, Domenico Pàstina, figura esemplare per dirittura morale e politica, era stato l’animatore di quel gruppo di ragazzi che, dopo gli anni bui del ventennio nero, finalmente avevano voluto saperne di più su Benedetto Croce e sulla storia “come pensiero e come azione”.
E in quei locali, nell’ottobre del 1943, era venuta alla luce “L’Italia del Popolo”, l’edizione meridionale de “L’Italia libera”, un giornale che segnò la ripresa della libertà di stampa in Italia e che, sequestrato per ordine del governo Badoglio, all’epoca di stanza a Brindisi dopo la sua fuga da Roma, portò conseguentemente all’assurdo arresto (revocato comunque a furor di popolo nel giro di sette giorni) dello stesso Pàstina, di Vincenzo Calace, altra luminosa figura dell’antifascismo pugliese e italiano, e dello stampatore Francesco Petrarota.
Tanto bastava a significare l’importanza storico-culturale della Tipografia Vecchi e quindi a giustificarne la conservazione.
Ma questa, purtroppo, nel febbraio del 1984 non interessò nessuno.
Il misfatto fu compiuto, la memoria storica fu cancellata e un patrimonio di grandissimo valore cominciò ingloriosamente a disperdersi.
Non per amore di polemica dico ancora oggi queste cose, ma per ricordare a me stesso, e ai giovani che mi ascoltano, che il grado di civiltà di un popolo si misura nel rispetto che esso ha per la sua memoria storica.
Guari a cancellarla, questa memoria, avremmo soltanto barbarie!
Guai a cancellarla, questa memoria, avremmo soltanto barbarie!
Ecco perché il Club Unesco di Trani e la Sezione cittadina della Società di storia patria fanno bene ad organizzare serate come questa; ecco perché, qualche anno fa, il Liceo Scientifico di Trani, intitolando la sua sede al grande tipografo-editore, ha compiuto un’opera di civiltà.
Ed ecco perché mi sembra opportuno rilanciare in questa sede quel progetto di un “Fondo Vecchi”, di cui si è parlato tempo fa, e di cui purtroppo confesso di non sapere più nulla di preciso: un fondo che non solo miri al recupero della ricca produzione editoriale della casa editrice tranese, ma contribuisca alla promozione di iniziative culturali e nazionali tese a ricordare il grande tipografo-editore, e ne sostenga i programmi e gli scopi.
Su Valdemaro Vecchi, si sa, nel 1979 pubblicò un bel libro Benedetto Ronchi, il sempre compianto direttore della nostra Biblioteca Comunale, il cui grande e inestimabile patrimonio librario egli amò, incrementò e seppe organizzare su basi più moderne e funzionali e che oggi, purtroppo, per l’incuria e la mediocrità degli uomini, mi si dice ridotto in condizioni pietose e chissà quanto ancora funzionali.
Ma tratteniamo ancora un po’ dentro di noi la indignazione per quest’altro capitolo sciagurato della storia di Trani e torniamo stasera a Valdemaro Vecchi (mi diceva l’amico Peppino Giusto che sugli innumerevoli beni perduti a Trani si potrebbero scrivere decine di libri.
Fu dunque il libro di Ronchi, dopo gli affettuoso scritti di Giovanni Bel-trani (lo studioso che, al di là del carattere erudito della sua opera, ebbe il merito di rilanciare gli studi storici a Trani) e di Nicola Pàstina (fratello di Domenico e altra no bile figura della nostra storia), fu dunque il libro di Ronchi – dicevo – a colmare una lacuna che più di tanti aveva avvertito lo stesso Pàstina, il quale, dando vita nel 1966, con l’avv. Agostino Caiati, dinamico editore di santo Spirito, ad una nuova edizione della “Rassegna Pugliese” e facendo proprio un antico desiderio di Benedetto Croce di una completa rassegna della produzione di Valdemaro Vecchi, né affidò appunto il compito a Benedetto Ronchi.
E non si può dire che tale compito non sia stato assolto con impegno, se ancora oggi, per chi voglia accostarsi al nostro tipografo-editore, la monografia di Ronchi, molto informata e corredata da un catalogo di tutte le 1076 edizioni pugliesi di Valdemaro Vecchi (ma qualcuno dice che siano ancora di più) è un importante punto di riferimento.
Chi fu allora Valdemaro Vecchi?
Nato a Borgo San Donnino (si chiamerà Fidenza dal 1927) in provincia di Parma, il 5 ottobre del 1840, da buona famiglia caduta in povertà (suo padre, il tipografo Giuseppe Vecchi, aveva con dotto na vita brillante e dispendiosa da ex benestante borghigiano), a 15 anni il giovane Vecchi lasciò la casa paterna per Milano, dove trovò lavoro presso il tipografo Guglielmini, lo stesso che stampò l’edizione del 1840 de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, e dove ben presto dalle mansioni di compositore passò a quella, ben più importante, di proto.
Nel 1859 tornò a Parma, e qui ebbe modo di praticare, con entusiasmo, l’attività di giornalista, nella quale si distinse – scrive il Croce – come scrittore chiaro, vivace e dotato di bella cultura.
Fu questa una passione che, trasmessagli dal padre, rimase sempre viva in lui, che la riprese con successo negli anni pugliesi.
Tre anni dopo fu chiamato ad Alessandria per dirigere una tipografia, e da Alessandria (dove nel 1864 aveva sposato Luisa Penna, che gli fu compagna devota per tutta la vita), cedendo ai ripetuti in viti dell’amico piemontese Giuseppe Onesti, direttore delle scuole municipali di Barletta e attratto dalla sua bravura di tipografo, nel 1864 si trasferì nella città di Eraclio.
A Barletta egli trascorse un decennio operoso e in verità non sempre sereno e, dopo la morte del suo unico figliuolo di quattro anni (Tommasino), nel 1879 venne a Trani, città allora sede di una Corte di Appello e che per la sua intensa vita giuridica e forense sembrava offrirgli la possibilità di incrementare e migliorare la sua attività editoriale.
A Trani, infatti, dopo aver scelto come socio Giuseppe Petrarota, e fino al 1906, anno della sua morte, egli con autentico spirito di pioniere, per le condizioni di estrema arretratezza della nostra terra, e quindi noncurante di più facili guadagni, svolse una intensa attività tipografica ed editoriale che subito si distinse non solo per la semplicità, la nitidezza e la correttezza della stampa (“le mie edizioni sono semplici – egli scrisse – non frasche, non fronzoli, non fregi, o il meno possibile”) e pertanto nettamente superiore a quella di tutte le altre, e in verità molto poche tipografie della regione (2 o 3 a bari, 2 assai piccole a Trani, qualcuna a Foggia e a Lecce), ma soprattutto per aver mobilitato intorno a sé le energie intellettuali più vive del tempo.
Tra esse, infatti, vi fu non solo Benedetto Croce che, dunque, prima di approdare a Laterza, con Vecchi ebbe una feconda relazione di oltre vent’anni (stampando con lui dal 1903 la “Critica”, la sua famosa rivista di storia, letteratura e filosofia e pubblicando ben 16 opere della sua monumentale attività di studioso), ma anche, tra gli altri, Giovanni Gentile, Antonio Labriola e Bertrando Spaventa, insomma i maggiori nomi della filosofia tra Ottocento e Novecento, i quali dunque – ricorda giustamente Eugenio Garin nella sua prefazione al libro di Ronchi – passarono tutti da Trani prima che da Bari.
E, proprio per la presenza di questo sodalizio, nel 1884 potè nascere la “Rassegna Pugliese”, la rivista in cui Vecchi raccolse scritti e documenti per la storia scientifica, civile e letteraria della Puglia, e alla quale egli sacrificò “buona parte del suo tempo e delle sue fatiche”.
La rivista, grazie ad un modesto prezzo di abbonamento (“il giornale, nel suo genere, più a buon mercato d’Italia”) e ad una tiratura (assolutamente eccezionale in quei tempi) di ben tremila copie, riuscì ad avere una notevole diffusione in Puglia e fuori fino al dicembre del 1913, oltre cioè la morte dello stesso editore, al quale nella direzione era subentrato intanto Giovanni Beltrani.Nei suoi venticinque anni di vita la “Rassegna Pugliese” costituì dunque “il cimento più arduo” per il Vecchi e sulle sue pagine scrissero i più bei nomi della cultura pugliese di quegli anni, come Giovanni Beltrani, Cosimo Bertacchi, Giovanni Bovio, Francesco Carabellese, Giuseppe Ceci, Raffaele Cotugno, Francesco Cutinelli, Raffaele De Cesare, Giustino Fortunato, Giacinto Francia, Armando Perotti, Cesare Ricco, Orazio Spagnoletti, e i giovanissimi Pasquale Càfaro, Tommaso Fiore, Michele Viterbo e Michele Vocino che, insieme ai molti collaboratori esterni (tra i quali lo stesso Benedetto Croce, che vi scriveva con lo pseudonimo di Gustavo Colline), s’impegnarono a fare di essa la vera rassegna della vita intellettuale della Puglia, la sede più importante del dibattito culturale del tempo.
Una caratteristica significativa di questo di battito, sempre vivo ed informato, fu la separazione tra la cultura, elemento di unione tra gli uomini, e la politica militante che divide; una separazione, come vedremo, ampiamente motivata e comunque esplicitamente programmata.
Vecchi, infatti, volle perentoriamente tale distinzione, e lo si può desumere, oltre che da una consuetudine di lavoro e da un costante e preciso indirizzo nella direzione della “Rassegna Pugliese”, anche da quanto ebbe a scrivere
Nella circolare del luglio 1883, con la quale annunciava ai pugliesi la nascita della sua rivista.
“Ogni ramo dello scibile – egli scrisse – dovrà pagare il suo tributo alla mia rassegna, dalla quale intendo soltanto escludere la così detta politica militante: perocché nessuna polemica di questo genere ha diritto di turbare il sereno cielo della scienza; e nessun pretesto voglio lasciare a quanti sono uomini d’ingegno e di cuore, perché mi neghino il loro con senso a cagione del credo politico”.
Ecco, allora, le ragioni per cui sulla “Rassegna Pugliese” vi scrivessero uomini di diversa tendenza politica e, ad esempio, n articolo di Giovanni Beltrani, conservatore e convinto monarchico, fosse affiancato ad uno di Giovanni Bovio, democratico e repubblicano.
Qualcuno forse oggi definirebbe questo comportamento “bipartisan”. Io non credo che sia la stessa cosa, anche perché alla base di tale presa di posizione c’era soprattutto la consapevolezza che “la politica, specie quella locale, poteva surriscaldare gli animi e renderli ciechi”; una consapevolezza che al vecchi, d’altra parte, derivava dall’amara esperienza personale vissuta negli anni barlettani, quando il giornale da lui fondato e diretto in quella città, “Il Circondario di Barletta” (all’epoca la Terra di Bari era divisa in tre circondari, di Bari, di Barletta e di Altamura), si vide violentemente e ripetutamente attaccato da parte degli avversari “a causa dell’insofferenza alle critiche e alla pubblica discussione e soprattutto della scarsa maturità di un ambiente sociale non aduso alla libera circolazione delle idee e al giuoco democratico”.
Tuttavia, se queste furono le ragioni che spinsero Vecchi a separare la cultura dalla politica, come non cogliere nella vita della “Rassegna Pugliese” un altro, e certamente più alto, modo di fare politica?
Come quando, ad esempio, egli rivolse ai pugliesi l’invito a non rimanere impassibili e a non tollerare ulteriormente che “dominasse sovrana ed assoluta nella così detta repubblica delle lettere una stampa, la quale, in grazia dell’alta e fedele posizione in che fortuna l’ha collocata, stima in diritto di guardare dall’alto in giù i prodotti del Mezzogiorno, quando non siano al servizio del consorzio centrale”.
Giovanni Beltrani ritenne di poter cogliere in tale appello la prima enunciazione, sia pure abbozzata, del problema del Mezzogiorno, e quindi una prima risposta a quella tesi dello squilibrio strutturale tra Nord e Sud d’Italia che il Risorgimento politico del paese – lo sappiamo tutti – non era stato capace di risolvere.
Certo, Vecchi fu sempre sensibile alle istanze sociali di progresso e di affrancamento dalla miseria e dall’ignoranza e aveva coscienza delle reali condizioni dell’Italia postunitaria.
In una conferenza tenuta nel Teatro Comunale di Trani il 20 settembre del 1895 per il XX Anniversario della Liberazione di Roma, infatti, pur riconoscendo i vantaggi che derivavano al nostro paese sul piano della rappresentatività internazionale, egli accennò alla “crisi economica gravissima” in cui versava l?Italia, al “disagio” in cui si trovavano “quasi tutte le classi sociali” e soprattutto alla “misera condizione dell’operaio”: si tratta di una “verità ineluttabile e dolorosissima”, disse tra l’altro.
Non è dunque così azzardato fare di lui anche un precursore delle battaglie meridionalistiche.
E, d’altra parte, come negare che la sua scelta di operare al sud, e con-tinuare ad operarvi nonostante le condizioni di estrema arretratezza riscontrate, la scelta di valorizzare le energie intellettuali più vive, pubblicandone le opere (“Né mi limitai ad offrire alla gioventù studiosa delle Puglie le colonne della “Rassegna” – per la quale tutti gli ingegni pugliesi si mossero da lungo letargo – ma apprestai ad essa anche la mia opera di editore, stampando a mio totale rischio parecchi volumi” – egli scrisse in proposito), fu anche una scelta “politica”, nel senso più nobile della parola, naturalmente?
E dei risultati ampiamente positivi di questa scelta gli diede sinceramente atto il deputato, giornalista e storico di origine pugliese Raffaele De Cesare quando, rammaricandosi con lui per la sua mancata partecipazione ala Esposizione generale di Torino del 1884 (alla Mostra torinese il Vecchi partecipò soltanto nella seconda edizione del 1898, vincendovi la medaglia d’argento), così gli scriveva tra l’altro: “Io le devo molti ringraziamenti, ed ella ed i lettori ne intendono la ragione; li devo a lei, che, non pugliese, sostiene ogni legittimo interesse della Puglia, e lo fa con sacrifizi proprii, certo non lievi, con quel garbo modesto, ch’è di pochi, e con quella fede intera e sicura, senza la quale non si compie nulla di serio, di fecondo, di durevole”. E aggiungeva: “… Non mi è ancora riuscito, caro signor Vecchi, di discorrere del gran bene morale e intellettuale, che ella vi fa (in Puglia): principalissimo l’aver fondato un’effemeride, che indubbiamente per serietà di contenuto, per eleganza e proprietà tipografica, potrebbe competere con le buone riviste straniere: All’infuori della “Nuova Antologia”, ch’è essenzialmente italiana, non vi è oggi in Italia un regione, che abbia come la Puglia una rassegna sua propria, scritta quasi interamente da pugliesi, e campo aperto ai giovani, ed a quanti in questa opera di morale riedificazione vogliono correre con l’opera del loro ingegno: Il merito n’è tutto di lei, non pugliese, ed io sono lieto di attestarlo, e di prometterle che in una Mostra, alla quale, vincendo la sua indomabile ritrosia, concorresse con la “Rassegna” e le altre sue belle edizioni, io, se avessi la fortuna di essere Giurato di questa Mostra – nazionale o interregionale che sia – spenderei tutta la mia opera perché a lei, grande benemerito della Puglia, fosse assegnato un premio eccezionale…”.
Ma andiamo avanti.
Alla “Rassegna Pugliese” si affiancarono ben presto altre riviste, come “Napoli nobilissima”, rivista di topografia ed arte napoletana, tesa ad esaltare il patrimonio storico-artistico della città partenopea e del Mezzogiorno in generale; l’”Archivio storico pugliese”, organo della Società di studi storici della Puglia, che pubblicava i risultati delle ricerche della Società di studi storici per la Puglia; la rivista mensile dedicata ai nuovi ideali nell’arte, nella scienza, nella vita “La Nuova Parola”; ed infine alcuni periodici a carattere strettamente giuridico, tra cui la famosissima “Rivista di Giureprudenza” che, uscita dal 1976 al 1914, fu diretta dall’avvocato e parlamentare Giuseppe Alberto Pugliese.
Se a queste riviste si aggiungono poi le mille e più pubblicazioni stampate o pubblicate dal coraggioso editore (tra cui la monumentale opera in tre grandi volumi in folio “La Terra di Bari sotto l’aspetto storico, economico e naturale”, i volumi dei “Codici Diplomatici” e dei “Do-cumenti e monografie” della Commissione provinciale di archeologia e storia della stessa provincia, e le collane “Biblioteca napoletana di storia e letteratura” e “Studi di letteratura, storia e filosofia”, curate da Benedetto Croce), e si ricordano i nomi dei relativi autori, si comprende come l’operazione editoriale e culturale di cui fu protagonista Valdemaro Vecchi non solo interessò i giuristi, gli storici e i letterati, ma registrò i temi essenziali di un dibattito dalle prospettive e dai confini più ampi: dalla grande fortuna del pensiero di Bertrando Spaventa (critico, com’è noto, verso lo spiritualismo cattolico) nella cultura meridionale, alla riproposizione del suo pensiero e dell’hegelismo tout court da parte di Giovanni Gentile; dalla diffusione del pensiero socialista, attraverso la mediazione di Antonio Labriola, alla critica attenzione di Benedetto Croce ai suoi scritti filosofici e politici.
Non sembra comunque difficile, scorrendo le pagine del “Catalogo Vecchi” ricostruito da Benedetto Ronchi, isolare un numero rilevante di monografie che rinviano tutte alla cultura positivistica di fine Ottocento. Per esempio le numerose pubblicazioni sul comportamento delinquenziale, che risentono fortemente delle teorie di Cesare Lombroso, il fondatore dell’antropologia criminale, e alla condizione femminile; il contributo offerto alla “questione pedagogica” ed alla formazione dei docenti della scuola postunitaria, e i primi tentativi di interpretazione sociologica della realtà italiana e meridionale.
Non è forse un caso – sottolineò il prof. Pietro Sisto in una recensione al libro di Ronchi – che la produzione editoriale del Vecchi sembra proprio incontrare nei primi anni del Novecento delle notevoli difficoltà: quando l’8 febbraio del 1906 (e non il giorno 9, com’è inciso sulla targa di Via Cavour e ripetuto in tanti scritti) Valdemaro Vecchi, per un forte attacco di angina pectoris (tragica conseguenza dell’enorme fatica cui si era sottoposto) moriva in estrema povertà (anche per essersi egli sobbarcato alle spese di altre due tipografie che intanto aveva aperto a Giovinazzo e San Severo e che ben presto si rivelarono finanziariamente disastrose), le condizioni sociali, economiche e politiche che erano state alla base di quella cultura positivista e degli ideali risorgimentali erano ormai profondamente mutate, e profondamente mutata, per l’affermarsi di posizioni antipositivistiche sul terreno storico-filosofico e antinaturalistiche su quello artistico, era di conseguenza la cultura dominante.
In questa “nuova” realtà, invece, riusciva a trovare un suo spazio una famiglia di ex falegnami di Putignano, i Laterza, che, dopo aver imparato il mestiere da Vecchi, ebbero la capacità (eliminando da un lato la componente più provinciale del positivismo e consolidando dall’altro il legamo con quella cultura crociana, più aperta ed “europea”, che era ormai in grado di assicurare un mercato al libro) di fondare su “basi nuove” e, come poi si è visto, certamente più durature (visto che di recente si è festeggiato il suo centenario) la casa editrice barese.
Che poi le scelte della casa editrice barese finissero per danneggiare gli autori meridionali, relegati (tranne alcuni casi) al ruolo di autori di serie B a vantaggio di quelli del nord, è un altro discorso, certamente non liquidabile in due battute e quindi da fare in altra occasione.
Perché qui, avviandomi alla conclusione, mi limito a dire che proprio queste scelte (e al di là degli effetti generalmente positivi che esse sortirono) oggi mi fanno apprezzare ancora di più la “meridionalità” di Valdemaro Vecchi, la sua grande passione civile, l’onestà e l’impegno disinteressato così generosamente profuso nel suo lavoro, quella meridionalità, quella passione civile e quell’impegno che, d’altra parte, lo spinsero a creare nella nostra città il primo centro di cultura della terra pugliese e la prima tipografia dell’Italia moderna.
Possiamo affermarlo a chiare lettere noi oggi, ma ne aveva chiara coscienza anch’egli all’epoca.
Nel 1898, in una memoria autobiografica molto cara al Croce, scritta per l’Esposizione generale di Torino e pubblicata col titolo “Trent’anni di lavoro in Puglia”, parlando di sé con la consueta umiltà e modestia, ma comunque consapevole degli ostacoli superati, così egli disse infatti: “Io comprendo benissimo che i miei lavori sono delle cose modeste in confronto di quelli che si fanno in tante altre tipografie dell’alta Italia, ove l’arte tipografica ha raggiunto il massimo splendore. Ma i miei lavori, fatti in Puglia, ove l’arte tipografica trent’anni fa era nello stato più miserando che si possa mai concepire (l’arte tipografica era ridicolmente esercitata e produceva stampati insigni per grossolanità e cattivo gusto e infiorati di quasi incredibili errori), segnano indubbiamente un progresso, che senza una ferrea volontà, un lungo lavoro, un grande amore per l’arte, e una abnegazione a tutta prova, era vano sperare di raggiungere in questa regione. Io l’ho raggiunto, e quel che più conta, con mezzi tanto esigui, da far sorridere chiunque sia abituato a nuotare nell’abbondanza del materiale, a disporre in ogni occorrenza delle migliori fonderie e delle più celebri officine meccaniche, ad avere a’ propri ordini bravi e provetti operai, cui la scuola continua dei maestri rende più facile e abituale la tecnica tipografica. I miei mezzi invece furono sempre molto limitati, e quindi il lavoro ottenuto con tali mezzi ha un valore di gran lunga maggiore di quello ottenuto con un corredo di caratteri esteso, svariato, sempre nuovo e con macchine portate alla perfezione”.
Questo, allora, scrisse Vecchi di suo pugno, in un volumetto ormai introvabile (è sparito anche dalla nostra Biblioteca Comunale) e che pertanto mi piacer ebbe veder ripubblicato, anche perché estremamente il-luminante, più di ogni altra mediazione, la personalità e l’opera del grande tipografo-editore.
E furono parole che trovarono un’immediata corrispondenza in tutti i necrologi scritti all’indomani della sua morte, e tra i quali mi piace ricordare quello, apparso su “La Critica” il 12 febbraio del 1906, scritto da Benedetto Croce, il suo più grande sodale e il suo più grande autore, e quello, a firma di Arnaldo Cervasato, su “La Nuova Parola” dello stesso anno.
“Chi come me – scrisse tra l’altro il Croce – è stato per oltre venti anni col povero Vecchi in relazioni ininterrotte e quasi giornaliere, e ha potuto sperimentare a lungo l’onestà, la buona fede, la rigida osservanza negli impegni, la bontà e ingenuità dell’animo, la vivezza della mente, sente di aver perduto in lui un cooperatore prezioso e un amico saldissimo, e non sa rassegnarsi al pensiero della sua sparizione…”. E aggiungeva il Croce: “Quali fossero le condizioni della Puglia or sono trentotto anni, quali sforzi dovesse compiere ed ostacoli superare il Vecchi, col suo ideale altissimo dell’arte tipografica in paesi nei quali la tipografia era ridicolmente esercitata e produceva stampati insigni per grossolanità e cattivo gusto e infiorati di quasi incredibili errori, narrò egli stesso… Il Vecchi (natu-ralmente con la semplicità, la nitidezza e la correttezza delle sue edizioni) portava in quei paesi di barbarie tipografia gli ideali estetici di Gaspare Bàrbera…”.
E su “La Nuova Parola”, al grande filosofo di Pescasseroli così faceva eco il Cervasato, che di quel periodico era anche direttore e proprietario.
“Con qualunque criterio egli vi fosse giunto, sta di fatto che il Vecchi, settentrionale di nascita e di abitudini, appena stabilitosi in Puglia, sent+ gradatamente farsi chiaro e dominante in lui il sentimento di un dovere e di un compito: il sentimento di una missione nella vita; onde in breve tempo la sua officina assunse l’esatto carattere che le doveva rendere ciò che essa fu e rimane: il primo centro di cultura nella terra pugliese, primo cronologicamente e unico per lunga serie di anni, sino alla geniale iniziativa di Giuseppe Laterza, e dei suoi figli. Sprezzante e noncurante di lucri superflui alla sua frugale vita di lavoro, il Vecchi si diede anzitutto a esplorare in lungo e in largo la regione che il caso aveva assegnato alla sua attività, a collegare gli studiosi, a pubblicar libri che la illustrassero… Così con gli scarsissimi aiuti locali avendo contrari, al principio, come al solito, l’indifferenza e l’invidia di alcuni suoi conterranei, il Vecchi mostrava sin dagl’inizi della sua carriera come egli concepisse (e tanto naturalmente da parere… involontariamente) la sua arte come un apostolato. Chi può enumerare le moltissime opere dedicate specialmente alla storia delle Puglie, che in un trentennio uscirono dalle sue officine?… Quanto al valore tecnico di quelle edizioni, a parer mio – aggiungeva il Cervasato – esse hanno fatto e fanno del Vecchi il primo tipografo (primo senza contrasti in confronto a chicchessia…) dell’Italia moderna…”.
Ed ecco perché, parafrasando le parole che Giovanni Beltrani pronunciò nel suo “discorso commemorativo” il 25 marzo del 1906, e mettendo il punto a questa mia relazione, noi dobbiamo onorare Valdemaro Vecchi, ma soprattutto, per quanto ci è possibile ancora, dobbiamo impegnarci, nell’interesse della civiltà della nostra città e della nostra regione, a far sì che i suoi libri siano conservati e che la sua opera, sorretta da nuovo vigoroso alimento, non scompaia del tutto dalla nostra terra. Grazie.
Domenico di Palo


* Conferenza tenuta per il Club Unesco di Trani e la Sezione cittadina della Società di Storia patria per la Puglia nel salone del Circolo Unione di Trani il 25 novembre del 2001, e poi pubblicata, su “Il Giornale di Trani”, aprile-maggio del 2002, in sei puntate successivamente raccolte in un volumetto di 40 pagine corredato di foto e bibliografia; sulla rivista “Brindisi economica”, n. 4, 2001, e su “Risorgimento e Mezzogiorno – Rassegna di studi storici”, n. 1-2 del dicembre 2001.
In parte il testo era già uscito, con altro titolo, ancora sul pe-riodico “Il Giornale di Trani” del 2 giugno 2001, e su “Corrispondenze”, giugno 2001.