Permettetemi, innanzi tutto, non solo di ringraziare la dott.ssa Lucia Fiore e l’associazione “Obiettivo Trani” per la loro disponibilità, ma di dargli pubblicamente atto del loro sostegno a iniziative come questa che, mirando ad avvicinare chi legge a chi scrive, fanno del libro e della parola scritta qualcosa di vivo.
E naturalmente permettetemi di aggiungere un grazie infinito al dott. Francesco Carapellese, che ha letto i miei testi con la voce e il tono giusti, e soprattutto al prof. Gaetano Bucci che, parlando del mio libro, come sempre è stato acuto, illuminante e, quello che per me conta di più, davvero appassionato.
Parlare dopo di lui ora non è facile, e sinceramente non so se riuscirò ad essere altrettanto coinvolgente. Cercherò, in ogni caso, di essere il meno noioso possibile, pure affrontando un argomento che oggettivamente può sembrare tale…
Dedicherò, dunque, gran parte del mio intervento ad alcune riflessioni sulla scrittura letteraria, cioè a quel modo di comunicare certamente più complesso e comunque ben diverso da altri tipi più semplici di comunicazione. Non prima tuttavia di aver avvertito tutti voi che, in linea con il carattere della serata, si tratta non di riflessioni organiche ma solo di “frammenti di pensiero” che in parte prescindono dagli sconvolgimenti strutturali teorizzati da alcune avanguardie nel Novecento e in parte filtrano e adeguano questi sconvolgimenti alla sensibilità e alla visione del mondo di chi vi parla.
Finirò, quindi, col dirvi alcune cose, ma solo alcune cose, dei miei libri di poesia.
E naturalmente permettetemi di aggiungere un grazie infinito al dott. Francesco Carapellese, che ha letto i miei testi con la voce e il tono giusti, e soprattutto al prof. Gaetano Bucci che, parlando del mio libro, come sempre è stato acuto, illuminante e, quello che per me conta di più, davvero appassionato.
Parlare dopo di lui ora non è facile, e sinceramente non so se riuscirò ad essere altrettanto coinvolgente. Cercherò, in ogni caso, di essere il meno noioso possibile, pure affrontando un argomento che oggettivamente può sembrare tale…
Dedicherò, dunque, gran parte del mio intervento ad alcune riflessioni sulla scrittura letteraria, cioè a quel modo di comunicare certamente più complesso e comunque ben diverso da altri tipi più semplici di comunicazione. Non prima tuttavia di aver avvertito tutti voi che, in linea con il carattere della serata, si tratta non di riflessioni organiche ma solo di “frammenti di pensiero” che in parte prescindono dagli sconvolgimenti strutturali teorizzati da alcune avanguardie nel Novecento e in parte filtrano e adeguano questi sconvolgimenti alla sensibilità e alla visione del mondo di chi vi parla.
Finirò, quindi, col dirvi alcune cose, ma solo alcune cose, dei miei libri di poesia.
Cos’è la scrittura letteraria, allora?
Voi già sapete che scrivere vuol dire comunicare, ossia mettersi in rapporto con gli altri. Si scrive come si tende una mano: se qualcuno non l’afferra, quella mano, ci rimaniamo male, ci sentiamo esiliati.
Ed è vero che, un po’ tutti, si comincia a scrivere per le stesse ragioni: per fermare il tempo, per sfogarsi, per consolarsi, per divertirsi, per piantare grane, per attirare l’attenzione, per sentirsi meno soli, per ricordarsi o per dimenticarsi di qualcuno o di qualcosa.
Ma in letteratura scrivere vuol dire soprattutto dare un nome preciso alle cose e scendere nel profondo della realtà. Si possono descrivere cose, oggetti comuni usando un linguaggio comune, ma preciso.
Però non si può scrivere in maniera sciatta e confusa e persino la punteggiatura ha un valore assoluto. Non a caso un grande scrittore, Isaac Babel, parlando della tecnica narrativa, disse. “Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto”.
La scrittura letteraria, inoltre, è una testimonianza in absentia, per dirla con una parola latina. Il che significa che una persona racconta una storia, e poi un’altra persona, in sua assenza, in tempi magari lontanissimi e in luoghi diversi, legge e riflette su quella storia.
Questo è il miracolo della scrittura, che propone dunque un incontro in profondità, ma differito nel tempo, per cui a chi scrive dà pure l’illusione dell’immortalità. Chi scrive, infatti, può avere vissuto mille anni prima di chi legge eppure l’incontro avviene ogni volta, immancabilmente, ed è un incontro felice solo se la scrittura risulta originale, dotata di uno stile personale che comunichi emozioni, dotata cioè di una propria voce, inconfondibile.
Ma per questo sono necessarie almeno tre condizioni, e tutte fondamentali: il talento, ossia una naturale capacità di persuasione, la tecnica e la passione.
Scrivere dunque è anche una passione e più grande è questa passione più occupa la vita e più sacrifici chiede.
Si sa, d’altra parte, che senza passione non ci si può dedicare a nessun mestiere e a nessuna attività. Qualsiasi progetto di vita è inseparabile dalla passione, altrimenti ci si ferma alla prima difficoltà e si lascia perdere.
Il problema, tuttavia, è comunicare, fare arrivare agli altri, a chi ti legge, il tuo entusiasmo. E questa comunicazione appunto avviene per mezzo di uno strumento che si è soliti chiamare stile.
Voi potete pensare di essere dei grandi artisti o dei grandi cantanti, ma sono gli altri che devono crederlo, altrimenti il vostro rischia di restare il soliloquio di un mitomane.
Ecco un esempio che mi sembra calzante.
Se voi avete una bella voce e siete intonati, vi compiacete della vostra voce e cantate volentieri nel bagno, in cucina, ma non andreste mai sul palcoscenico a interpretare “Il Trovatore” o “Il Rigoletto” di Giuseppe Verdi. Per salire sul palco e vantare una parte di soprano o di tenore pensereste di dover studiare, di dover affinare il vostro strumento. Sapete che ci vuole una preparazione anche tecnica per cantare professionalmente, non solo un’opera ma persino una canzone leggera.
Perfino di un calciatore si dice che usa delle tecniche, che conosce il suo mestiere. Perché allora solo lo scrittore dovrebbe “andare a braccio”, dovrebbe improvvisare, seguire disordinatamente l’istinto e trascurare ogni sapienza?
Chi penserebbe di scendere in campo nella Nazionale senza sapere tutto sul calcio, senza essersi allenato mille volte con fatica e disciplina.
Invece molti ritengono che, sapendo scrivere una lettera o una poesiola che è piaciuta ai familiari, possono pubblicare immediatamente un romanzo o un libro di versi presso il più grande editore italiano. Il che rivela non solo presunzione, ma scarsa conoscenza del mestiere che si pretende di possedere.
In letteratura, insomma, non esistono improvvisazione e spontaneismo.
E i veri scrittori non sono innocenti di fronte alla narrazione o all’espressione poetica.
La scrittura non ammette ingenuità!
Si può essere ingenui nella vita ma non nell’arte, che è faticosa conquista, che è metodo e consapevolezza, e proprio perché il linguaggio è una costruzione umana, l’arte è un’invenzione, forse la sola che ci differenzia dagli animali.
E’ utile poi ricordare che scrivere è rappresentare. In letteratura le cose vanno rappresentate e non semplicemente dette o enunciate, gli avvenimenti vanno mostrati, le descrizioni vanno rese plastiche, vanno rese sensibili.
Se ci limitiamo a elencare o a descrivere le situazioni e le figure in maniera astratta, teorica, la narrazione rimane piatta e amorfa.
Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocua e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena, che è l’origine del piacere artistico, secondo Nabokov.
Scrivere insomma è un’operazione complicata: bisogna imparare a distinguere l’impulso sentimentale dalla consapevolezza letteraria. Sono due cose diverse.
L’impulso affettivo viene dal profondo ma non lo si può trasmettere col primo strumento che vi viene tra le mani, luogo comune o gergo che sia.
La consapevolezza letteraria, invece, è legata alla memoria lessicale (cioè delle parole) e sintattica (cioè del modo di metterle insieme) ed è quella che consente, per comunicare un sentimento autentico e profondo, di trovare parole altrettanto autentiche e profonde.
L’arte, dunque, è artificio: lo dice la parola stessa.
La scrittura è progetto, scienza, costruzione, e non ha niente a che vedere con l’istinto, la natura, ma semmai con la cultura e la professionalità.
Per questo, se parlate con un vero poeta vi sentirete dire che si possono passare ore a cercare una sola parola, la parola giusta (le “sudate carte” leopardiane).
Del resto perfino una lettera che si scrive a una persona lontana, una lettera, che pure è il genere più immediato di scrittura, se vuole comunicare qualche cosa di personale e di reale, deve essere pensata in modo da trovare un proprio veicolo di comunicazione sentito ed efficace.
Solo se si trova la parola giusta, si riesce a comunicarla, altrimenti rimane qualcosa di morto.
Se io, per esempio, leggo “un tramonto di favola” rimango assolutamente freddo. Anzi mi irrito, perché percepisco la banalità di quel luogo comune, che oltretutto non mi dice niente su quel tramonto. Mentre se io leggo, ad esempio, un poeta che scrive. “Un tramonto, papavero acceso” (Esenin) sento qualcosa che mi incuriosisce e mi cattura: tutte e due mi parlano di un tramonto, ma il primo annoia e il secondo mi esalta.
E’ sempre una questione di parole, allora. Il primo dà l’impressione della rifrittura, il secondo mi fa rivivere il tramonto attraverso un’ardita emozione linguistica.
Tutto questo, dunque, bisogna conoscere della scrittura letteraria.
Voi già sapete che scrivere vuol dire comunicare, ossia mettersi in rapporto con gli altri. Si scrive come si tende una mano: se qualcuno non l’afferra, quella mano, ci rimaniamo male, ci sentiamo esiliati.
Ed è vero che, un po’ tutti, si comincia a scrivere per le stesse ragioni: per fermare il tempo, per sfogarsi, per consolarsi, per divertirsi, per piantare grane, per attirare l’attenzione, per sentirsi meno soli, per ricordarsi o per dimenticarsi di qualcuno o di qualcosa.
Ma in letteratura scrivere vuol dire soprattutto dare un nome preciso alle cose e scendere nel profondo della realtà. Si possono descrivere cose, oggetti comuni usando un linguaggio comune, ma preciso.
Però non si può scrivere in maniera sciatta e confusa e persino la punteggiatura ha un valore assoluto. Non a caso un grande scrittore, Isaac Babel, parlando della tecnica narrativa, disse. “Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto”.
La scrittura letteraria, inoltre, è una testimonianza in absentia, per dirla con una parola latina. Il che significa che una persona racconta una storia, e poi un’altra persona, in sua assenza, in tempi magari lontanissimi e in luoghi diversi, legge e riflette su quella storia.
Questo è il miracolo della scrittura, che propone dunque un incontro in profondità, ma differito nel tempo, per cui a chi scrive dà pure l’illusione dell’immortalità. Chi scrive, infatti, può avere vissuto mille anni prima di chi legge eppure l’incontro avviene ogni volta, immancabilmente, ed è un incontro felice solo se la scrittura risulta originale, dotata di uno stile personale che comunichi emozioni, dotata cioè di una propria voce, inconfondibile.
Ma per questo sono necessarie almeno tre condizioni, e tutte fondamentali: il talento, ossia una naturale capacità di persuasione, la tecnica e la passione.
Scrivere dunque è anche una passione e più grande è questa passione più occupa la vita e più sacrifici chiede.
Si sa, d’altra parte, che senza passione non ci si può dedicare a nessun mestiere e a nessuna attività. Qualsiasi progetto di vita è inseparabile dalla passione, altrimenti ci si ferma alla prima difficoltà e si lascia perdere.
Il problema, tuttavia, è comunicare, fare arrivare agli altri, a chi ti legge, il tuo entusiasmo. E questa comunicazione appunto avviene per mezzo di uno strumento che si è soliti chiamare stile.
Voi potete pensare di essere dei grandi artisti o dei grandi cantanti, ma sono gli altri che devono crederlo, altrimenti il vostro rischia di restare il soliloquio di un mitomane.
Ecco un esempio che mi sembra calzante.
Se voi avete una bella voce e siete intonati, vi compiacete della vostra voce e cantate volentieri nel bagno, in cucina, ma non andreste mai sul palcoscenico a interpretare “Il Trovatore” o “Il Rigoletto” di Giuseppe Verdi. Per salire sul palco e vantare una parte di soprano o di tenore pensereste di dover studiare, di dover affinare il vostro strumento. Sapete che ci vuole una preparazione anche tecnica per cantare professionalmente, non solo un’opera ma persino una canzone leggera.
Perfino di un calciatore si dice che usa delle tecniche, che conosce il suo mestiere. Perché allora solo lo scrittore dovrebbe “andare a braccio”, dovrebbe improvvisare, seguire disordinatamente l’istinto e trascurare ogni sapienza?
Chi penserebbe di scendere in campo nella Nazionale senza sapere tutto sul calcio, senza essersi allenato mille volte con fatica e disciplina.
Invece molti ritengono che, sapendo scrivere una lettera o una poesiola che è piaciuta ai familiari, possono pubblicare immediatamente un romanzo o un libro di versi presso il più grande editore italiano. Il che rivela non solo presunzione, ma scarsa conoscenza del mestiere che si pretende di possedere.
In letteratura, insomma, non esistono improvvisazione e spontaneismo.
E i veri scrittori non sono innocenti di fronte alla narrazione o all’espressione poetica.
La scrittura non ammette ingenuità!
Si può essere ingenui nella vita ma non nell’arte, che è faticosa conquista, che è metodo e consapevolezza, e proprio perché il linguaggio è una costruzione umana, l’arte è un’invenzione, forse la sola che ci differenzia dagli animali.
E’ utile poi ricordare che scrivere è rappresentare. In letteratura le cose vanno rappresentate e non semplicemente dette o enunciate, gli avvenimenti vanno mostrati, le descrizioni vanno rese plastiche, vanno rese sensibili.
Se ci limitiamo a elencare o a descrivere le situazioni e le figure in maniera astratta, teorica, la narrazione rimane piatta e amorfa.
Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocua e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena, che è l’origine del piacere artistico, secondo Nabokov.
Scrivere insomma è un’operazione complicata: bisogna imparare a distinguere l’impulso sentimentale dalla consapevolezza letteraria. Sono due cose diverse.
L’impulso affettivo viene dal profondo ma non lo si può trasmettere col primo strumento che vi viene tra le mani, luogo comune o gergo che sia.
La consapevolezza letteraria, invece, è legata alla memoria lessicale (cioè delle parole) e sintattica (cioè del modo di metterle insieme) ed è quella che consente, per comunicare un sentimento autentico e profondo, di trovare parole altrettanto autentiche e profonde.
L’arte, dunque, è artificio: lo dice la parola stessa.
La scrittura è progetto, scienza, costruzione, e non ha niente a che vedere con l’istinto, la natura, ma semmai con la cultura e la professionalità.
Per questo, se parlate con un vero poeta vi sentirete dire che si possono passare ore a cercare una sola parola, la parola giusta (le “sudate carte” leopardiane).
Del resto perfino una lettera che si scrive a una persona lontana, una lettera, che pure è il genere più immediato di scrittura, se vuole comunicare qualche cosa di personale e di reale, deve essere pensata in modo da trovare un proprio veicolo di comunicazione sentito ed efficace.
Solo se si trova la parola giusta, si riesce a comunicarla, altrimenti rimane qualcosa di morto.
Se io, per esempio, leggo “un tramonto di favola” rimango assolutamente freddo. Anzi mi irrito, perché percepisco la banalità di quel luogo comune, che oltretutto non mi dice niente su quel tramonto. Mentre se io leggo, ad esempio, un poeta che scrive. “Un tramonto, papavero acceso” (Esenin) sento qualcosa che mi incuriosisce e mi cattura: tutte e due mi parlano di un tramonto, ma il primo annoia e il secondo mi esalta.
E’ sempre una questione di parole, allora. Il primo dà l’impressione della rifrittura, il secondo mi fa rivivere il tramonto attraverso un’ardita emozione linguistica.
Tutto questo, dunque, bisogna conoscere della scrittura letteraria.
Quanto a me e ai libri di versi che ho scritto, mi basta dirvi per ora che questi, da qualche tempo, contengono soprattutto poesie satiriche.
E questo per alcune ragioni che provo così a sintetizzare.
1. Per me la musa satirica funziona meglio di quella lirica.
2. Io non amo la realtà in cui viviamo: la trovo cinica, volgare, cialtrona.
Di qui allora la convinzione che oggi, finita al stagione delle illusioni, per resistere, e sopravvivere alla realtà che non si accetta, non possiamo non cercare di ridere, o quanto meno di sorridere e che, per esprimerla, questa realtà, non c’è altro modo che aggredirla, cioè con l’ironia e con lo scherno.
Ed eccomi quindi a scrivere composizioni “moralistiche", ossia attinenti al comportamento e al costume degli uomini, e “comiche”, ossia divertenti.
Eccomi, insomma, a scrivere versi che hanno sì i caratteri distintivi della satira (cioè l’attenzione alle cose quotidiane, la varietà dei temi, la spregiudicata libertà intellettuale), ma anche il distacco, o meglio il disincanto di chi, cercando di ridere degli altri e di se stesso, non solo non si prende sul serio, ma ha l’unica certezza che non esistono certezze assolute, che c’è insomma una verità ed un’altra ad essa contrapposta e che, anche nell’amore, come dico in “Double face”, c’è una doppia faccia: c’è l’amore che trionfa e l’amore che finisce miseramente…
In altre parole, voglio dire che nei miei versi rifletto e mi diverto, o viceversa mi diverto e rifletto. Ed è naturale che, riflettendo, essi non sono soltanto un gioco linguistico, un gioco che sia pure gratuito ha regole severe, ma diventano parola viva.
Sarà forse per tutte queste ragioni, allora, che a chi li legge i miei versi piacciono, e piacciono perché, al di là della loro apparente facilità (faccio uso di un linguaggio immediato, diretto), al di là dell’ironico recupero della forma chiusa (del sonetto, della filastrocca, della terzina), del gioco delle rime (mentre oggi generalmente i poeti fanno ricorso al verso libero), i lettori scoprono che vi è qualcosa di più articolato e che le stesse riscritture di poesie classiche a cui, come anche in “Double face”, faccio ricorso, non sono delle semplici parodie, ma il frutto di operazioni più complesse, e (come, bontà sua, qualche critico ha scritto), perché no, più sottili… Grazie.
E questo per alcune ragioni che provo così a sintetizzare.
1. Per me la musa satirica funziona meglio di quella lirica.
2. Io non amo la realtà in cui viviamo: la trovo cinica, volgare, cialtrona.
Di qui allora la convinzione che oggi, finita al stagione delle illusioni, per resistere, e sopravvivere alla realtà che non si accetta, non possiamo non cercare di ridere, o quanto meno di sorridere e che, per esprimerla, questa realtà, non c’è altro modo che aggredirla, cioè con l’ironia e con lo scherno.
Ed eccomi quindi a scrivere composizioni “moralistiche", ossia attinenti al comportamento e al costume degli uomini, e “comiche”, ossia divertenti.
Eccomi, insomma, a scrivere versi che hanno sì i caratteri distintivi della satira (cioè l’attenzione alle cose quotidiane, la varietà dei temi, la spregiudicata libertà intellettuale), ma anche il distacco, o meglio il disincanto di chi, cercando di ridere degli altri e di se stesso, non solo non si prende sul serio, ma ha l’unica certezza che non esistono certezze assolute, che c’è insomma una verità ed un’altra ad essa contrapposta e che, anche nell’amore, come dico in “Double face”, c’è una doppia faccia: c’è l’amore che trionfa e l’amore che finisce miseramente…
In altre parole, voglio dire che nei miei versi rifletto e mi diverto, o viceversa mi diverto e rifletto. Ed è naturale che, riflettendo, essi non sono soltanto un gioco linguistico, un gioco che sia pure gratuito ha regole severe, ma diventano parola viva.
Sarà forse per tutte queste ragioni, allora, che a chi li legge i miei versi piacciono, e piacciono perché, al di là della loro apparente facilità (faccio uso di un linguaggio immediato, diretto), al di là dell’ironico recupero della forma chiusa (del sonetto, della filastrocca, della terzina), del gioco delle rime (mentre oggi generalmente i poeti fanno ricorso al verso libero), i lettori scoprono che vi è qualcosa di più articolato e che le stesse riscritture di poesie classiche a cui, come anche in “Double face”, faccio ricorso, non sono delle semplici parodie, ma il frutto di operazioni più complesse, e (come, bontà sua, qualche critico ha scritto), perché no, più sottili… Grazie.
Domenico di Palo
* Testo che riassume l'intervento svolto il 27 maggio 2009 nella Biblioteca comunale di Trani in occasione della presentazione al pubblico, a cura di Gaetano Bucci, di "Double face".
Caro Professore,
RispondiEliminavedo che anche a lei piace la rete...complimenti per il blog.
Un caro saluto da un suo veccio studente, di cui forse non si ricorderà!!