BENEMERENZE? OK, MA QUANTI SI SONO IGNORATI *


LETTERA AL “GIORNALE DI TRANI”


Caro direttore,

apprendo dal tuo giornale on line che l’Amministrazione comunale di Trani, con una cerimonia svolta in piazza Duomo la sera del 30 luglio scorso, ha finalmente dato concreta attuazione ad una delibera approvata ben cinque anni fa dal Consiglio comunale e con la quale si intende riconoscere civica benemerenza “a persone, enti, società, istituzioni che si siano particolarmente distinti nei diversi compiti e attività pubbliche e private”.
Naturalmente, come per tutte le iniziative atte a dare giusto risalto a cittadini tranesi che hanno illustrato la nostra città, mi congratulo con i premiati, alcuni dei quali mi onorano della loro amicizia, e mi compiaccio sinceramente con i promotori, ai quali tuttavia non posso fare a meno di chiedere per quali ragioni nell’elenco dei benemeriti (incomprensibilmente limitato, d’altra parte, ai professori universitari) non figurino anche i nomi dei seguenti accademici, anch’essi tranesi “per nascita o adozione’ e anch’essi meritevoli,in misura non certo inferiore, di essere insigniti della benemerenza “Sigillo della città”.

Luigi Blasucci, professore emerito di Letteratura italiana presso l’Università degli studi e la Scuola Normale Superiore di Pisa;
Franco Botta, professore ordinario di Economia del Lavoro e Politica Economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari;
Michele Bozzetti, professore di Antenne e Propagazione presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Bari.;
Franz Brunetti, professore emerito di Filosofia morale presso l’Università di Pavia,
Michele Canosa, professore ordinario di Storia del cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna;
Franco Ciccarese, professore di Scienze e Tecnologia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Bari,
Antonio Liserre, professore ordinario di Diritto privato presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica di Milano;
Emanuela Scarano, professore ordinario di Letteratura Italiana preso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Pisa;
Tommaso Scarano, professore ordinario di Letteratura Ispano-americana presso la Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Pisa.

E mi fermo qui e, con la speranza di saperne di più, ti saluto cordialmente,
Domenico di Palo


* In “Il Giornale di Trani”, 3 settembre 2010





PREFAZIONE A “DESTINAZIONE BRASILE” *

Nino Tritta non ha velleità letterarie; né, riconoscendosi, oltre quelle musicali, qualità stilistiche ed espressive speciali, ha deciso di dare una svolta alla sua vita e di intraprendere la carriera di scrittore.

Niente di tutto questo. Il cantautore tranese non presume tanto di sé, ma ha scritto questo libro semplicemente perché gli è venuta voglia di raccontare ad altri, amici e parenti, indigeni e foresti, un’esperienza da lui ritenuta straordinaria.

Così si è messo di buzzo buono, come dicono al Nord, e nel giro di qualche giorno eccolo alle prese con la storia del viaggio in Brasile da lui effettuato nel settembre del 2008 e che ha vissuto come la realizzazione di un sogno gelosamente custodito dentro di sé per tutta una vita.

Dire Brasile, infatti, e pensare al paese della bossa nova, di Joao Gilberto e Vinicius de Moraes, di Pelè Didì e Vavà, i mitici campioni del mondiale di calcio del ‘58, al paese dell’estro dell’allegria e del colore, della natura incontaminata, per Nino è sempre stato… naturale. Al punto che negli anni il desiderio “di andarci a vivere” in lui si è fatto sempre più grande, un desiderio che solo le responsabilità familiari - mi ha confessato - gli hanno impedito di realizzare.

Ed ecco che nel settembre del 2008, per una serie di circostanze un tempo impensabili, grazie ad un incontro on line, il sogno di una vita si è fatto realtà.

E’ successo, infatti, che qualche mese prima, nell’aprile del 2007, una senhora brasiliana, tale Orsola Tritta, sposata e impiegata presso una TV privata a Mauà, una frazione di San Paolo di ben 400.000 abitanti, incuriosita dall’omonimia, gli abbia, via e-mail, scritto di sé, delle sue origini pugliesi ed avanzato persino l’ipotesi di una sua lontana parentela. Un’ipotesi infondata, naturalmente. Di Tritta in Puglia ce n’è a bizzeffe, e non tutti i Tritta sono parenti.

Ma ormai il ghiaccio è rotto: per curiosità e per cortesia, ma soprattutto per passione tecnologica, la corrispondenza in internet va avanti, per più di un anno. Finché un bel giorno ecco per Nino l’invito a recarsi in Brasile, ospite della senhora Orsola, naturalmente.

“Ogni lasciata è perduta!” si dice dalle nostre parti quando si vuole giustificare una scelta…un po’ speciale. Ma per Antonio Tritta, ossia per Nino Turenum, si tratta anche di ben altro….

Ed è così che, messe da parte le ultime vecchie prudenze, eccolo senza indugi salire per la prima volta su un aereo e volare per diecimila chilometri verso il paese dei sogni, ospite di una famiglia della quale, in fondo, sa soltanto che porta il suo nome.

Questo libro è il diario, giornaliero, di questa avventura brasiliana, la storia di un incontro con personaggi singolari che si chiamano Orsola (la minha prima), Roberto (suo marito), Norma (la madre), Leda (l’amica del cuore) e Virginia, Luis, Marco Polo, Josè, Dedeus, Francisco, Josè; di escursioni mai deludenti a luoghi e a città dove a volte il sole brucia e dove si perde la cognizione del tempo, da Mauà a San Paolo, la megalopoli, da San Salvador di Bahìa, nello stato più africano di tutto il Brasile, a Barra, da Imbassai a Praia do Forte fino alla mitica Rio (il fiume di gennaio) e alla spiaggia di Copacabana; dell’esperienza di diverse abitudini gastro-nomiche e comportamentali; ma soprattutto della percezione acuta di un sentimento diffuso di allegria e gioia di vivere e di un senso squisito dell’ospitalità e della cortesia.

Non c’è gesto o parola degli amici brasiliani, infatti, che per Nino non sappia di questa allegria, di questa gioia di vivere, di questa ospitalità e di questa cortesia che - non è scritto ma mi pare sottinteso - ormai lo hanno così segnato da non potere quasi, sia pure inconsapevolmente, più farne a meno.

Non si spiegherebbe in altro modo, infatti, la sensazione, avvertita da lui il giorno del ritorno a casa, che “qualcosa non vada per il verso giusto”. Certi strani ritardi, quel susseguirsi di circostanze sfortunate che sortiscono l’effetto non solo di fargli perdere l’aereo per l’Italia ma di suggerirgli l’idea che “abbia vinto la macumba”, finiscono col tingere di giallo e rendere quindi ancora più intriganti le ultime pagine di questo diario. Che, in ogni caso, penso che si debba leggere soprattutto come una significativa testimonianza di come, parafrasando Montanelli, non sempre i sogni sono destinati a rimanere sogni, se quando meno te l’aspetti finiscono anche col realizzarsi.
Domenico di Palo


* Prefazione a “Destinazione Brasile - Diario di un viaggio nella terra del samba e della bossanova” di Antonio Tritta (Nino Turenum), stampalibri.it, Macerata, settembre 2009.

SULLA SCRITTURA LETTERARIA E SULLA MIA POESIA*



Permettetemi, innanzi tutto, non solo di ringraziare la dott.ssa Lucia Fiore e l’associazione “Obiettivo Trani” per la loro disponibilità, ma di dargli pubblicamente atto del loro sostegno a iniziative come questa che, mirando ad avvicinare chi legge a chi scrive, fanno del libro e della parola scritta qualcosa di vivo.
E naturalmente permettetemi di aggiungere un grazie infinito al dott. Francesco Carapellese, che ha letto i miei testi con la voce e il tono giusti, e soprattutto al prof. Gaetano Bucci che, parlando del mio libro, come sempre è stato acuto, illuminante e, quello che per me conta di più, davvero appassionato.
Parlare dopo di lui ora non è facile, e sinceramente non so se riuscirò ad essere altrettanto coinvolgente. Cercherò, in ogni caso, di essere il meno noioso possibile, pure affrontando un argomento che oggettivamente può sembrare tale…
Dedicherò, dunque, gran parte del mio intervento ad alcune riflessioni sulla scrittura letteraria, cioè a quel modo di comunicare certamente più complesso e comunque ben diverso da altri tipi più semplici di comunicazione. Non prima tuttavia di aver avvertito tutti voi che, in linea con il carattere della serata, si tratta non di riflessioni organiche ma solo di “frammenti di pensiero” che in parte prescindono dagli sconvolgimenti strutturali teorizzati da alcune avanguardie nel Novecento e in parte filtrano e adeguano questi sconvolgimenti alla sensibilità e alla visione del mondo di chi vi parla.
Finirò, quindi, col dirvi alcune cose, ma solo alcune cose, dei miei libri di poesia.
Cos’è la scrittura letteraria, allora?
Voi già sapete che scrivere vuol dire comunicare, ossia mettersi in rapporto con gli altri. Si scrive come si tende una mano: se qualcuno non l’afferra, quella mano, ci rimaniamo male, ci sentiamo esiliati.
Ed è vero che, un po’ tutti, si comincia a scrivere per le stesse ragioni: per fermare il tempo, per sfogarsi, per consolarsi, per divertirsi, per piantare grane, per attirare l’attenzione, per sentirsi meno soli, per ricordarsi o per dimenticarsi di qualcuno o di qualcosa.
Ma in letteratura scrivere vuol dire soprattutto dare un nome preciso alle cose e scendere nel profondo della realtà. Si possono descrivere cose, oggetti comuni usando un linguaggio comune, ma preciso.
Però non si può scrivere in maniera sciatta e confusa e persino la punteggiatura ha un valore assoluto. Non a caso un grande scrittore, Isaac Babel, parlando della tecnica narrativa, disse. “Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto”.
La scrittura letteraria, inoltre, è una testimonianza in absentia, per dirla con una parola latina. Il che significa che una persona racconta una storia, e poi un’altra persona, in sua assenza, in tempi magari lontanissimi e in luoghi diversi, legge e riflette su quella storia.
Questo è il miracolo della scrittura, che propone dunque un incontro in profondità, ma differito nel tempo, per cui a chi scrive dà pure l’illusione dell’immortalità. Chi scrive, infatti, può avere vissuto mille anni prima di chi legge eppure l’incontro avviene ogni volta, immancabilmente, ed è un incontro felice solo se la scrittura risulta originale, dotata di uno stile personale che comunichi emozioni, dotata cioè di una propria voce, inconfondibile.
Ma per questo sono necessarie almeno tre condizioni, e tutte fondamentali: il talento, ossia una naturale capacità di persuasione, la tecnica e la passione.
Scrivere dunque è anche una passione e più grande è questa passione più occupa la vita e più sacrifici chiede.
Si sa, d’altra parte, che senza passione non ci si può dedicare a nessun mestiere e a nessuna attività. Qualsiasi progetto di vita è inseparabile dalla passione, altrimenti ci si ferma alla prima difficoltà e si lascia perdere.
Il problema, tuttavia, è comunicare, fare arrivare agli altri, a chi ti legge, il tuo entusiasmo. E questa comunicazione appunto avviene per mezzo di uno strumento che si è soliti chiamare stile.
Voi potete pensare di essere dei grandi artisti o dei grandi cantanti, ma sono gli altri che devono crederlo, altrimenti il vostro rischia di restare il soliloquio di un mitomane.
Ecco un esempio che mi sembra calzante.
Se voi avete una bella voce e siete intonati, vi compiacete della vostra voce e cantate volentieri nel bagno, in cucina, ma non andreste mai sul palcoscenico a interpretare “Il Trovatore” o “Il Rigoletto” di Giuseppe Verdi. Per salire sul palco e vantare una parte di soprano o di tenore pensereste di dover studiare, di dover affinare il vostro strumento. Sapete che ci vuole una preparazione anche tecnica per cantare professionalmente, non solo un’opera ma persino una canzone leggera.
Perfino di un calciatore si dice che usa delle tecniche, che conosce il suo mestiere. Perché allora solo lo scrittore dovrebbe “andare a braccio”, dovrebbe improvvisare, seguire disordinatamente l’istinto e trascurare ogni sapienza?
Chi penserebbe di scendere in campo nella Nazionale senza sapere tutto sul calcio, senza essersi allenato mille volte con fatica e disciplina.
Invece molti ritengono che, sapendo scrivere una lettera o una poesiola che è piaciuta ai familiari, possono pubblicare immediatamente un romanzo o un libro di versi presso il più grande editore italiano. Il che rivela non solo presunzione, ma scarsa conoscenza del mestiere che si pretende di possedere.
In letteratura, insomma, non esistono improvvisazione e spontaneismo.
E i veri scrittori non sono innocenti di fronte alla narrazione o all’espressione poetica.
La scrittura non ammette ingenuità!
Si può essere ingenui nella vita ma non nell’arte, che è faticosa conquista, che è metodo e consapevolezza, e proprio perché il linguaggio è una costruzione umana, l’arte è un’invenzione, forse la sola che ci differenzia dagli animali.
E’ utile poi ricordare che scrivere è rappresentare. In letteratura le cose vanno rappresentate e non semplicemente dette o enunciate, gli avvenimenti vanno mostrati, le descrizioni vanno rese plastiche, vanno rese sensibili.
Se ci limitiamo a elencare o a descrivere le situazioni e le figure in maniera astratta, teorica, la narrazione rimane piatta e amorfa.
Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocua e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena, che è l’origine del piacere artistico, secondo Nabokov.
Scrivere insomma è un’operazione complicata: bisogna imparare a distinguere l’impulso sentimentale dalla consapevolezza letteraria. Sono due cose diverse.
L’impulso affettivo viene dal profondo ma non lo si può trasmettere col primo strumento che vi viene tra le mani, luogo comune o gergo che sia.
La consapevolezza letteraria, invece, è legata alla memoria lessicale (cioè delle parole) e sintattica (cioè del modo di metterle insieme) ed è quella che consente, per comunicare un sentimento autentico e profondo, di trovare parole altrettanto autentiche e profonde.
L’arte, dunque, è artificio: lo dice la parola stessa.
La scrittura è progetto, scienza, costruzione, e non ha niente a che vedere con l’istinto, la natura, ma semmai con la cultura e la professionalità.
Per questo, se parlate con un vero poeta vi sentirete dire che si possono passare ore a cercare una sola parola, la parola giusta (le “sudate carte” leopardiane).
Del resto perfino una lettera che si scrive a una persona lontana, una lettera, che pure è il genere più immediato di scrittura, se vuole comunicare qualche cosa di personale e di reale, deve essere pensata in modo da trovare un proprio veicolo di comunicazione sentito ed efficace.
Solo se si trova la parola giusta, si riesce a comunicarla, altrimenti rimane qualcosa di morto.
Se io, per esempio, leggo “un tramonto di favola” rimango assolutamente freddo. Anzi mi irrito, perché percepisco la banalità di quel luogo comune, che oltretutto non mi dice niente su quel tramonto. Mentre se io leggo, ad esempio, un poeta che scrive. “Un tramonto, papavero acceso” (Esenin) sento qualcosa che mi incuriosisce e mi cattura: tutte e due mi parlano di un tramonto, ma il primo annoia e il secondo mi esalta.
E’ sempre una questione di parole, allora. Il primo dà l’impressione della rifrittura, il secondo mi fa rivivere il tramonto attraverso un’ardita emozione linguistica.
Tutto questo, dunque, bisogna conoscere della scrittura letteraria.
Quanto a me e ai libri di versi che ho scritto, mi basta dirvi per ora che questi, da qualche tempo, contengono soprattutto poesie satiriche.
E questo per alcune ragioni che provo così a sintetizzare.
1. Per me la musa satirica funziona meglio di quella lirica.
2. Io non amo la realtà in cui viviamo: la trovo cinica, volgare, cialtrona.
Di qui allora la convinzione che oggi, finita al stagione delle illusioni, per resistere, e sopravvivere alla realtà che non si accetta, non possiamo non cercare di ridere, o quanto meno di sorridere e che, per esprimerla, questa realtà, non c’è altro modo che aggredirla, cioè con l’ironia e con lo scherno.
Ed eccomi quindi a scrivere composizioni “moralistiche", ossia attinenti al comportamento e al costume degli uomini, e “comiche”, ossia divertenti.
Eccomi, insomma, a scrivere versi che hanno sì i caratteri distintivi della satira (cioè l’attenzione alle cose quotidiane, la varietà dei temi, la spregiudicata libertà intellettuale), ma anche il distacco, o meglio il disincanto di chi, cercando di ridere degli altri e di se stesso, non solo non si prende sul serio, ma ha l’unica certezza che non esistono certezze assolute, che c’è insomma una verità ed un’altra ad essa contrapposta e che, anche nell’amore, come dico in “Double face”, c’è una doppia faccia: c’è l’amore che trionfa e l’amore che finisce miseramente…
In altre parole, voglio dire che nei miei versi rifletto e mi diverto, o viceversa mi diverto e rifletto. Ed è naturale che, riflettendo, essi non sono soltanto un gioco linguistico, un gioco che sia pure gratuito ha regole severe, ma diventano parola viva.
Sarà forse per tutte queste ragioni, allora, che a chi li legge i miei versi piacciono, e piacciono perché, al di là della loro apparente facilità (faccio uso di un linguaggio immediato, diretto), al di là dell’ironico recupero della forma chiusa (del sonetto, della filastrocca, della terzina), del gioco delle rime (mentre oggi generalmente i poeti fanno ricorso al verso libero), i lettori scoprono che vi è qualcosa di più articolato e che le stesse riscritture di poesie classiche a cui, come anche in “Double face”, faccio ricorso, non sono delle semplici parodie, ma il frutto di operazioni più complesse, e (come, bontà sua, qualche critico ha scritto), perché no, più sottili… Grazie.
Domenico di Palo
* Testo che riassume l'intervento svolto il 27 maggio 2009 nella Biblioteca comunale di Trani in occasione della presentazione al pubblico, a cura di Gaetano Bucci, di "Double face".

LE VEDUTE DI TRANI DI COSIMA CAVALERA*

Il Monastero di Colonna, la Villa comunale, il Fortino, la Cattedrale…
Ecco, insomma, anche in questa cartella le immagini-culto della Trani da cartolina, le sue icone, proprio quelle con le quali, da tempo immemorabile, si cimentano, chi più chi meno inna-morati della nostra città, artisti e pseudo tali, pittori e fotografi che siano, e disegnatori incisori litografi, nostrani e foresti…
Perché, allora, fermarsi a rimirare le vedute di Trani che Cosima Cavalera qui raccoglie?
Perché una cosa è - per volare alto - la Roma del Corot, o la Venezia del Canaletto, e un’altra quella raffigurata da un anonimo imbrattatele.
Perché, in altre parole, nell’arte importa di più non quello che si dice ma come lo si dice.
Eccoci, allora, intenti a capire che, al di là dell’idea di pre-vedibilità o, se si vuole, di familiarità che possono dare i paesaggi con i quali si ha lunga consuetudine, in queste vedute c’è un segno, ed una luce, che non ricordo di aver già visto altrove.
Immagini delicate, fissate con tecnica analogica e come me-diante l’uso di filtri.
Immagini quasi rarefatte, perlopiù costruite secondo contrasti tonali.
Immagini che non si concentrano sui particolari quanto sul-l’insieme formale e tonale.
Immagini che catturano la luce radiante e la foschia della scena e le collegano armoniosamente senza che la verità oggettiva venga sacrificata.
E ne viene fuori una testimonianza suggestiva del paesaggio tranese, del quale in queste vedute si riesce a cogliere tutto l’incanto.
Domenico di Palo

* Presentazione all’omonima cartella di disegni e incisioni, Landriscina Editrice, Trani 2009

DEDICATO A IVO *

Dieci anni fa, introducendo la mia monografia su Ivo Scaringi, alla quale avevo dato mano ancora sotto l’emozione della sua morte, scrivevo che la sua prima mostra personale, nel maggio del 1964, fu davvero una svolta nella storia della pittura pugliese del secondo novecento.

Oggi, acquietatasi quella emozione, come accade per le cose degli uomini, ma non spentosi il rammarico per la sua prematura scomparsa (perché ancora tanto egli poteva dare all’arte, ai suoi cari e agli amici), sono sempre convinto che, parlando di Ivo, si debba partire dal forte impatto che quella sua prima mostra alla “Vernice” di Bari ebbe sui suoi numerosi visitatori.

Nello stanco panorama dell’arte pugliese del tempo, infatti, quella per intenderci delle figurazioni manierate degli ulivi, dei trulli, delle case imbiancate di calce e dei paesaggi a terrazze della Murgia, quella mostra segnò, decisamente, un punto di rottura, nell’innovare nella tradizione la pittura della nostra regione…

Le facce rugose di vecchie terribili come megere, dipinte infatti nelle sue tele; i lineamenti esasperati di donne tarantolate, o in preda a pratiche esorcistiche o al travaglio del parto; quei braccianti induriti come la pietra e quindi ormai insensibili al dolore e alla fatica; le masse materiche di usci tutti a croste o slabbrati come quelli di certi nostri vecchi terrazzi e sottani; e poi i letti disfatti situati in interni poveri e dai muri sporcati dal tempo e dall’incuria; e le fucilazioni, con quei corpi che caduti per terra si riducevano a poveri stracci abbandonati; e ancora certi visi stravolti, dipinti di scorcio, di tre quarti, in primo piano; quelle tele insomma, raffiguranti sì il segno di una polemica sociale ma anche il sentimento acuto dello squallore, della disperazione e della morte, erano di certo ben altra cosa dell’oleografisno, del figurativismo “grazioso” e di evasione e dello spento naturalismo di tanta tradizione pittorica nostrana.

Ecco perché allora ebbi la sensazione di essere testimone di un evento storico della pittura pugliese, una sensazione che certamente condivise anche Pietro Marino, all’epoca ritenuto un’autorità nella critica d’arte in Puglia, Pietro Marino che, scrivendone sul suo giornale, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, salutava in Ivo Scaringi “il più sicuro e maturo rappre-sentante della nuova generazione di artisti pugliesi” e, non potendo negare la forza della sua voce, per essa credeva doveroso “compromettersi”. Pur non accettandone - aggiungeva poi, forse con eccessiva prudenza - pur non accettandone “il punto di partenza, la matrice ideologica”.

E a quale punto di partenza, a quale matrice ideologica egli si riferisse era ben chiaro a tutti.

I primi Anni Sessanta, a Trani, eccoci infatti, un gruppo di giovani amici (i giacobini, ci chiamò Franz Brunetti) decisamente animati da una voglia sacrosanta di cambiare il mondo, ed eccoci quindi impegnati a reagire alle chiusure retrive, alle censure e alla messa al bando di quelle iniziative culturali che cercavamo di promuovere nel grigiore della vita cittadina. Come il Circolo del Cinema, ad esempio, il primo ad essere fondato a Trani, o come “Il Canocchiale”, il periodico cittadino, nel quale aveva trovato espressione, si disse, “una componente di sinistra, libertaria e innovatrice rispetto alla pesantezza del PCI pugliese”.

Ed ecco, paralleli a queste esperienze, i nostri “corti viaggi sentimentali” in Lucania, sulle orme di Rocco Scotellaro, “il poeta della libertà contadina”, “l’intellettuale nuovo” che nel clima pesante del dopoguerra, sulla base di un’esperienza reale, fu portato dagli avvenimenti a impegnarsi fino in fondo nella lotta politica e a pagare amaramente il prezzo della sua scelta.

Quanto a Bari, eccoci, nello studio bohémien di Tony Prayer, insieme ad altri giovani pittori, a parlare tutti ad alta voce, della Puglia, dell’arte, della sua funzione. E a leggere persino le lettere di Siqueiros, e ad esse mescolare, alla rinfusa, i nomi di Picasso, di Gaetano Salvemini, di Tommaso Fiore e di una Spagna senza Franco.

Eccoci insomma animati da quella passione che avremmo riscoperto, di lì a qualche mese, nella galleria del “Sagittario” di Giacomo Cinquepalmi, con gli amici di “Nuova Puglia”; nel tentativo di “fare gruppo”, di uscire finalmente dall’individualismo atavico del Mezzogiorno d’Italia, nel tracciare le linee di un progetto artistico che fosse nutrito di istanze morali e sociali, e che - seguendo l’esempio del molfettese Salvatore Salvemini e di Ginetto Guerricchio, il pittore materano da pochi anni disceso in Puglia fresco di studi e di successi conseguiti al nord - rivolgesse il colorismo plastico di Francesco Spizzico, di Vito Stifano e di Roberto De Robertis (gli antichi maestri di Ivo all’Istituto d’Arte di Bari e protagonisti di un timido rinnovamento negli anni Trenta-Cinquanta) in direzione di un neoespressionismo nervoso e impetuoso. Disfacendo colori e piani, e assumendo come referente la crisi della civiltà contadina nel Sud, e l’emergere delle contraddizioni della nuova cultura urbana.

Vivevamo, insomma, il nostro ’68, anticipato nel tempo, è vero, ma per ciò più eroico e, chissà, forse più autentico.

Anche Ivo, dunque, faceva parte del gruppo. Ma un po’ defilato, quasi nell’ombra, attento solo ad ascoltare. Al punto che a volte a tutti noi, neofiti entusiasti, sembrava eccessivo il suo silenzio, e incomprensibile la sua riservatezza, alla quale finiva col sacrificare anche la cura della propria immagine.

Ma Ivo invece, a differenza di noi, non si sentiva un neofita, e all’impegno politico nei partiti (l’impegno che in quegli anni cominciavamo a vivere), anche per una sorta di consuetudine familiare, sapeva guardare con la superiore saggezza di chi ha già lunga esperienza delle cose del mondo.

Né si era mai definito un “militante”.
Né, d’altra parte, ci era ancora del tutto chiaro che lui, naturalmente di poche parole, consumava nella pittura l’ormai acquisita consapevolezza della condizione umana, esauriva in essa il suo (così poi fu scritto) “urlo biologico”, che la sua arte, insomma, e il suo modo di essere già andavano oltre la polemica sociale, oltre la storia, per farsi, in rigorosa solitudine, segno immutabile, una lucida e disperata testimonianza della tragedia del vivere, e del morire.

Questo e non altro, allora, era Ivo Scaringi, con buona pace di noi impetuosi “giacobini”, che quindi sbagliavamo a pretendere da lui ciò che egli non poteva darci.

Abitava allora, a Trani, nella casa paterna di Via Sasso 32, nel quartiere di San Michele. Quella con le ghirlande di pomodori rossi messi ad essiccare alle pareti dell’androne, con una scala buia e stretta che sbucava in un terrazzino pieno di calchi di gesso e di statuine cimiteriali (opera di suo padre, lo scultore Nicola Scaringi); due vecchie poltrone di vimini; e poi un piccolo locale col tetto spiovente e trasformato nello studio del pittore, in mezzo al quale, tra decine di tele appoggiate al muro, barattoli di latta, tubetti di colore allineati con cura, una cartella zeppa di disegni su una sedia impagliata, un fiasco vuoto, panni vari aggomitolati in modi diversi, attrezzi da giardino, arnesi arrugginiti, troneggiava una grossa ciotola di latta, una sputacchiera trasformata in portacenere e colma di cicche e mozziconi vari.

Ivo se ne stava seduto vicino al cavalletto, come sempre ricurvo sulle spalle, la mezza sigaretta tra le labbra e con la coppola calata sul capo. E se ne stava lì ad ascoltare, in silenzio, i miei discorsi torrenziali sui massimi sistemi, mentre lui, tra mille ripensamenti, squadrava la tela, vi tracciava segni, vi spandeva colori su colori, facendo quindi emergere, lentamente, ma come per incanto, quella che lui definiva la struttura materica del quadro, la sua ossatura, che, per la consapevolezza che egli aveva del mestiere di pittore, una consapevolezza da lui acquisita da ragazzo nella bottega paterna, mai dunque si riduceva ad una semplice pellicola, ad una semplice superficie colorata.
“Sono un pittore all’antica - amava spesso definirsi - Credo al mestiere del pittore, alla pittura costruita: quella che, battendo sulla tela, ti risponde”.

E così, quando avevo esaurito le mie divagazioni, eccolo Ivo, quasi ad allontanare da sé un’eventuale taccia di musone, che mai avrebbe tollerato, eccolo dare sfogo a tutto il suo sottile umorismo, venato di garbata ironia, ed alludere al pittore di comune conoscenza che si faceva quotare sul “Bolaffi” a pagamento e che sborsava periodicamente somme cospicue al critico di turno per una compiacente segnalazione sul suo giornale; al politicante chiacchierato che faceva spudoratamente professione di onestà amministrativa; o al visitatore con la puzza sotto il naso che, aggirandosi nel suo studio a scartabellare una tela dopo l’altra, gli chiedeva di tanto in tanto: “Ma questa che significa?”.
“Uh!... Madonna. Ci resto male - diceva Ivo rifacendo, con arguzia, il verso al nostro severo e sprovveduto inquisitore - Ci resto male quando mi chiedono cosa vogliono dire i miei quadri”.

Finché, inevitabilmente, mi riconduceva sul suo terreno preferito, e si parlava di mestica, di disegno, di colori, come per rammentarmi che quello soltanto era, dopo tutto, il suo linguaggio e che desiderava farsi capire solo attraverso i suoi quadri.

E intanto il suo prestigio si consolidava nella regione e fuori di essa. I riconoscimenti autorevoli (tra cui quelli di Vito Carofiglio, Pietro De Giosa, Anna D’Elia, Camillo Langone, Maria Marcone, Filiberto Menna, Dario Micacchi, Duilio Morosini, Giancarlo Pandini, Enzo Panareo, Michele Prisco, Paolo Ricci, Franco Sossi, Marcello Venturoli, Luciana Zingarelli, e soprattutto di Vittore Fiore e di Elio Mercuri, autori nel 1970 di due saggi a mio avviso fondamentali sulla sua arte), si facevano numerosi).

E pure nella fine ingloriosa di “Nuova Puglia”, nel 1966, e di “Immaginazione e Realtà”, nel 1971, una fine che avevano contribuito ad affrettare non solo l’ostilità dell’ambiente (stretto fra ostinate resistenze conservatrici e l’autorevolezza da poco conquistata dai De Robertis, dagli Spizzico e dagli Stifano), ma anche - perché no - l’esaurimento dell’uso strumentale che di queste esperienze alcuni partiti politici si erano illusi di poter fare; nonostante la vita breve di queste esperienze di gruppo - dicevo - restava incorrotta la fama di “maestro” di Ivo Scaringi che, ormai, anche pittori già affermati ritenevano “il migliore di tutti”, come Guerricchio, ad esempio, quando apertamente confessava che alcuni dei quadri di Ivo avrebbe voluto saperli dipingere anche lui.

Indiscusso protagonista della pittura pugliese di quegli anni, sembrava, insomma, che non ci fossero più ostacoli per affermare definitivamente la sua “immagine” o per prendere, come si dice, il volo per traguardi più ambiziosi.
E, in verità, non gli mancavano le occasioni.

A metà degli anni Sessanta, per esempio, un noto gallerista di Bari gli fece una proposta che qualunque pittore al mondo avrebbe considerato vantaggiosissima.
Quel gallerista si disse disposto a versargli mensilmente qualsiasi cifra, in cambio di una periodica e puntuale consegna di un certo numero di quadri.
Ma Ivo rispose di no.

“Mettersi in mano ad un mercante d’arte significa dipingere quello che vuole il pubblico” disse in un intervista.

E ancora, qualche anno dopo, parlando di sé nel corso di una delle sue ultime mostre: “Non ho l’assillo del mercato, non ho scadenze da rispettare. Sono un pittore libero, li-be-ro!” dichiarò orgogliosamente.

Fu così che cominciò a definirsi il suo ruolo di artista libero e solitario.

E fu così che cominciò a costruirsi la leggenda del pittore dal talento indiscusso ma in volontario esilio in provincia, una leggenda della quale Ivo finì in verità anche col compiacersi se di tanto in tanto, con un po’ di civetteria e con evidente orgoglio, rammentava quanto su di lui aveva scritto ancora Pietro Marino nel 1965.

“Ivo Scaringi - aveva scritto il critico barese – poteva diventare il cocco dei buoni borghesi che comprano quadri per il salotto. Ne aveva tutti i requisiti: il senso sicuro del colore aggressivo e squillante, come le gam-me dei rossi che infondono allegria o eccitano; il segno scattante, di una eleganza capace di dar senza pericolo i brividi della modernità; la perizia grafica. Poteva persino qualificarsi, il giovane pittore tranese, come un interessante portatore di neocaravaggismo: mettendo d’accordo - come s’è visto, in certi momenti della sua ancor breve carriera - drammaticità neorealista e un revival di monumentalismo barocco napoletano. L’istanza meridionalista - che nutre con lontane radici umanistiche la cultura pugliese - sarebbe rimasta appagata del tributo resole con soggetti popolareschi, interni di dimore contadine, volti operai del boom industriale. Temi, anche questi, affrontati da Ivo Scaringi con aggressiva sofferenza. Ma Scaringi ha smantellato il suo facile destino, man mano che meditava sulla realtà complessa e contraddittoria del nostro tempo. E la sua pittura tende sempre più a rifletterne le interne tensioni e lacerazioni, ad assumere i segni idonei a significare la condizione alienata dell’uomo…”.

Ecco perché non servivano a nulla le sollecitazioni di amici ed estimatori a curare di più, come si dice, la sua immagine, e quindi a impegnarsi in direzione di una sua più diffusa e radicata popolarità.

Così, diviso tra l’insegnamento nella scuola media (dal 1969 si era fatto trasferire dall’Istituto d’arte di Bari, dove, per meriti artistici - cosa davvero d’altri tempi - nel 1960 era stato assunto come docente di discipline artistiche), un tranquillo ménage familiare e la frequentazione di pochi e sinceri amici, continuava la sua paziente e faticosa ricerca, ma in piena libertà e solitudine.
“La libertà – gli piaceva ripetere – non te la regala nessuno. Per questo è preferibile – aggiungeva – che certe esperienze si facciano sulla propria pelle, anche nell’incertezza e nelle cadute”.

Certo, in tempi di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, di ferree logiche di mercato, di culto dell’immagine, di spettacolarizzazione, a volte cinica, della vita e della stessa morte, forse non siamo più abituati a sentire parole come queste.
Eppure è in queste parole la chiave di lettura di tutta la sua vita e di tutta la sua opera.

Io, pur frequentandolo a volte meno spesso per i casi della vita, ebbi comunque la fortuna di seguire puntualmente in quegli anni il suo itinerario pittorico, lo svolgimento dei suoi nuovi cicli figurativi, dagli inventari alle ricomposizioni, negli anni Settanta, di elementi tecnologici e di frammenti di realtà, che avevano perduto la loro identità e che, al di là della persistente felicità del colore e della indiscutibile certezza del segno, riducendosi alla loro stessa oggettività, insinuavano un sentimento di sottile angoscia, fino a certe soluzioni formali, fino a certi risultati artistici che sembravano andare al di là della stessa pittura; e, dopo queste “prove”, in verità di breve durata, dopo questo nuovo approdo della sua attività creativa, tornato egli improvvisamente all’antico, ai bellissimi acquerelli della fine di quel decennio.

Riprendemmo a frequentarci più assiduamente dai primi anni Ottanta, quando lo coinvolsi in alcuni miei progetti editoriali (invitandolo, tra l’altro, prima a illustrare un mio nuovo libro di versi e poi a disegnare le copertine di “SINGOLARE/PLURALE”, il periodico di critica e costume che, avvalendosi di collaborazioni qualificate, riuscii a far durare per 13 anni, fino al 1991).

Ivo intanto aveva cambiato studio. Si era trasferito infatti in Via Perrone Capano, e qui nei pressi della sua nuova abitazione, aveva affittato un piccolo e umido locale, che sembrava tuttavia “bellissimo e suggestivo” ai suoi visitatori, perché vi si accedeva “per un corridoio di vegetazione superando viottoli e cancelli”.

Fu in questo studio che continuò il nostro dialogo, tuttavia sempre più ricco di pause e di silenzi, e che si consolidò la nostra amicizia, anche perché dell’originario gruppo di amici dei primi anni Sessanta, Ivo ed io eravamo gli unici rimasti a Trani.

E fu così che a me toccò non dico fargli da mèntore, chè i suoi progetti egli bene li definiva e bene aveva chiari, ma un po’ da cassa di risonanza, spentisi anche progressivamente sui giornali o altrove gli echi delle sue più rare “personali” e partecipazioni a quei sodalizi occasionali per qualche mostra.

Ad esempio, infatti, era stata del tutto ignorata la mostra personale che, dopo tante nostre pressioni e con non poca fatica riuscì ad organizzare nella galleria “La nuova Papessa” a Roma, nell’ottobre del 1981.

Così come quasi ignorate - nonostante lo straordinario successo di pubblico e al di là di alcuni efficacissimi servizi giornalisti, come quello di Antonio Rossano su RAI 3 e un articolo di Michele Campione sul “Corriere del Giorno” di Taranto - furono le ultime due bellissime personali da lui messe su nel settembre del 1994 al Museo diocesano di Trani e nel marzo del 1995 nella galleria “Arte Spazio” di Bari.

Pagava, purtroppo, il prezzo del suo isolamento, del suo amore per la libertà, del suo rigore morale.
E ne provò amarezza, certamente, ma ne ricevette anche nuovo stimolo per la sua pittura, che si fece ancora più grande, e per la sua riflessione ininterrotta sulla vita strozzata, sulla morte, sulla dimensione ontologica di essa, ché tale infatti è venuta, penso definitivamente, chiarendosi la sua ricerca.

Ripenso ai suoi nodi dei primi anni Ottanta, a quei fagotti che per Ivo potevano contenere di tutto, ma che ormai mi danno soltanto l’idea di freddi sudari.

E poi alle grandi tele della “Zattera della Medusa”, l’importante mostra itinerante del 1984 che, organizzata insieme a Luigi Guerricchio Beppe Labianca e Leo Morelli, rivisitava in chiave moderna il famoso quadro di Theodore Gericault; ripenso al “Naufragio in una stanza” che faceva parte di quel ciclo e, al di là delle allusioni autobiografiche che vi si possono cogliere, mi balza più evidente agli occhi il carattere metastorico della tragedia che vi è raffigurata.
E così, certamente ispirata da quelle per le quali si accedeva al suo studio di pittore, rileggo le sue vegetazioni, che faticosamente si fanno spazio tra strutture e lamiere, come segnali dell’eterno conflitto tra la vita e la morte.

E ancora i suoi dipinti sul mare, il simbolo della madre e della vita, inquietanti nella loro freddezza metallica.

O - tema centrale della sua ultima produzione pittorica - le visite ai monumenti, le ricognizioni sulle sculture medievali, che nella loro bellezza formale e nella loro ricchissima simbologia da sempre lo avevano affascinato fino a imprimersi definitivamente nella sua memoria e, ponendosi - per lui - come punto di riferimento esclusivo di altre bellezze, a divenire il luogo dove la storia si annulla, e il presente e il passato si fanno un tutt’uno di mostruosità e di stupore.

Ora, e mi avvio alla conclusione, non è questa la sede per discutere alcune opinioni che, dopo la morte di Ivo, sono state espresse su di lui (come quella, ad esempio, sulla sua incapacità di adattarsi al nuovo); né mi sembra questa la sede per esprimere le proprie preferenze per questa o per quell’altra sua stagione pittorica.

Questo è il compito del critico, o meglio del critico militante, perché lo storico, invece, il biografo, così come ho cercato di fare anche nel mio libro, queste stagioni alla storia dell’arte le consegna tutte.

Semmai, mi sembra opportuno dire che se bene hanno fatto “I Dialoghi di Trani”, nell’ottica di una politica culturale tesa al recupero della nostra memoria storica e alla valorizzazione delle nostre più qualificate risorse artistiche, a dedicare, nel decimo anniversario della sua morte, questo spazio a Ivo Scaringi, altrettanto bene oggi farebbero le istituzioni a impegnarsi a realizzare finalmente ciò che promisero dieci anni fa, e quindi, a progettare non solo l’organizzazione di un premio di pittura a lui dedicato, ma, partendo da un primo nucleo di una sessantina di tele (che la famiglia, rimasta fedele custode della sua opera, sarebbe disposta a donare), anche l’allestimento di una mostra permanente, organica ed approfondita, da collocare, s’intende, nella sede più idonea e che restituisca, anche in concretezza visiva, le dimensioni del personaggio e, con lui, una pagina certamente importante della storia dell’arte contemporanea in Puglia.
Domenico di Palo

* Testo della conferenza tenuta il 26 settembre 2008 nell’ambito della Sezione dedicata a Ivo Scaringi dall’edizione annuale dei “Dialoghi di Trani”.

I FRATELLI PASTINA E LA LIBERTA’ DI STAMPA NEL REGNO DEL SUD *

Mi preme innanzitutto dire anche in questa sede che non ho la presunzione di ritenermi uno storico e che, al di là delle pressioni affettuose degli amici di “Obiettivo Trani”e della “Società di Storia Patria”, mi spinge ad associarmi a questa rievocazione dei fratelli Pàstina solo un occasionale interesse per la storia locale, nella quale, per la mia antica attività di pubblicista, mi è capitato a volte di fare delle incursioni.
Dei fratelli Pàstina, dunque, io ho conosciuto di persona soltanto Nicola. Domenico, infatti, era già morto da qualche mese (era il 1959) quando – mi si perdoni l’annotazione personale – ho cominciato a guardarmi intorno non più con gli occhi del giovanotto inquieto e distratto, ma con maggiore attenzione per le persone che hanno fatto grande la storia di Trani.
Così, me lo ricordo, Nicola Pàstina, magro e dall’aspetto sobrio e severo, nei primi anni Sessanta e soprattutto d’estate, venire lentamente da Via San Giorgio e quindi sedersi con un gran fascio di giornali sotto il braccio, ai tavolini del “Gran Bar” in piazza della Repubblica, che all’epoca si chiamava ancora piazza Vittorio Emanuele…
E fu in quegli anni che venni a sapere del suo passato di antifascista, un passato coerentemente e coraggiosamente vissuto, insieme al fratello Domenico, prima nelle file di “Giustizia e Libertà” e poi nel Partito d’Azio-ne; fu allora che seppi della sua brillante attività giorna-listica nel giornale satirico “Becco giallo” e nel “Risorgimento”; e fu allora che cominciai a leggere con crescente interesse gli articoli che di tanto in tanto egli veniva pubblicando sul “Ponte”, sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” ed anche sul “Tranesiere”.
Poi, a metà degli anni Sessanta, eccolo profondamente coinvolto nella bella avventura della nuova serie della “Rassegna pugliese” che, idealmente collegata alla gloriosa rivista di Valdemaro Vecchi, era stata fortemente voluta da Agostino Caiati.
Della nuova “Rassegna”, alla quale ebbi anch’io l’onore di collaborare saltuariamente con alcune recensioni, Nicola Pàstina non solo assunse la direzione responsabile ma fu il coordinatore della sezione cultura. E i suoi interventi, sempre caratterizzati da una fine ironia e ispirati da un’appassionata attenzione alla storia cittadina erano per me esemplari (fu il primo in quegli anni a insistere sulla necessità di recuperare la memoria di Valdemaro Vecchi e a convincere quindi Benedetto Ronchi a lavorare ad una completa e ordinata rassegna della vasta produzione del grande editore).
Ricordo, in proposito, un episodio verificatosi proprio sulle pagine della nuova “Rassegna Pugliese”, un episodio che ormai viene ritenuto molto significativo e quindi è puntualmente citato quando si discute del particolare stile giornalistico di Nicola Pàstina, polemista d’eccezione, capace di una scrittura rapida e incisiva e nel contempo di un’ironia pungente e sottile.
Mi riferisco alla polemica con lo scrittore Giuseppe Prezzolini, celebre penna velenosa della storia letteraria italiana e non alieno, nel passato, da simpatie mussoliniane.
Orbene, a Prezzolini non era affatto piaciuto che nel numero di ottobre 1966 della rivista tranese, e in un articolo a firma di Walter Tommasino, si fosse affermato tra l’altro che la “Rassegna Pugliese” di Valdemaro Vecchi “non solo fu l’antesignana delle riviste fiorentine dell’inizio secolo, ma soprattutto il modello insuperato della ‘Voce’ di Prezzolini”.
Per cui, sia pure ultra ottantenne, eccolo, Prezzolini, non farsi sfuggire l’occasione per risfoderare la sua penna al cianuro e, dalle pagine del “Borghese”, la rivista fondata da Leo Longanesi e alla quale, all’epoca, egli collaborava, eccolo rispondere testualmente: “E’ proprio vero che i creatori delle riviste fiorentine dell’inizio del secolo s’ispirarono alla ‘Rassegna Pugliese’. Papini non faceva che leggerla giorno e notte, Corradini se la portava a tavola e la leggeva mentre faceva colazione per non perdere tempo. Prezzolini la teneva al capezzale del letto, per pre-parare gli articoli dell’indomani. Borgese conservava la collezione ed ogni tanto andava a consultare i fascicoli arretrati. Non parlo poi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile: se ne disputavano le copie”.
Ironia raggelante, indubbiamente, e comunque tale da lasciare di sasso qualsiasi incauto interlocutore. Ma non Nicola Pàstina, che nel numero successivo della “Rassegna”, dopo avere elegantemente riconosciuto le qualità letterarie dello scrittore perugino, così aggiungeva: “L’umorismo non è un genere facile, e forse Prezzolini era un più raffinato umorista quand’era più giovane e scriveva che l’Opera Nazionale Balilla era la più grande rivoluzione sociale che si sia compiuta in Italia da secoli; oppure era lui Prezzolini, e non l’ottimo prof. Tommasino, uno dei più grandi inventori d’Italia quando scopriva che il duce era un motore unico e centrale, instabile e onnipresente che spinge, spinge, spinge”.
Questo dunque fu il Nicola Pastina che io conosciuto.
E suo fratello Domenico, invece?
Ben altro, per le ragioni che ho già detto, fu il mio approccio con lui, più indiretto, più mediato dalle letture e dai racconti altrui, ma non meno stimolante, non meno coinvolgente.
E allora?
“Dell’un dirò, però che d’amendue/ si dice l’un pregiando, qual uom prende,/ perch’ ad un fine fuor l’opere sue/…” ripeterei con il poeta se non temessi di far torto ad entrambi appiattendo le loro biografie in una superficiale consonanza di ideali e di opere.
Forte fu, infatti, la personalità di Domenico Pastina e forte fu quella di Nicola, al di là della comune mitezza di carattere, e fu per questa forza che entrambi s’impegnarono con spirito critico nella lotta politica, furono lucidi testimoni della vita pubblica non solo pugliese ma nazionale e, in misura diversa, entrambi furono protagonisti di un episodio che, dopo gli anni bui della censura fascista, contribuì ad avviare la stagione della libertà di stampa in Italia. Mi riferisco, ovviamente, alla pubblicazione presso la Tipografia Vecchi, nell’ottobre del 1943, di un numero dell”Italia libera”, un giornale che giustamente è stato definito l’antesignano della libertà di stampa in Italia.
E, non prima di contestualizzarlo, vengo dunque al tema che mi è stato chiesto di trattare e al quale da ora disciplinatamente mi atterrò.
Quale fu, allora, il contesto storico nel quale si collocò la pubblicazione dell“Italia libera”? E quali furono le sue motivazioni originarie?
La sera dell’8 settembre del 1943, dunque, veniva im-provvisamente diffuso per radio l’annuncio dell’armistizio.
Il 10 settembre Vittorio Emanuele III, a bordo della nave “Baionetta”, con tutta la corte e il maresciallo Badoglio giungeva a Brindisi a conclusione della sua precipitosa fuga dalla capitale.
Iniziava così la fragile e incerta vita di quel “Regno del Sud” che, “per garantire - come si disse - la continuità dello Stato italiano”, si limitò temporaneamente ad esercitare la sua sovranità prima sulle province pugliesi di Bari Brindisi Lecce e Taranto e, dal febbraio del 1944 fino al suo trasferimento a Salerno il 5 giugno dello stesso anno, su tutta l’Italia a sud delle province di Foggia e di Napoli.
Una vita incerta, ho detto, che davvero sembrava “composta da ordini diversi di esseri viventi”.
Da una parte, infatti, vi era uno Stato corroso e svalutato anche dall’interno e i partiti politici (il Partito liberale, la Democrazia Cristiana, il PSIUP, nel quale si raccoglievano i socialisti del tempo, il PCI e il Partito d’Azione) con scarsi legami con le masse e ancora gestiti da pochi volenterosi; e dall’altra una popolazione ancora scossa dalle paure di una guerra lunghissima e dai continui estenuanti sacrifici per sopravvivere, una popolazione praticamente tagliata fuori dal mondo (i giornali erano scarsamente diffusi e la radio trasmetteva solo musichette e mai un commento ai gravi fatti che avvenivano in Italia) e che quindi sapeva con uno sfasamento di sei/sette giorni sull’avvenimento che ormai faceva parte del “Regno del Sud” e che il resto dell’Italia (dove risorgeva il fascismo e dove pure si andavano organizzando i primi nuclei partigiani) era in mano ai tedeschi.
Su tutto, insomma, il segno drammatico di una guerra che continuava realmente, per la presenza, fino a Bari, di un’amministrazione militare anglo-americana, forte di una potenza di mezzi mai immaginati, e, per alcune improvvise incursioni nel nord barese, delle ultime retroguardie tedesche.
E’ in questo contesto che va pertanto collocato non solo l’episodio della rappresaglia nazista dei 50 ostaggi a Trani, ma anche la pubblicazione, presso la Tipografia Vecchi, dell’”Italia libera”, che uscì come organo del Partito d’Azione, una forza politica costituita in gran parte da militanti dell’ormai disciolto movimento di “Giustizia e Libertà”.
E’ stato lo storico Giovanni De Luna, in un suo libro pubblicato negli anni ’80 da Feltrinelli (”Storia del Partito d’Azione – 1942-1947”) a dare un più giusto significato all’esperienza azionista nella crisi bellica e postbellica, a valutare le ragioni della sua affermazione durante la Resistenza e del suo declino dopo la Liberazione, e quindi non solo a rimuovere quel pregiudizio che, diffuso a sinistra non meno che a destra, ha fatto stimare gli azionisti degli intellettuali piuttosto che dei politici, degli idealisti piuttosto che dei realisti, ma a chiarire che il fallimento del partito non sia da addebitare al loro modo di fare politica ma in gran parte agli equivoci e alle contraddizioni che caratterizzavano la scena nazionale come quella internazionale.
Non mi sembra questa la sede per riprendere tali argomentazioni, ma insieme a De Luna è opportuno ricordare non solo che il Partito d’Azione, insieme al PCI, fu il movimento più numeroso e agguerrito del tempo e che si qualificò come importante strumento di mediazione sociale, ma che gli azionisti, al di là della loro intransigenza politica e morale, intuirono molte cose sullo sviluppo della società italiana in un regime democratico, colsero l’importanza dell’apparato statale e la necessità di una sua riforma profonda dopo l’esperienza fascista e affrontarono con intelligenza sia i nuovi termini della questione meridionale sia il ruolo sempre più decisivo che le classi medie erano destinate a giocare all’interno di uno sviluppo capitalistico.
Ne consegue, in questa luce, che anche il giornale pubblicato a Trani nell’ottobre del ’43 assume certamente un’importanza maggiore di quella che finora pur gli è stata riconosciuta.
Orbene, nei tempi di cui ci interessiamo, tra gli azionisti pugliesi (perlopiù giovani intellettuali formatisi nel gruppo vicino alla casa editrice Laterza, fortemente segnati dall’influenza di Tommaso Fiore) i più impegnati erano indubbiamente Michele Cifarelli, magistrato ancora trentenne, il prof. Fabrizio Canfora, illustre professore di storia e filosofia al liceo “Orazio Flacco” di Bari e padre dello storico Luciano Canfora, l’avv. Giuseppe Papalia, Vincenzo e Vittore Fiore, figli di Tommaso, e i tranesi Domenico Pàstina, avvocato allora 45enne, suo fratello Nicola, di 3 anni più giovane e l’avv. Vittorio Malcangi, l’illustre penalista, al quale si deve la progettazione del primo comitato antifascista a Trani.
Ad essi si era unito l’ing. Vincenzo Calace (anch’egli tranese, ma vissuto prevalentemente a Bisceglie) che, appena liberato da lunghi anni di detenzione nelle carceri fasciste, era ormai tra gli esponenti più attivi del Partito d’Azione che, nello storico primo congresso dei partiti antifascisti tenuto nel teatro “Piccinni” di Bari il 28 gennaio del 1944, lo designerà come proprio rappresentante nella Giunta esecutiva permanente del C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale).
Fu in questo gruppo, il 12 settembre del ’43, due giorni dopo l’arrivo del re a Brindisi, che, commentando quella notizia, venne dunque l’idea di estendere l’azione politica impossessandosi di uno strumento di propaganda valido su un vasto territorio.
Si decise così di utilizzare le antenne di Radio Bari che, organizzata dagli alleati, divenne ben presto “la voce dell’antifascismo pugliese”, e, sul fronte giornalistico, fallito il tentativo di garantire alla direzione della “Gazzetta del Mezzogiorno” un direttore antifascista e progressista (“Furono tutti d’accordo nell’indicare Domenico Pàstina di Trani” – ricorda Mario Dilio) per una sterzata alla politica di quel giornale, già compromesso col passato regime, i fratelli Pàstina e Vincenzo Calace, grazie all’appoggio del tipografo Francesco (Bebè) Petra-rota, pensarono di dar vita all’edizione meridionale dell’”Italia libera”, la cui direzione responsabile fu affidata a Nicola Pàstina.
Il giornale sarebbe stato composto soltanto da quattro fogli di piccolo formato, ma avrebbe avuto una tale forza d’urto da procurare non poche noie al governo Badoglio.
Scrive in proposito Fabrizio Canfora nella sua bella prefazione alle “Pagine sparse” di Mimì Pàstina, raccolte da Nicola per l’ Adriatica editrice nel 1971, che, in una situazione che vedeva il governo Badoglio teso a ricostruire e a rinsaldare l’ossatura del vecchio stato prefascista, a fare del Mezzogiorno una sorta di Vandea, di contraltare delle forze democratiche più avanzate, pre-minenti e impegnate nella guerra di resistenza nel Nord, era naturale che i democratici del Sud, per deboli che fossero, tentassero con ogni mezzo di saldare moralmente e politicamente Nord e Sud della penisola.
Primo obiettivo del locale gruppo dirigente del Partito d’Azione, quindi, fu quello di strappare dal governo brindisino il decreto sulla libertà di stampa, sul diritto dei partiti a operare alla luce del sole e a disporre d’un proprio organo d’informazione.
Fu così che, a un mese dall’insediamento del re e del suo seguito a Brindisi, nell’ottobre venne lanciato, in violazione all’ancora vigente legislazione fascista sulla stampa, il primo numero dell’”Italia libera”: al fine, appunto, di provocare la reazione del locale governo e di indurre quindi gli alleati, sensibili in questioni di forma, ad intervenire.
E la reazione, naturalmente, non mancò. Quel “foglietto striminzito di quattro pagine” - come l’ebbe a definire lo stesso Nicola Pàstina - fu infatti considerato clandestino e, fatto sequestrare, diede luogo all’incriminazione e all’arresto di Vincenzo Calace, dello stampatore Francesco Petrarota, e - si dice per errore, ma non ne sono tanto convinto - di Domenico Pàstina.
A base però della pronta reazione repressiva - scrive ancora Canfora - era senza dubbio l’intonazione trasparentemente repubblicana del giornale, il quale - aggiunge Nicola Pàstina in un articolo pubblicato nel 1966 in un fascicolo della rinata “Rassegna pugliese” - poneva con chiarezza i problemi della nuova Italia ed accusava senza riguardi la monarchia e gli uomini del suo entourage, recando di conseguenza un grave colpo alla realizzazione del progetti brindisini.
Tra gli articoli apparsi su quel foglio, infatti, vi erano: un editoriale firmato da Michele Cifarelli (“Il dovere supremo”), in cui si sosteneva la necessità di concorrere con gli alleati nella lotta contro i tedeschi se si voleva in qualche modo “contare” e riscattare il paese; un’intervista al conte Carlo Sforza, tornato in Italia il 19 ottobre del ’43 dopo lunghi anni di esilio in America, e nella quale il futuro ministro degli esteri criticava aspramente l’idea di Churcill che l’Italia dovesse raccogliersi attorno al re e in cui si chiedeva “un netto colpo di scopa del governo italiano”; un trafiletto dedicato al ministro della Real Casa Acquarone, descritto come un “Metternich in 64°”; un articolo, non firmato, di Vincenzo Calace, pieno di umanità e di bontà, sul tema dell’epurazione e contro le liste di proscrizione e nel quale con coraggiosa fermezza si protestava contro la “caccia all’uomo” che si verificò nei primi mesi dopo la caduta del fascismo; e soprattutto uno scritto di Domenico Pàstina contro la monarchia e i ministri del governo Badoglio, da Pàstina giudicati personaggi mediocri e incapaci di “liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo”.
Ma leggiamo insieme, perché ne vale la pena, alcuni passi di questo scritto, tutto grondante sdegno e ironia.
“Domandiamo innanzi tutto - scriveva Mimì Pastina - se esiste un Governo regolarmente funzionante. Or è un mese, il Maresciallo Badoglio abbandonò Roma e i suoi ministri civili e si rifugiò a Brindisi con i ministri militari. Nulla si sa della sorte di quegli infelici che dovrebbero considerarsi tuttora in carica, dato che nessun prov-vedimento ufficiale è stato preso nei loro confronti (…): Certo si è che, venuta meno la compagine ministeriale, il Maresciallo si è (…) circondato di gente di statura troppo piccola per poter dirigere il popolo italiano nel momento di eccezionale gravità che si attraversa. Un ministro della real casa, alcuni prefetti educati e allevati in regime fascista non possono e non potranno mai liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo. Chi si è avvezzato a dare ordini a colpi di scudiscio, a vedersi davanti schiene prone di lacchè compiacenti, non avrà mai la capacità di discutere liberamente i problemi dell’ora da paro a paro con liberi cittadini degni di questo nome (…)”.
E aggiungeva: “Alle cariche pubbliche vengono chiamati uomini screditati o dal passato politico inquinato da filofascismo; dalla Radio di Bari sono stati eliminati elementi di alta cultura e di provata fede antifascista per ridare alla propaganda la vuota e bolsa intonazione dei tempi fascisti.”
“Il Partito d’Azione - dunque - tradirebbe la sua missione, se non gittasse alto il suo grido di allarme; chi vieta la trasmissione radiofonica degli inni di Mameli e di Garibaldi dimostra tanta ottusità politica, dà prova di essere permeato di tanto fascismo, da meritare il più aspro anatema! Né ci si venga a dire che il Governo Badoglio ha molto da fare e che è opera antipatriottica creargli delle difficoltà: nulla di più falso. Il Governo (…) del Maresciallo Badoglio, nel mese trascorso, non ha fatto nulla e per l’avvenire non ha intenzione di far nulla. Vi sono problemi gravi e angosciosi e urgenti, quali l’assistenza, l’alimentazione, la finanza pubblica, il riordinamento dell’esercito, che non vengono, prima che risolti, neanche affrontati, neanche proposti. Vi è poi il problema formidabile e fondamentale della guerra. Noi siamo in guerra contro la Germania, ma dove sono i nostri soldati, dove sono i nostri volontari? I cittadini animosi ed entusiasti, che a migliaia arrivano per arruolarsi da tutti i territori, liberi od occupati d’Italia, sono sistematicamente respinti dalle autorità militari. Le iniziative individuali sono severamente proibite. E allora che cosa si aspetta? (...) Finiamola - dunque - con i sistemi ermetici di governo! Il popolo ha il diritto di sapere ciò che si vuole e dove si va e i governanti hanno il dovere di far partecipare il popolo al governo. Diversamente andremo incontro a un fascismo peggiore”.
E concludeva: “Noi, come combattemmo il fascismo, combatteremo anche, se sarà necessario, e con tutte le nostre forze, questa che potremmo definire una degenerazione del fascismo.”
Che forza, in queste parole, così dirette, così esplicite, e quanto lontane da certo politichese dei giorni nostri. E quanta passione civile esse riflettono!
Sembra proprio di vederlo Mimì Pàstina, lui che fortunosamente, nell’ottobre del 1930, era scampato alla “retata” dei giellini operata in varie città d’Italia dall’OVRA, la polizia politica che il regime aveva istituito per combattere e reprimere l’opposizione al fascismo, sembra proprio di vederlo ergersi nella sua gentile persona e affiancarsi con fierezza ai tanti suoi compagni di “Giustizia e Libertà” che invece erano finiti arrestati (e fra i quali Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, e lo stesso Vincenzo Calace) e il cui maggiore elogio è scritto proprio nelle parole della sentenza del Tribunale speciale fascista che condannandoli nel 1931, insieme ad altri antifascisti, e nell’illusione di bollarli per sempre e giustificarne la condanna, li aveva definiti “uomini audaci, al di sopra di ogni personale interesse, capaci di tutto pur di abbattere il regime”.
E che implacabile disanima dei problemi della nuova Italia, che lucida consapevolezza della vera natura del governo Badoglio che, nel giro di qualche ora, con l’arresto di Calace, dello stampatore Petrarota e di Mimì Pàstina (non trovato in casa, questi si costituì il giorno dopo), manifestò chiaramente che non solo non aveva intenzione di procedere al ripristino della libertà di stampa, di cui il paese da diciotto anni era stato privato, ma che non intendeva riconoscere ai partiti antifascisti il diritto di organizzarsi e propagandare liberamente le loro idee e i loro programmi, né accordare un minimo di credito e fiducia a tutti coloro che avevano fama di antifascisti.
Quella operazione poliziesca, dunque, non fu solo un tentativo di rappresaglia e di intimidazione contro degli azionisti che ponevano al primo punto del loro programma la istanza repubblicana, ma anche un atto di furberia provinciale di chi riteneva di poter continuare a spadroneggiare impunemente nella vita politica della nazione, e per di più di una nazione ridotta a due regioni del Mezzogiorno, sui cui sentimenti filomonarchici si faceva ancora assegnamento.
Ma si vide ben presto quanto fosse sbagliato questo calcolo.
L’arresto dei due azionisti, infatti, ricorda ancora Nicola Pàstina in quell’articolo del 1966, e specialmente di Vincenzo Calace, un antifascista che aveva trascorso tredici dei suoi anni migliori tra carcere e confino, determinò una penosissima impressione in tutte le nostre città, e “fu un tipico esempio di boomerang che si risolve in danno di colui che lo ha lanciato”.
Vi fu, infatti, l’autorevole intervento del conte Sforza, del giornalista Alberto Tarchiani, poi ministro del secondo governo Badoglio e per dieci anni ambasciatore italiano negli Stati Uniti; vi fu la veemente insurrezione dei partiti politici; se ne parlò persino alla Camera dei Comuni, a Londra; e i Comandi alleati, sensibili – come abbiamo già detto – alle questioni di forma, non poterono negare l’enormità di quella odiosa misura poliziesca.
Così l’occasione fu utilissima e servì a rendere clamorosamente evidente quale fosse il preteso nuovo abito democratico di Vittorio Emanuele, di Badoglio, dei generali e dei ministri di corte; i quali furono a malincuore obbligati a fare marcia indietro e a concedere un minimo di libertà di stampa, la libertà di riunione e di propaganda politica e, ovviamente, a scarcerare, dopo soli otto giorni di detenzione nel carcere barese di Via Carrassi (una detenzione che, in verità, ricorda suo fratello Nicola, Mimì Pàstina prese con spirito e ironia e se ne divertì molto) i due azionisti e il tipografo Petrarota.
Certo, si potrebbe obiettare che prima o poi la libertà di stampa si sarebbe ottenuta, e che nessun governo avrebbe potuto a lungo farsi scudo della legislazione fascista sulla stampa.
L’episodio, cioè, certamente non va sottovalutato, ma - come d’altra parte riconosce lo stesso Nicola Pàstina - nemmeno sopravvalutato.
E’ innegabile, tuttavia, che l’arresto dei nostri azionisti fu l’occasione propizia, la causa determinante, diciamo pure il pretesto, per accelerare i tempi, consacrare tangibilmente la decadenza morale, la natura illiberale di quella legge sulla stampa, che risaliva al 1928, e costringere il governo Badoglio a un primo riconoscimento del nuovo assetto democratico.
Un episodio, insomma, che pure al di là dei meriti che Giovanni De Luna ha riconosciuto al Partito d’Azione, non sarebbe giusto far passare sotto silenzio.
Per questo, allora, a 64 anni dalla pubblicazione dell’”Italia libera”, a 48 anni dalla morte di Domenico Pàstina e a trent’anni esatti da quella di Nicola Pàstina, ne parliamo ancora oggi, e con la speranza, naturalmente, che se ne tragga insegnamento.
Domenico di Palo


* Il testo qui riportato (uscito nel 2007 a puntate sul “Giornale di Trani” e poi ripubblicato in edizione aggiornata nel 2009 da Landriscina Editrice) è la relazione da me svolta nel Convegno su “I fratelli Pàstina e la difficile nascita della democrazia a Trani e in Italia”, organizzato a Trani il 16 giugno 2007 dall’Associazione “Obiettivo Trani” e dalle Sezioni di Trani e di Andria della “Società di Storia Patria per la Puglia”, in collaborazione con il Comitato di Bari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, e al quale intervennero anche i professori Franz Brunetti, Giuseppe Brescia e Giovanni de Gennaro.

“RENATO E I GIACOBINI” ALLA LIBRERIA PALOMAR *

Soltanto poche parole, e innanzitutto per ringraziare il prof. Gaetano Bucci, che con la sua consueta efficacia discorsiva vi parlerà del mio ultimo libro “Renato e i giacobini”; l’Ufficio stampa della Palomar, e soltanto quello; e, naturalmente, tutti voi che davvero mi onorate con la vostra presenza.
Quanto al mio libro, poi, non credo di dovere dire molto.
Penso, infatti, che in queste occasioni l’autore, lasciando ai critici il compito di chiosare il suo testo, debba limitarsi (così come farò leggendovi alcune pagine del libro) a proporre un approccio diretto alla sua opera, anche per evitare di sovrapporre le intenzioni originarie ai risultati che, in fondo, sono quelli che contano.
Tuttavia, e con la speranza che possano in qualche modo essere utili, mi preme fare alcune precisazioni.
In “Renato e i giacobini”, (al di là del piacere di scrivere di un personaggio come Renato, che è un intellettuale di provincia con l’uzzolo della letteratura sempre vagheggiata e saltuariamente praticata, ironico e autoironico, narciso e istrione ma anche tenero e appassionato); in “Renato e i giacobini”, dunque, attraverso la parabola esistenziale del suo protagonista, attraverso i brandelli di vita, pubblica e privata, che Renato viene rievocando per accumulare il materiale necessario per il romanzo che ha deciso di scrivere, io ho voluto raccontare soprattutto la storia di una generazione, o meglio di un gruppo di giovanotti (i giacobini) che negli anni ’60 e ’70, con le loro debolezze e i loro slanci, hanno sognato di cambiare il mondo, e che purtroppo poco hanno stretto tra le mani, e che per questo, anche di fronte ai vizi e ai mali che ancora oggi incancreniscono il Sud Italia, hanno finito con l’assumere un atteggiamento mentale e una disposizione sentimentale ormai svuotati di illusioni e di inutili attese.
Di qui, allora, la sostanziale disinvoltura con la quale nel libro si affrontano i problemi, anche i più seri, e di qui la leggerezza e la sobrietà che sottendono i diversi temi che vi sono sviluppati, che siano amari o spiritosi, dall’infanzia di guerra agli anni della giovinezza inquieta, dalle grandi amicizie solidali all’impegno politico totale e alle grandi lotte ideali, dal degrado politico sociale ed esistenziale all’incipiente vecchiaia con le solitudini e le malat-tie.
Per prevenire, poi, una domanda che ormai mi fanno in molti sulla eventuale dimensione autobiografica del libro, dico subito che, certo, Renato sono io, ma soltanto al 5%, nel senso che il mio libro è sicuramente autobiografico, ma – come accade in un’opera letteraria – si tratta pur sempre di un’autobiografia filtrata o manipolata, per così dire, per esigenza… di copione.
In ogni caso, va bene così, e ognuno vi legga quello che vuole.
Per concludere permettetemi di comunicarvi che naturalmente sono felicissimo che il mio libro si legga – come mi riferiscono – tutto d’un fiato, e che piaccia molto anche agli “addetti ai lavori”.
Certo, so bene che per il successo editoriale, oggi, biso-gnerebbe scrivere soprattutto di commissari di polizia siciliani e di avvocati che fanno le loro belle indagini giudiziarie, o con-fezionare tormentate storie d’amore tra adulti e adolescenti.
Ma, come non c’è niente di male a fare tutto questo, non c’è niente di male a sperare, nel mio caso, in un colpo di…fortuna, e quindi a pensare che si possa essere letti anche scrivendo di personaggi come Renato e come i suoi amici “giacobini”.
E, detto questo, credo proprio che basti. Grazie.
Domenico di Palo


* Bari, 13 aprile 2007

SU NINO PALUMBO PERCHE’ TANTO OBLIO? *

Caro direttore,
ti scrivo perché la recente pubblicazione di un nuovo libro su Nino Palumbo non solo mi ha fatto immenso piacere per la rinnovata attenzione all’opera di un caro amico che fu scrittore serio e meditato, ma mi ha messo anche, per così dire, un po’ di veleno sulla coda ed io, nonostante la mia non più giovane età, mi sento nella condizione di chi se non parla… scoppia.
Il libro, dunque, uscito nel 2004 da Marsilio a cura di Francesco De Nicola, professore di letteratura italiana all’Università di Genova, e di Pier Antonio Zannoni, giornalista professionista che lavora alla RAI genovese, raccoglie le relazioni presentate al convegno nazionale di studi “Nino Palumbo, vent’anni dopo” (da cui il titolo del volume) che si è tenuto a Rapallo il 20 giugno 2003.
Dopo, infatti, le parole introduttive dell’illustre storico della letteratura italiana Giuliano Manacorda, che ha seguito fin dagli esordi la produzione narrativa di Nino Palumbo, ecco un denso saggio sull’”Itinerario della scrittura palumbiana” di Sebastiano Martelli, il critico già autore di una monografia sullo scrittore tranese uscita nel 1979 e che successivamente ha svolto un’analisi accurata degli inediti di Palumbo. Ed ecco la relazione di Luigi Surdich su “Gli impiegati di Palumbo”, ossia sui problemi di coscienza dei protagonisti dei romanzi “Impiegato d’imposte” e de “Il giornale”; ed ecco uno scritto di Elvio Guagnini su “La mia università”, il bel libro di racconti che Palumbo pubblicò da Bastogi nel 1981; e poi un curioso intervento di Massimo Bacigalupo su “Palumbo nel Tigullio”, dove lo scrittore si trasferì con la moglie Donatella nel 1951 (aveva trent’anni) per coltivare nella solitudine di S. Michele di Pagana la vocazione letteraria che gli era scoppiata dentro. Ed ecco, di Claudio Marabini, un altro studio sui racconti del Nostro (“Alcuni racconti di Palumbo”), a cui segue un interessante saggio di Francesco De Nicola, il curatore del volume, su “’Prove’: una rivista e un premio letterario”, che ripercorre la storia della rivista che Palumbo fondò nel 1960 (e alla quale collaborarono nomi prestigiosi della letteratura italiana, tra cui Leonardo Sciascia, che vi pubblicò i primi capitoli de “Il giorno della civetta”) e del premio “Rapallo-Prove” per la narrativa inedita, da lui voluto nel 1962 e della cui giuria, prima presieduta da Maria Bellonci e poi dall’indimenticato Mario Sansone, a testimonianza dell’importanza di quella manifestazione e della capacità di Palumbo di riunire intorno a sé rappresentanti altamente qualificati della letteratura e della critica italiane, fecero parte Elio Filippo Accocca, Giorgio Bàrberi Squarotti, Lanfranco Caretti, Bartolo Cattafi, Giuliano Manacorda e Carlo Salinari.
Chiude il volume uno studio sull'ultimo Palumbo (Dal "Serpente malioso" a "Domanda marginale") di Daniela Bisello Antonucci.
Il libro, dunque, come si evince dalle relazioni riportate, è un ennesimo eloquente e significativo contributo alla già ricca bibliografia critica sul compianto scrittore tranese, un contributo che giustamente Giuliano Manacorda, a conclusione del suo intervento introduttivo, definisce “un atto dovuto, all’uomo e allo scrittore davvero troppo a lungo obliato nella sua prima patria pugliese e nella seconda, Rapallo. E che oggi - scrive l’illustre critico romano - vogliamo riprendere per ricordare l’uomo caro e sincero, ospitale, e lo scrittore che avendo segnato ad alto livello una stagione della nostra letteratura, penso che meriti non soltanto le parole che noi oggi gli dedichiamo, ma una nuova e approfondita considerazione da parte dell’editoria, della critica, dei lettori”.
Parole sacrosante, aggiungo io, di fronte alle quali non ci resta che annuire in silenzio o, al limite, aggiungere a fior di labbra: E’ vero, è tutto vero!...
Ma allora, mi dirai, perché aprire questa lettera parlando di “veleno sulla coda”?
Perché, ti dico subito, a fronte del piacere per un giudizio che giustamente rivendica all’opera di Palumbo uun ruolo più significativo nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento, ecco il mio rammarico per l’oblio nel quale invece Egli è caduto nella sua “prima patria pugliese”, a Trani e nella regione; ed ecco la mia amarezza e la mia delusione per l’inutilità del grande impegno che, per più di due anni, insieme all’amico Eduardo De Simola di “Obiettivo Trani”, io ho profuso per coinvolgere l’Amministrazione comunale in un'iniziativa che, a venti anni dalla sua morte, ricordasse degnamente lo scrittore tranese.
Eppure da parte del sindaco, con il quale, in più occasioni, l’amico De Simola ed io abbiamo avuto l’onore di parlare della cosa, non sono mai mancate parole di fervida adesione alla nostra proposta (“Stia tranquillo, professore. Faremo tutto quello che lei vuole per Nino Palumbo”); né sono mancate, come a sottolinerare l’assoluta serietà di questa adesione, solenni dichiarazioni di principio (“Noi investiamo tutto sulla cultura!”).
Di qui l’invito ufficiale, per sollecitarne la collaborazione, a proseguire i miei contatti con il prof. Sebastiano Martelli, animatore, con Francesco De Nicola, del convegno organizzato a Rapallo il 20 giugno del 2003 e che oggi certamente è lo studioso più impegnato delle opere di Palumbo.
Di qui l’idea di ripubblicare con l’editore Avagliano (quello del best seller “Il resto di niente” di Enzo Striano, e con il quale sono stati già definti spese e titoli) le due più importanti opere di Palumbo, “Il giornale” e “Pane verde”.
Di qui la proposta di una giornata di studi da tenere a Trani con la partecipazione di studiosi e docenti delle Università di Bari, Salerno, Roma e Genova.
Di qui, infine, la previsione di incontri con studenti e insegnanti delle scuole secondarie di Trani, previa distribuzione alle scuole delle due opere riedite dello scrittore.
Di qui, insomma, un progetto qualificato, per la realizzazione del quale il prof. Martelli assicurava tutta la sua disponibilità a dare una collaborazione “per il valore - egli scriveva in una lettera al sindaco di Trani del 9 dicembtre 2003 - che l’opera di Palumbo conserva mella letteratura italiana contemporanea e per i rapporti personali di amicizia che mi hanno legato allo scrittore.”
Ma, nonostante tutto, cominciano a passare settimane, passano mesi, passano anni e per Nino Palumbo al Palazzo di Città non si muove un dito. E quando alle nostre sollecitazioni (quella mia e di De Simola) viene risposto di ricontattare il prof. Martelli per ribadire la precisa volontà dell’Amministrazione comunale “di dare corpo ad una iniziativa che onori degnamente la memoria del nostro illustre concittadino”, torno a sperare che si tratti davvero della volta buona…
E, naturalmente, capita che un giorno l’amico De Simola mi faccia sapere che è tutto rinviato all’anno nuovo (?) e che per ora su Palumbo al Comune non si pensa proprio niente.
Ecco, allora, caro direttore, perché c’è veleno sulla coda, ecco perché sono incazzato nero, ecco perché vado dicendo in giro che in futuro non mi presterò più a fare certe figure con il prof. Martelli; ed ecco perché mi chiedo come mai ho ancora a che fare con i politici.
Hai ragione – mi dirai – ma la triste esperienza della biblioteca comunale, da anni ancora impraticabile nonostante le sempre più ferme promesse di muovere mari e monti per riportarla al suo antico splendore, avrebbe pur dovuto insegnarmi qualcosa.
Ma come vedi, purtroppo, la mia ingenuità non conosce confini.
Nella vita, si sa, non si finisce mai d’imparare, né penso che, per quanto mi riguarda, finirò domani o dopodomani, quando con l’amico De Simola mi recherò dal sindaco di turno e gli chiederò, per esempio, come si muoverà l’Amministrazione comunale per celebrare degnamente, nel 2006, il centenario della morte di un altro grande “figlio” di Trani come Valdemaro Vecchi.
Cari saluti, e grazie per l’ospitalità.
Domenico di Palo

* In “Il Giornale di Trani , 8 luglio 2005

GLI ANNI DEL “TRANESIERE” E DI “SINGOLARE/PLURALE” *

Ho conosciuto Raffaello Piracci quand’ero ancora un bambino.
In quel tempo, infatti, Piracci, amico di alcuni zii materni, frequentava spesso casa mia, in Via Giustina Rocca, la strada in cui sono nato e dove ho abitato per più di venti anni.

Si tratta, d’altra parte, di un’amicizia ricordata da lui stesso nel libro appunto dedicato a quella strada, un libro che, non perché vi sono direttamente coinvolto, è tra le opere di Piracci che ancora oggi preferisco.
“Via Giustina Rocca a Trani”, infatti, che giustamente fu definito un “romanzo d’ambiente”, è un libro che si legge tutto d’un fiato ed è ricco di pagine davvero suggestive per la straordinaria capacità di rievocare, con tratti cordiali e misurati, tipi e scenette di un tempo ormai passato per sempre.

Penso insomma che con questo libro Piracci ci abbia dato (insieme ad “Accadde a Trani nel ‘43” che, nella struttura e nel contenuto, in gran parte anticipa quel “Trani in guerra” pubblicato quattro anni fa dal “Giornale di Trani”) una delle sue prove migliore di studioso impegnato a ricostruire certo colore locale e certa storia più intima della nostra città e che con la sua attività di storico e di pubblicista caratterizza di sé una stagione molto feconda della cultura del ‘900 a Trani, la stagione del “Tranesiere” (1959 – 1992), la sua creatura prediletta, e che, a ragione, egli definì “il periodico tranese più duraturo del secolo”.

E fu proprio col “Tranesiere” che, dopo aver fondato nel 1978 “SINGOLARE/PLURALE”, il mio periodico di critica e costume (e vengo adesso all’argomento sul quale mi è stato chiesto di intervenire), ebbi l’avventura, per tredici anni, fino al 1991, di misurarmi con grande impegno ma con grande lealtà.

Rispondevo, d’altra parte, nel modo che mi pareva più adeguato alle parole che Piracci, recensendo un numero del mio periodico, aveva scritto nel marzo del 1979 sul “Tranesiere”.
“Noi del ‘Tranesiere’ – aveva scritto tra l’altro – non possiamo ignorare questa pubblicazione, anche perché la nascita di un nuovo organo di stampa nella nostra città non può considerarsi priva di riflessi positivi, specie sotto il profilo culturale, e le rivolgiamo i nostri auguri. E’ vero – aggiungeva Piracci – non ci trova d’accordo la sua impostazione ideologica, ma di tanto in tanto ci offre l’occasione di verificare la nostra e soprattutto la nostra coerenza, in una dignitosa professione di umiltà che non deve farci credere migliori degli altri, ma tenerci in continua tensione di progresso.”

Era il suo caratteristico modo di affrontare le questioni, di piegarli cioè alla sua visione del mondo ma senza togliere ad esse autonomia di vita e di funzione.
Il Prof. Piracci, infatti, pur saldo nelle sue idee, aveva un profondo rispetto per chi professava idee diverse. Purché ci fossero, naturalmente, queste idee, e purché non ci si irretisse in tinte forti e nella faciloneria.
Per questo finì col detestare la volgarità e il chiasso di un giornale che, come meteora, in quegli anni circolò a Trani,

E per questo, soprattutto nei colloqui privati, era capace di sottile ironia nei confronti di chi s’improvvisava storico della città, ma, alieno, com’egli era dai pettegolezzi, senza andare mai sopra le righe.
Non venendo mai meno, insomma, alla particolare natura del suo moderatismo, per il quale se è vero che, con gli anni, sulle pagine del “Tranesiere”, egli sfuggì alla polemica (qualcuno gliene fece una colpa) e negli studi storici a volte sospese il giudizio critico, è anche vero che, libero da ogni preconcetto, era capace di apprezzare la serietà dell’impegno e l’onestà intellettuale, quella serietà e quell’onestà che, a prescindere dal fervore con cui sul mio giornale mi capitava a volte di affrontare la discussione, ad ogni numero di “SINGOLARE/PLURALE”, bontà sua, egli continuò a riconoscermi.
Ed io, naturalmente, gli fui molto grato, e da parte mia, ricambiandogli la stima, cominciai a considerare non più come un limite ma come un elemento distintivo il suo moderatismo, e sempre più spesso gli diedi atto di buon senso e di equilibrio nel giudizio e nel comportamento.
Un rapporto, dunque, per così dire non di buono ma di ottimo vicinato quello intercorso fra il “Tranesiere” e “SINGOLARE/PLURALE”, e per esso fu possibile realizzare quella che alcuni nostri comuni lettori del tempo, “al di là di ogni autonomia e distinzione ideologica e politica”, definirono una “sintesi culturale, sociale e civile”.

E’ quanto, ad esempio, scrisse da Milano l’Avv. Giuseppe Sarni in una lettera al mio giornale che pubblicai nel numero 34 del 1984.
Mi piace oggi ricordare questa lettera perché, più di ogni altra mia considerazione, è la testimonianza oggettiva di come in quegli anni le due diverse esperienze del “Tranesiere” e di “SINGOLARE/PLURALE” si siano sviluppate e abbiano potuto convivere lealmente.

Nella sua lettera, infatti, l’Avv. Sarni, tra l’altro, diceva: “… Apprezzo il contenuto del periodico da lei diretto, si tratta di un ulteriore e notevole contributo al pur cospicuo patrimonio culturale di Trani…” E aggiungeva: “Figure come quelle del Prof. Piracci e del Prof. di Palo hanno per me qualcosa di mistico e mitico allo stesso tempo, qualcosa che riporta ai tempi del Romanticismo nonché ai tempi degli intraprendenti cronisti della old America, del western e del new deal…”. E ancora: “Il vostro ruolo è di insostituibile efficacia nel far da sprone e pungolo alla città: Voi siete la libertà di stampa! Il giorno in cui le voci delle vostre riviste dovessero tacere così come quella del grillo parlante di Pinocchio, la città si sarebbe privata della voce della propria coscienza e sarebbe non dissimile da un burattino legnoso privo di anima…”. E concludeva: “SINGOLARE/PLURALE” e “Il Tranesiere”, ognuno a proprio modo, non sono tesi e antitesi, bensì componenti integranti di una sintesi culturale, sociale e politica per Trani, al di là di ogni autonomia e distinzione ideologica e politica…”.

Di fronte a lodi così sperticate, vi confesso che provai non poco imbarazzo, per cui rispondendo all’Avv. Sarni, lo ringraziai sì per le sue parole, ma gli dissi anche di considerarle un po’ eccessive.
Certo – aggiungevo – le condizioni difficili in cui svolgevamo il nostro lavoro (un po’ meno, in verità, lo erano per “Il Tranesiere”, che contava su una rete più consolidata di abbonati e quindi su migliori risorse finanziarie), la dimensione ancora artigianale nella quale si confezionavamo i due periodici, potevano richiamare alla mente dell’avvocato certi tempi mitici, ma, almeno per quanto mi riguardava, avrei preferito – gli dissi – essere calato in dimensioni meno eroiche. E soprattutto perché ero pienamente consapevole dei miei limiti.

Come dimenticare infatti che l’esperienza di ogni giorno (eravamo nel 1984 ed erano passati soltanto cinque anni dall’uscita del primo numero del mio giornale) più volte mi aveva costretto a ridimensionare i miei progetti originari.

Quanto poi alla “sintesi culturale, sociale e politica” in cui l’Avv. Sarni vedeva integrate le esperienze del “Tranesiere” e di “SINGOLARE/PLURALE”, da parte mia non c’era nulla da eccepire, naturalmente, dal momento che i due periodici continuavano a coesistere. Ma, rischiando forse una gaffe, aggiungevo che essa si legittimava non, come egli riteneva, “al di là di ogni autonomia e distinzione ideologica”, bensì proprio per questa autonomia e questa distinzione, che, dopotutto,, dei due periodici era la ragione di essere, e quindi di durare.
Al Prof. Piracci, attento lettore come sempre del mio giornale, non sfuggì la mia puntualizzazione, ma non tardò a capire che si trattava soltanto di una orgogliosa rivendicazione di identità e non – come maliziosamente aveva insinuato qualcuno – della pretesa di un mio primato nella pubblicistica tranese di quegli anni, un primato che, d’altra parte, non solo non aveva alcun fondamento, ma sarebbe stato sciocco e di cattivo gusto sostenere proprio nei confronti di chi, come il direttore del “Tranesiere”, parlando del mio giornale aveva fatto nel passato “dignitosa professione di umiltà”.

A quale identità, comunque, io mi richiamassi è presto detto.
Se “Il Tranesiere”, infatti, seguendo le chiare e ormai consolidate motivazioni originarie, continuava:
- a valorizzare da par suo il grande patrimonio storico di Trani;
- a contribuire alla dialettica sulla problematica cittadina;
- e a registrare puntualmente gli avvenimenti locali;
“SINGOLARE/PLURALE”, nato per recuperare alla riflessione concreta sulle cose, al dibattito democratico i delusi da certi esiti terribili della lotta politica (erano gli anni di piombo del terrorismo), e quindi teso a ricucire il privato al pubblico, il personale al politico, pur non perdendo di vista la realtà locale, già cominciava invece, nonostante la povertà dei mezzi a disposizione ma grazie anche alla collaborazione di non poche “firme” prestigiose, ad assumere quella fisionomia che lo avrebbe caratterizzato come punto di riferimento come un punto di riferimento nel dibattito politico e culturale della Terra di Bari prima e di tutta la Regione poi.

Vogliate scusarmi se in un incontro destinato a celebrare Raffaello Piracci io intervenga con un discorso che potrebbe sembrarvi soltanto auto-referenziale.
Ma serve anche questo per mettere nella giusta luce il rapporto intercorso tra i nostri due periodici.
Giacché accanto alla stima di cui il mio giornale generalmente godeva si manifestarono ben presto non solo serie preoccupazioni di carattere economico (l’autofinanziamento, che fin dal numero di saggio avevo praticato per amore di libertà, si rivelava assolutamente inadeguato per la sopravvivenza del periodico), ma anche una pesante ostilità da parte di certi ambienti politici cittadini che, per essere ancora immaturi alla libera circolazione delle idee e al dibattito democratico, cominciarono a sabotare con ogni mezzo “SINGOLARE/PLURALE”, smentendo decisamente quello spirito di tolleranza che aveva ispirato all’Avv. Giuseppe Sarni la lettera di cui vi ho già parlato, e finendo col rendermi più preziosi d’altra parte l’interesse e l’attenzione con i quali, scrivendone puntualmente sul “Tranesiere”, Raffaello Piracci continuava a guardare alla mia attività di pubblicista e di letterato.

Mi avviavo, così, a concludere la storia del mio periodico, una storia faticosa ma sempre esaltante, e destinata, nonostante tutto, a rimanere a lungo nella memoria storica della città e della regione, e al di là dell’amara sensazione che allora ebbi di aver perduto tanti anni a gridare nel deserto.

Una sensazione questa che, confidata qualche mese dopo a Piracci (anch’egli nel frattempo, ormai gravemente ammalato, aveva chiuso “Il Tranesiere”), in un ultimo moto di stima e di solidarietà, che lo portò simpaticamente a identificarsi con la mia esperienza, così fu da lui commentata in una lettera scrittami il 24 marzo del 1993:
“… Quanto alle tue considerazioni sul ‘gridare nel deserto’, esse trovano in me un’eco che rimbalzerebbe per tutto il testo della presente, dopo oltre trent’anni di macerazione in una pubblicistica che trovava favore solo in una sparuta minoranza di gente aliena dal pettegolume fin e a se stesso.”

Così allora egli giudicava molti dei lettori del suo periodico e, come per i venticinque lettori di manzoniana memoria, riduceva ad una “sparuta minoranza” quelli che lo avevano realmente capito e seguito fino alla fine.
Io non ho elementi per dire se le cose fossero davvero così, ma sono comunque sicuro che in quella “sparuta minoranza” di estimatori c’erano tutti gli amici qui presenti che, ricordandolo oggi a dieci anni dalla sua morte, contribuiscono decisamente a valorizzare la sua meritoria opera di storico e di pubblicista innamorato di Trani.
Domenico di Palo



* Intervento svolto nel Convegno su “Raffaello Piracci, Trani e il suo ‘Tranesiere’ - Ricordo di R. Piracci a dieci anni dalla morte”, tenuto a Palazzo Palmieri, Trani, il 27 marzo del 2004. Poi pubblicato su “Il Giornale di Trani” del 28 maggio del 2004.

I 40 ANNI DI PITTURA DI VINCENZO ROMANELLI *

Ho conosciuto Vincenzo Romanelli più di 30 anni fa, nel 1969, in occasione di una mostra da lui organizzata al Circolo Unione di Bari e per la quale mi capitò di scrivere una presentazione in catalogo.
Da allora non ci siamo più rivisti, o meglio qualche volta ci siamo salutati per strada, ma non ho saputo più nulla della sua attività di pittore e, al di là dei quadri esposti nel 1972 qui a Trani nello”Studio 188” di Michele Ladogana, non ho più avuto modo di vedere le sue opere.

Ma ecco ora, improvvisamente, questa sua retrospettiva e, con essa, ecco questa monografia che, curata dal critico d’arte Mauro Corradini, celebra ben quarant’anni di attività artistica (Mauro Corradini, “Vincenzo Romanelli – 40 anni di pittura”, Manerbio 2002).
E, ancora di più, ecco Romanelli che, come se avessimo continuato a frequentarci in tutti questi anni, in modo assolutamente informale e con un tono estremamente sommesso, com’è d’altra parte nel suo stile di uomo discreto e gentile, mi chiede di parlare del libro.

Ed io, piacevolmente sorpreso da tutte queste novità e in verità anche un po’ spiazzato dalla singolarità della sua richiesta, non sono stato capace di dirgli di no, pur rischiando di assumere un ruolo che non è certamente di mia competenza.

Vi confesso, infatti, che non mi ritengo in nessun modo un critico d’arte, ma un letterato piuttosto, che per ragioni molto contingenti qualche volta si è trovato a fare incursioni in un campo (quello artistico, appunto) non privo di insidie.
Per questo allora, per evitare ogni rischio e a scanso di equivoci, stasera mi limiterò a fare soltanto alcune considerazioni brevi e alla buona sul libro, sperando in ogni caso di non deludere le vostre aspettative.

Comincerò intanto a sottolineare due aspetti per così dire preliminari.
Il primo è relativo alla data di pubblicazione del volume e alla nota fuori testo nella quale Romanelli scrive: “Nel licenziare questa mia monografia, che illustra tanta parte della mia attività artistica, non posso non ringraziare mia moglie Etta e i mie figli Isabella, Nico e Alessandra, i quali con affetto e collaborazione hanno sostenuto il mio impegno di pittore e vinto la mia ritrosia per rendere possibile questa pubblicazione…”.

Ebbene, se queste sono, per così dire, le sue ragioni genetiche, questo libro, finito di stampare nel 2002, proprio in coincidenza dell’ottantesimo anno di età di Romanelli, è non solo il più bel regalo di compleanno che si possa fare ad un artista, ma soprattutto un grande segno di amore e di stima, uno di quei segni che davvero gratificano un’intera esistenza.
Il secondo è che, dopo aver visto la monografia, dopo aver letto la bella ed esauriente presentazione di Mauro Corradini e le (27) testimonianze critiche raccolte in appendice, dopo aver guardato le oltre novanta tavole di opere che, riassumendo appunto quaranta anni di attività artistica, corredano il libro e che in parte vengono riproposte in questa mostra, mi sono chiesto se non sia riduttivo parlare di Romanelli come di un pittore per così dire a mezzo servizio, come del resto, nei “cenni biografici” di pag. 97 e con la naturale modestia che lo contraddistingue, egli stesso sostanzialmente ama definirsi.

E riduttivo perché, sebbene condizionato da particolari vicende biografiche (tra cui persino una noiosa allergia ai colori), vicende che con l’arte non hanno nulla a che fare e che all’arte anzi si contrappongono come la notte al giorno, favorendone di conseguenza – ha ragione Corradini – una dispersione maggiore di quanto di solito accada; e al di là delle lunghe pause, Vincenzo Romanelli non ha mai tradito la sua naturale vocazione, la sua disponibilità all’arte, quella passione per la pittura dunque alla quale, nonostante tutto, egli è rimasto fedele per tutta la vita e, per lunghi periodi, ha pure coltivato in segreto.

E, anzi, non è forse per questo ancora più ammirevole di chi alla propria vocazione ha potuto dedicarsi liberamente e senza problemi?
Pertanto diamo a Romanelli il riconoscimento che gli spetta di diritto.
Egli è un pittore tout court, un pittore e basta, un artista a tutto tondo, e come ogni artista che si rispetti, con i suoi riferimenti espressivi, le sue tematiche, il suo stile, la sua poetica.

Giunge davvero a proposito allora la monografia di Mauro Corradini che, nel saggio che apre il volume, questi riferimenti, questa tematica, questo stile e questa poetica riesce a cogliere con chiarezza e acume critico.

Raggruppando per decenni le sue opere (tra le quali prevalgono, almeno fino agli anni Ottanta, i pastelli, gli acquerelli e quelle a tecnica mista), e attraverso una puntuale contestualizzazione o classificazione storica (che implica dunque una riflessione sugli eventuali rapporti con le tendenze artistiche coeve) Corradini ripercorre tutte le tappe dell’attività pittorica di Romanelli, né trascura di soffermarsi sulla sua formazione di “autodidatta anomalo”, sui lunghi anni di sforzi e tentativi, sulle “brusche frenate” che lo costringono a volte a porre in sordina la propensione e il talento espressivi”.

Ma è dagli anni Sessanta, gli anni della sua maturità pittorica, anzi dalla prima mostra del 1958 a Verona (aveva 36 anni) e dall’affermazione nella sua città natale, Brescia, con l’esposizione del 1967, che prende l’avvio la ricognizione critica di Corradini, anche perché le opere precedenti sono andate perdute o persino distrutte dall’artista.

Così eccolo individuare nel realismo neoclassico del Novecentismo (da cui l’artista assume la lezione della costruzione dell’immagine) e nelle esperienze del movimento milanese di “Corrente” (da cui deriva la libertà di gesto e di segno, largo e insistito, proprio dell’espressionismo, ma anche dell’informale) i primi significativi riferimenti culturali di Romanelli.

Eccolo collocare nei modi espressivi della “nuova figurazione”, e ancor prima nel realismo esistenziale degli anni Cinquanta la sua successiva ricerca pittorica.
Eccolo quindi cogliere in uno stile a metà strada tra felicità narrativa ed espressività della materia la sua cifra individuale, uno stile che nasce dalla volontà di affrontare i temi congeniali (il paesaggio e la natura morta) non “come un oggetto da descrivere, ma come un motivo da sviluppare”.

Eccolo poi sottolineare nelle opere degli anni Settanta (per lo più a tecnica mista) il definitivo abbandono della scenetta aneddotica e quindi un’immagine più sciolta, più sicura che tuttavia – citando da una nota critica del barlettano Aldo Carugno – non cessa di essere “apprensiva e sensibile nel suo modo di essere umana e di riconoscersi nei limiti oggettivi del mondo naturale”.

Eccolo, di fronte alla produzione più continua e organica degli anni Ottanta e Novanta (in verità non agevolmente ricostruita dal momento che Romanelli non usa datare le proprie opere), ritrovare il senso di un’esperienza espressiva ancora in evoluzione e, quindi, un sapore poetico ancora più intenso nei paesaggi e negli scorci, “colti per lo più sui toni del crepuscolo, quando la sera incombe sulle cose e l’artista sente più profondamente la poesia della natura”.

Eccolo, insomma, delineare un percorso artistico nel quale, se il paesaggio, la natura morta restano i temi dominanti, questi temi nel tempo sono filtrati da una sensibilità che, raffinandosi sempre di più, finisce col sostituire alla iniziale percezione retinica l’emozione interiore, dalla memoria alla nostalgia, dalla coscienza di un bene perduto all’incanto del suo recupero.

Fino all’acquisita consapevolezza del nostro destino nelle sue ultime opere, fino alla saggia malinconia della maturità quando, ricorrendo più frequentemente alla pittura ad olio su tela e su cartone, l’evocazione paesaggistica (dove ormai è scomparsa ogni figura umana) si fa quasi panico della natura, un’oscura angoscia di attesa fino a farsi metafora della vita e, per la vana ricerca della bellezza, dell’intera vicenda artistica.

E questo allora che fa di Romanelli non un pittore en plen air alla maniera degli impressionisti (cioè all’aria aperta, dal vero), ma un artista della memoria e della evocazione, non un pittore dello sguardo ma dell’anima, pur rischiando con questa definizione – ha ragione Luigi Salveti, che ne scrive nel 1990 – di ripetere un concetto troppo frequentato o di limitare al puro intimismo un’esperienza artistica.

Ed è questo che fa di lui, secondo un’acuta osservazione di Mario Lepore, “tendenzialmente un espressionista e un lirico”, ovvero un ossimoro incarnato, dal momento che due dimensioni contrapposte vengono poeticamente unificate. Ed è in sostanza quanto, in altre parole - perdonatemi l’autocitazione - già prefiguravo 30 anni fa, scrivendo che Romanelli “non lambicca ma costruisce il colore e… lascia libero campo ad una rappresentazione non epidermica della realtà… per cui le sue opere non sono edulcorate, non sono convenzionali se riflettono con forza l’emozione breve di un momento o conquistano la immagine rapida di paesaggi cari nella memoria, o se suggeriscono l’impressione di una grande forza emotiva inespressa”.

Certo, lontane sono le problematiche sociali ed estraneo egli rimane alle grandi avanguardie artistiche internazionali.
Ma è così che Vincenzo Romanelli ha fatto i conti con la crisi del naturalismo, alla luce di un atto di fede nella pittura e continuando ad operare dentro la tradizione.

E la sua fedeltà all’immagine, il suo rispetto della forma e del contenuto, quel suo cercare soluzioni all’interno dell’una o dell’altro, sono la riprova che ancora oggi è possibile, senza macchinose manipolazioni, esprimere le testimonianze della propria coscienza.
Quelle testimonianze che ora la bella monografia di Mauro Corradini ci restituisce con profondità di dottrina e intelligenza di analisi.
Domenico di Palo


* Per la presentazione della monografia d’arte “Vicenzo Romanelli – 40 anni di pittura” di Mauro Corradini (Manerbo 2002), tenuta in occasione del vernissage della mostra omonima a “La Maria del porto” il 21 giugno 2003. Poi pubblicato in “Il Giornale di Trani”, 11 luglio 2003.