Mi preme innanzitutto dire anche in questa sede che non ho la presunzione di ritenermi uno storico e che, al di là delle pressioni affettuose degli amici di “Obiettivo Trani”e della “Società di Storia Patria”, mi spinge ad associarmi a questa rievocazione dei fratelli Pàstina solo un occasionale interesse per la storia locale, nella quale, per la mia antica attività di pubblicista, mi è capitato a volte di fare delle incursioni.
Dei fratelli Pàstina, dunque, io ho conosciuto di persona soltanto Nicola. Domenico, infatti, era già morto da qualche mese (era il 1959) quando – mi si perdoni l’annotazione personale – ho cominciato a guardarmi intorno non più con gli occhi del giovanotto inquieto e distratto, ma con maggiore attenzione per le persone che hanno fatto grande la storia di Trani.
Così, me lo ricordo, Nicola Pàstina, magro e dall’aspetto sobrio e severo, nei primi anni Sessanta e soprattutto d’estate, venire lentamente da Via San Giorgio e quindi sedersi con un gran fascio di giornali sotto il braccio, ai tavolini del “Gran Bar” in piazza della Repubblica, che all’epoca si chiamava ancora piazza Vittorio Emanuele…
E fu in quegli anni che venni a sapere del suo passato di antifascista, un passato coerentemente e coraggiosamente vissuto, insieme al fratello Domenico, prima nelle file di “Giustizia e Libertà” e poi nel Partito d’Azio-ne; fu allora che seppi della sua brillante attività giorna-listica nel giornale satirico “Becco giallo” e nel “Risorgimento”; e fu allora che cominciai a leggere con crescente interesse gli articoli che di tanto in tanto egli veniva pubblicando sul “Ponte”, sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” ed anche sul “Tranesiere”.
Poi, a metà degli anni Sessanta, eccolo profondamente coinvolto nella bella avventura della nuova serie della “Rassegna pugliese” che, idealmente collegata alla gloriosa rivista di Valdemaro Vecchi, era stata fortemente voluta da Agostino Caiati.
Della nuova “Rassegna”, alla quale ebbi anch’io l’onore di collaborare saltuariamente con alcune recensioni, Nicola Pàstina non solo assunse la direzione responsabile ma fu il coordinatore della sezione cultura. E i suoi interventi, sempre caratterizzati da una fine ironia e ispirati da un’appassionata attenzione alla storia cittadina erano per me esemplari (fu il primo in quegli anni a insistere sulla necessità di recuperare la memoria di Valdemaro Vecchi e a convincere quindi Benedetto Ronchi a lavorare ad una completa e ordinata rassegna della vasta produzione del grande editore).
Dei fratelli Pàstina, dunque, io ho conosciuto di persona soltanto Nicola. Domenico, infatti, era già morto da qualche mese (era il 1959) quando – mi si perdoni l’annotazione personale – ho cominciato a guardarmi intorno non più con gli occhi del giovanotto inquieto e distratto, ma con maggiore attenzione per le persone che hanno fatto grande la storia di Trani.
Così, me lo ricordo, Nicola Pàstina, magro e dall’aspetto sobrio e severo, nei primi anni Sessanta e soprattutto d’estate, venire lentamente da Via San Giorgio e quindi sedersi con un gran fascio di giornali sotto il braccio, ai tavolini del “Gran Bar” in piazza della Repubblica, che all’epoca si chiamava ancora piazza Vittorio Emanuele…
E fu in quegli anni che venni a sapere del suo passato di antifascista, un passato coerentemente e coraggiosamente vissuto, insieme al fratello Domenico, prima nelle file di “Giustizia e Libertà” e poi nel Partito d’Azio-ne; fu allora che seppi della sua brillante attività giorna-listica nel giornale satirico “Becco giallo” e nel “Risorgimento”; e fu allora che cominciai a leggere con crescente interesse gli articoli che di tanto in tanto egli veniva pubblicando sul “Ponte”, sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” ed anche sul “Tranesiere”.
Poi, a metà degli anni Sessanta, eccolo profondamente coinvolto nella bella avventura della nuova serie della “Rassegna pugliese” che, idealmente collegata alla gloriosa rivista di Valdemaro Vecchi, era stata fortemente voluta da Agostino Caiati.
Della nuova “Rassegna”, alla quale ebbi anch’io l’onore di collaborare saltuariamente con alcune recensioni, Nicola Pàstina non solo assunse la direzione responsabile ma fu il coordinatore della sezione cultura. E i suoi interventi, sempre caratterizzati da una fine ironia e ispirati da un’appassionata attenzione alla storia cittadina erano per me esemplari (fu il primo in quegli anni a insistere sulla necessità di recuperare la memoria di Valdemaro Vecchi e a convincere quindi Benedetto Ronchi a lavorare ad una completa e ordinata rassegna della vasta produzione del grande editore).
Ricordo, in proposito, un episodio verificatosi proprio sulle pagine della nuova “Rassegna Pugliese”, un episodio che ormai viene ritenuto molto significativo e quindi è puntualmente citato quando si discute del particolare stile giornalistico di Nicola Pàstina, polemista d’eccezione, capace di una scrittura rapida e incisiva e nel contempo di un’ironia pungente e sottile.
Mi riferisco alla polemica con lo scrittore Giuseppe Prezzolini, celebre penna velenosa della storia letteraria italiana e non alieno, nel passato, da simpatie mussoliniane.
Orbene, a Prezzolini non era affatto piaciuto che nel numero di ottobre 1966 della rivista tranese, e in un articolo a firma di Walter Tommasino, si fosse affermato tra l’altro che la “Rassegna Pugliese” di Valdemaro Vecchi “non solo fu l’antesignana delle riviste fiorentine dell’inizio secolo, ma soprattutto il modello insuperato della ‘Voce’ di Prezzolini”.
Per cui, sia pure ultra ottantenne, eccolo, Prezzolini, non farsi sfuggire l’occasione per risfoderare la sua penna al cianuro e, dalle pagine del “Borghese”, la rivista fondata da Leo Longanesi e alla quale, all’epoca, egli collaborava, eccolo rispondere testualmente: “E’ proprio vero che i creatori delle riviste fiorentine dell’inizio del secolo s’ispirarono alla ‘Rassegna Pugliese’. Papini non faceva che leggerla giorno e notte, Corradini se la portava a tavola e la leggeva mentre faceva colazione per non perdere tempo. Prezzolini la teneva al capezzale del letto, per pre-parare gli articoli dell’indomani. Borgese conservava la collezione ed ogni tanto andava a consultare i fascicoli arretrati. Non parlo poi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile: se ne disputavano le copie”.
Ironia raggelante, indubbiamente, e comunque tale da lasciare di sasso qualsiasi incauto interlocutore. Ma non Nicola Pàstina, che nel numero successivo della “Rassegna”, dopo avere elegantemente riconosciuto le qualità letterarie dello scrittore perugino, così aggiungeva: “L’umorismo non è un genere facile, e forse Prezzolini era un più raffinato umorista quand’era più giovane e scriveva che l’Opera Nazionale Balilla era la più grande rivoluzione sociale che si sia compiuta in Italia da secoli; oppure era lui Prezzolini, e non l’ottimo prof. Tommasino, uno dei più grandi inventori d’Italia quando scopriva che il duce era un motore unico e centrale, instabile e onnipresente che spinge, spinge, spinge”.
Questo dunque fu il Nicola Pastina che io conosciuto.
E suo fratello Domenico, invece?
Ben altro, per le ragioni che ho già detto, fu il mio approccio con lui, più indiretto, più mediato dalle letture e dai racconti altrui, ma non meno stimolante, non meno coinvolgente.
E allora?
“Dell’un dirò, però che d’amendue/ si dice l’un pregiando, qual uom prende,/ perch’ ad un fine fuor l’opere sue/…” ripeterei con il poeta se non temessi di far torto ad entrambi appiattendo le loro biografie in una superficiale consonanza di ideali e di opere.
Forte fu, infatti, la personalità di Domenico Pastina e forte fu quella di Nicola, al di là della comune mitezza di carattere, e fu per questa forza che entrambi s’impegnarono con spirito critico nella lotta politica, furono lucidi testimoni della vita pubblica non solo pugliese ma nazionale e, in misura diversa, entrambi furono protagonisti di un episodio che, dopo gli anni bui della censura fascista, contribuì ad avviare la stagione della libertà di stampa in Italia. Mi riferisco, ovviamente, alla pubblicazione presso la Tipografia Vecchi, nell’ottobre del 1943, di un numero dell”Italia libera”, un giornale che giustamente è stato definito l’antesignano della libertà di stampa in Italia.
E, non prima di contestualizzarlo, vengo dunque al tema che mi è stato chiesto di trattare e al quale da ora disciplinatamente mi atterrò.
Quale fu, allora, il contesto storico nel quale si collocò la pubblicazione dell“Italia libera”? E quali furono le sue motivazioni originarie?
La sera dell’8 settembre del 1943, dunque, veniva im-provvisamente diffuso per radio l’annuncio dell’armistizio.
Il 10 settembre Vittorio Emanuele III, a bordo della nave “Baionetta”, con tutta la corte e il maresciallo Badoglio giungeva a Brindisi a conclusione della sua precipitosa fuga dalla capitale.
Iniziava così la fragile e incerta vita di quel “Regno del Sud” che, “per garantire - come si disse - la continuità dello Stato italiano”, si limitò temporaneamente ad esercitare la sua sovranità prima sulle province pugliesi di Bari Brindisi Lecce e Taranto e, dal febbraio del 1944 fino al suo trasferimento a Salerno il 5 giugno dello stesso anno, su tutta l’Italia a sud delle province di Foggia e di Napoli.
Una vita incerta, ho detto, che davvero sembrava “composta da ordini diversi di esseri viventi”.
Da una parte, infatti, vi era uno Stato corroso e svalutato anche dall’interno e i partiti politici (il Partito liberale, la Democrazia Cristiana, il PSIUP, nel quale si raccoglievano i socialisti del tempo, il PCI e il Partito d’Azione) con scarsi legami con le masse e ancora gestiti da pochi volenterosi; e dall’altra una popolazione ancora scossa dalle paure di una guerra lunghissima e dai continui estenuanti sacrifici per sopravvivere, una popolazione praticamente tagliata fuori dal mondo (i giornali erano scarsamente diffusi e la radio trasmetteva solo musichette e mai un commento ai gravi fatti che avvenivano in Italia) e che quindi sapeva con uno sfasamento di sei/sette giorni sull’avvenimento che ormai faceva parte del “Regno del Sud” e che il resto dell’Italia (dove risorgeva il fascismo e dove pure si andavano organizzando i primi nuclei partigiani) era in mano ai tedeschi.
Su tutto, insomma, il segno drammatico di una guerra che continuava realmente, per la presenza, fino a Bari, di un’amministrazione militare anglo-americana, forte di una potenza di mezzi mai immaginati, e, per alcune improvvise incursioni nel nord barese, delle ultime retroguardie tedesche.
E’ in questo contesto che va pertanto collocato non solo l’episodio della rappresaglia nazista dei 50 ostaggi a Trani, ma anche la pubblicazione, presso la Tipografia Vecchi, dell’”Italia libera”, che uscì come organo del Partito d’Azione, una forza politica costituita in gran parte da militanti dell’ormai disciolto movimento di “Giustizia e Libertà”.
E’ stato lo storico Giovanni De Luna, in un suo libro pubblicato negli anni ’80 da Feltrinelli (”Storia del Partito d’Azione – 1942-1947”) a dare un più giusto significato all’esperienza azionista nella crisi bellica e postbellica, a valutare le ragioni della sua affermazione durante la Resistenza e del suo declino dopo la Liberazione, e quindi non solo a rimuovere quel pregiudizio che, diffuso a sinistra non meno che a destra, ha fatto stimare gli azionisti degli intellettuali piuttosto che dei politici, degli idealisti piuttosto che dei realisti, ma a chiarire che il fallimento del partito non sia da addebitare al loro modo di fare politica ma in gran parte agli equivoci e alle contraddizioni che caratterizzavano la scena nazionale come quella internazionale.
Non mi sembra questa la sede per riprendere tali argomentazioni, ma insieme a De Luna è opportuno ricordare non solo che il Partito d’Azione, insieme al PCI, fu il movimento più numeroso e agguerrito del tempo e che si qualificò come importante strumento di mediazione sociale, ma che gli azionisti, al di là della loro intransigenza politica e morale, intuirono molte cose sullo sviluppo della società italiana in un regime democratico, colsero l’importanza dell’apparato statale e la necessità di una sua riforma profonda dopo l’esperienza fascista e affrontarono con intelligenza sia i nuovi termini della questione meridionale sia il ruolo sempre più decisivo che le classi medie erano destinate a giocare all’interno di uno sviluppo capitalistico.
Ne consegue, in questa luce, che anche il giornale pubblicato a Trani nell’ottobre del ’43 assume certamente un’importanza maggiore di quella che finora pur gli è stata riconosciuta.
Orbene, nei tempi di cui ci interessiamo, tra gli azionisti pugliesi (perlopiù giovani intellettuali formatisi nel gruppo vicino alla casa editrice Laterza, fortemente segnati dall’influenza di Tommaso Fiore) i più impegnati erano indubbiamente Michele Cifarelli, magistrato ancora trentenne, il prof. Fabrizio Canfora, illustre professore di storia e filosofia al liceo “Orazio Flacco” di Bari e padre dello storico Luciano Canfora, l’avv. Giuseppe Papalia, Vincenzo e Vittore Fiore, figli di Tommaso, e i tranesi Domenico Pàstina, avvocato allora 45enne, suo fratello Nicola, di 3 anni più giovane e l’avv. Vittorio Malcangi, l’illustre penalista, al quale si deve la progettazione del primo comitato antifascista a Trani.
Ad essi si era unito l’ing. Vincenzo Calace (anch’egli tranese, ma vissuto prevalentemente a Bisceglie) che, appena liberato da lunghi anni di detenzione nelle carceri fasciste, era ormai tra gli esponenti più attivi del Partito d’Azione che, nello storico primo congresso dei partiti antifascisti tenuto nel teatro “Piccinni” di Bari il 28 gennaio del 1944, lo designerà come proprio rappresentante nella Giunta esecutiva permanente del C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale).
Fu in questo gruppo, il 12 settembre del ’43, due giorni dopo l’arrivo del re a Brindisi, che, commentando quella notizia, venne dunque l’idea di estendere l’azione politica impossessandosi di uno strumento di propaganda valido su un vasto territorio.
Si decise così di utilizzare le antenne di Radio Bari che, organizzata dagli alleati, divenne ben presto “la voce dell’antifascismo pugliese”, e, sul fronte giornalistico, fallito il tentativo di garantire alla direzione della “Gazzetta del Mezzogiorno” un direttore antifascista e progressista (“Furono tutti d’accordo nell’indicare Domenico Pàstina di Trani” – ricorda Mario Dilio) per una sterzata alla politica di quel giornale, già compromesso col passato regime, i fratelli Pàstina e Vincenzo Calace, grazie all’appoggio del tipografo Francesco (Bebè) Petra-rota, pensarono di dar vita all’edizione meridionale dell’”Italia libera”, la cui direzione responsabile fu affidata a Nicola Pàstina.
Il giornale sarebbe stato composto soltanto da quattro fogli di piccolo formato, ma avrebbe avuto una tale forza d’urto da procurare non poche noie al governo Badoglio.
Scrive in proposito Fabrizio Canfora nella sua bella prefazione alle “Pagine sparse” di Mimì Pàstina, raccolte da Nicola per l’ Adriatica editrice nel 1971, che, in una situazione che vedeva il governo Badoglio teso a ricostruire e a rinsaldare l’ossatura del vecchio stato prefascista, a fare del Mezzogiorno una sorta di Vandea, di contraltare delle forze democratiche più avanzate, pre-minenti e impegnate nella guerra di resistenza nel Nord, era naturale che i democratici del Sud, per deboli che fossero, tentassero con ogni mezzo di saldare moralmente e politicamente Nord e Sud della penisola.
Primo obiettivo del locale gruppo dirigente del Partito d’Azione, quindi, fu quello di strappare dal governo brindisino il decreto sulla libertà di stampa, sul diritto dei partiti a operare alla luce del sole e a disporre d’un proprio organo d’informazione.
Fu così che, a un mese dall’insediamento del re e del suo seguito a Brindisi, nell’ottobre venne lanciato, in violazione all’ancora vigente legislazione fascista sulla stampa, il primo numero dell’”Italia libera”: al fine, appunto, di provocare la reazione del locale governo e di indurre quindi gli alleati, sensibili in questioni di forma, ad intervenire.
E la reazione, naturalmente, non mancò. Quel “foglietto striminzito di quattro pagine” - come l’ebbe a definire lo stesso Nicola Pàstina - fu infatti considerato clandestino e, fatto sequestrare, diede luogo all’incriminazione e all’arresto di Vincenzo Calace, dello stampatore Francesco Petrarota, e - si dice per errore, ma non ne sono tanto convinto - di Domenico Pàstina.
A base però della pronta reazione repressiva - scrive ancora Canfora - era senza dubbio l’intonazione trasparentemente repubblicana del giornale, il quale - aggiunge Nicola Pàstina in un articolo pubblicato nel 1966 in un fascicolo della rinata “Rassegna pugliese” - poneva con chiarezza i problemi della nuova Italia ed accusava senza riguardi la monarchia e gli uomini del suo entourage, recando di conseguenza un grave colpo alla realizzazione del progetti brindisini.
Tra gli articoli apparsi su quel foglio, infatti, vi erano: un editoriale firmato da Michele Cifarelli (“Il dovere supremo”), in cui si sosteneva la necessità di concorrere con gli alleati nella lotta contro i tedeschi se si voleva in qualche modo “contare” e riscattare il paese; un’intervista al conte Carlo Sforza, tornato in Italia il 19 ottobre del ’43 dopo lunghi anni di esilio in America, e nella quale il futuro ministro degli esteri criticava aspramente l’idea di Churcill che l’Italia dovesse raccogliersi attorno al re e in cui si chiedeva “un netto colpo di scopa del governo italiano”; un trafiletto dedicato al ministro della Real Casa Acquarone, descritto come un “Metternich in 64°”; un articolo, non firmato, di Vincenzo Calace, pieno di umanità e di bontà, sul tema dell’epurazione e contro le liste di proscrizione e nel quale con coraggiosa fermezza si protestava contro la “caccia all’uomo” che si verificò nei primi mesi dopo la caduta del fascismo; e soprattutto uno scritto di Domenico Pàstina contro la monarchia e i ministri del governo Badoglio, da Pàstina giudicati personaggi mediocri e incapaci di “liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo”.
Ma leggiamo insieme, perché ne vale la pena, alcuni passi di questo scritto, tutto grondante sdegno e ironia.
“Domandiamo innanzi tutto - scriveva Mimì Pastina - se esiste un Governo regolarmente funzionante. Or è un mese, il Maresciallo Badoglio abbandonò Roma e i suoi ministri civili e si rifugiò a Brindisi con i ministri militari. Nulla si sa della sorte di quegli infelici che dovrebbero considerarsi tuttora in carica, dato che nessun prov-vedimento ufficiale è stato preso nei loro confronti (…): Certo si è che, venuta meno la compagine ministeriale, il Maresciallo si è (…) circondato di gente di statura troppo piccola per poter dirigere il popolo italiano nel momento di eccezionale gravità che si attraversa. Un ministro della real casa, alcuni prefetti educati e allevati in regime fascista non possono e non potranno mai liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo. Chi si è avvezzato a dare ordini a colpi di scudiscio, a vedersi davanti schiene prone di lacchè compiacenti, non avrà mai la capacità di discutere liberamente i problemi dell’ora da paro a paro con liberi cittadini degni di questo nome (…)”.
E aggiungeva: “Alle cariche pubbliche vengono chiamati uomini screditati o dal passato politico inquinato da filofascismo; dalla Radio di Bari sono stati eliminati elementi di alta cultura e di provata fede antifascista per ridare alla propaganda la vuota e bolsa intonazione dei tempi fascisti.”
“Il Partito d’Azione - dunque - tradirebbe la sua missione, se non gittasse alto il suo grido di allarme; chi vieta la trasmissione radiofonica degli inni di Mameli e di Garibaldi dimostra tanta ottusità politica, dà prova di essere permeato di tanto fascismo, da meritare il più aspro anatema! Né ci si venga a dire che il Governo Badoglio ha molto da fare e che è opera antipatriottica creargli delle difficoltà: nulla di più falso. Il Governo (…) del Maresciallo Badoglio, nel mese trascorso, non ha fatto nulla e per l’avvenire non ha intenzione di far nulla. Vi sono problemi gravi e angosciosi e urgenti, quali l’assistenza, l’alimentazione, la finanza pubblica, il riordinamento dell’esercito, che non vengono, prima che risolti, neanche affrontati, neanche proposti. Vi è poi il problema formidabile e fondamentale della guerra. Noi siamo in guerra contro la Germania, ma dove sono i nostri soldati, dove sono i nostri volontari? I cittadini animosi ed entusiasti, che a migliaia arrivano per arruolarsi da tutti i territori, liberi od occupati d’Italia, sono sistematicamente respinti dalle autorità militari. Le iniziative individuali sono severamente proibite. E allora che cosa si aspetta? (...) Finiamola - dunque - con i sistemi ermetici di governo! Il popolo ha il diritto di sapere ciò che si vuole e dove si va e i governanti hanno il dovere di far partecipare il popolo al governo. Diversamente andremo incontro a un fascismo peggiore”.
E concludeva: “Noi, come combattemmo il fascismo, combatteremo anche, se sarà necessario, e con tutte le nostre forze, questa che potremmo definire una degenerazione del fascismo.”
Che forza, in queste parole, così dirette, così esplicite, e quanto lontane da certo politichese dei giorni nostri. E quanta passione civile esse riflettono!
Sembra proprio di vederlo Mimì Pàstina, lui che fortunosamente, nell’ottobre del 1930, era scampato alla “retata” dei giellini operata in varie città d’Italia dall’OVRA, la polizia politica che il regime aveva istituito per combattere e reprimere l’opposizione al fascismo, sembra proprio di vederlo ergersi nella sua gentile persona e affiancarsi con fierezza ai tanti suoi compagni di “Giustizia e Libertà” che invece erano finiti arrestati (e fra i quali Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, e lo stesso Vincenzo Calace) e il cui maggiore elogio è scritto proprio nelle parole della sentenza del Tribunale speciale fascista che condannandoli nel 1931, insieme ad altri antifascisti, e nell’illusione di bollarli per sempre e giustificarne la condanna, li aveva definiti “uomini audaci, al di sopra di ogni personale interesse, capaci di tutto pur di abbattere il regime”.
E che implacabile disanima dei problemi della nuova Italia, che lucida consapevolezza della vera natura del governo Badoglio che, nel giro di qualche ora, con l’arresto di Calace, dello stampatore Petrarota e di Mimì Pàstina (non trovato in casa, questi si costituì il giorno dopo), manifestò chiaramente che non solo non aveva intenzione di procedere al ripristino della libertà di stampa, di cui il paese da diciotto anni era stato privato, ma che non intendeva riconoscere ai partiti antifascisti il diritto di organizzarsi e propagandare liberamente le loro idee e i loro programmi, né accordare un minimo di credito e fiducia a tutti coloro che avevano fama di antifascisti.
Quella operazione poliziesca, dunque, non fu solo un tentativo di rappresaglia e di intimidazione contro degli azionisti che ponevano al primo punto del loro programma la istanza repubblicana, ma anche un atto di furberia provinciale di chi riteneva di poter continuare a spadroneggiare impunemente nella vita politica della nazione, e per di più di una nazione ridotta a due regioni del Mezzogiorno, sui cui sentimenti filomonarchici si faceva ancora assegnamento.
Ma si vide ben presto quanto fosse sbagliato questo calcolo.
L’arresto dei due azionisti, infatti, ricorda ancora Nicola Pàstina in quell’articolo del 1966, e specialmente di Vincenzo Calace, un antifascista che aveva trascorso tredici dei suoi anni migliori tra carcere e confino, determinò una penosissima impressione in tutte le nostre città, e “fu un tipico esempio di boomerang che si risolve in danno di colui che lo ha lanciato”.
Vi fu, infatti, l’autorevole intervento del conte Sforza, del giornalista Alberto Tarchiani, poi ministro del secondo governo Badoglio e per dieci anni ambasciatore italiano negli Stati Uniti; vi fu la veemente insurrezione dei partiti politici; se ne parlò persino alla Camera dei Comuni, a Londra; e i Comandi alleati, sensibili – come abbiamo già detto – alle questioni di forma, non poterono negare l’enormità di quella odiosa misura poliziesca.
Così l’occasione fu utilissima e servì a rendere clamorosamente evidente quale fosse il preteso nuovo abito democratico di Vittorio Emanuele, di Badoglio, dei generali e dei ministri di corte; i quali furono a malincuore obbligati a fare marcia indietro e a concedere un minimo di libertà di stampa, la libertà di riunione e di propaganda politica e, ovviamente, a scarcerare, dopo soli otto giorni di detenzione nel carcere barese di Via Carrassi (una detenzione che, in verità, ricorda suo fratello Nicola, Mimì Pàstina prese con spirito e ironia e se ne divertì molto) i due azionisti e il tipografo Petrarota.
Certo, si potrebbe obiettare che prima o poi la libertà di stampa si sarebbe ottenuta, e che nessun governo avrebbe potuto a lungo farsi scudo della legislazione fascista sulla stampa.
L’episodio, cioè, certamente non va sottovalutato, ma - come d’altra parte riconosce lo stesso Nicola Pàstina - nemmeno sopravvalutato.
E’ innegabile, tuttavia, che l’arresto dei nostri azionisti fu l’occasione propizia, la causa determinante, diciamo pure il pretesto, per accelerare i tempi, consacrare tangibilmente la decadenza morale, la natura illiberale di quella legge sulla stampa, che risaliva al 1928, e costringere il governo Badoglio a un primo riconoscimento del nuovo assetto democratico.
Un episodio, insomma, che pure al di là dei meriti che Giovanni De Luna ha riconosciuto al Partito d’Azione, non sarebbe giusto far passare sotto silenzio.
Per questo, allora, a 64 anni dalla pubblicazione dell’”Italia libera”, a 48 anni dalla morte di Domenico Pàstina e a trent’anni esatti da quella di Nicola Pàstina, ne parliamo ancora oggi, e con la speranza, naturalmente, che se ne tragga insegnamento.
Mi riferisco alla polemica con lo scrittore Giuseppe Prezzolini, celebre penna velenosa della storia letteraria italiana e non alieno, nel passato, da simpatie mussoliniane.
Orbene, a Prezzolini non era affatto piaciuto che nel numero di ottobre 1966 della rivista tranese, e in un articolo a firma di Walter Tommasino, si fosse affermato tra l’altro che la “Rassegna Pugliese” di Valdemaro Vecchi “non solo fu l’antesignana delle riviste fiorentine dell’inizio secolo, ma soprattutto il modello insuperato della ‘Voce’ di Prezzolini”.
Per cui, sia pure ultra ottantenne, eccolo, Prezzolini, non farsi sfuggire l’occasione per risfoderare la sua penna al cianuro e, dalle pagine del “Borghese”, la rivista fondata da Leo Longanesi e alla quale, all’epoca, egli collaborava, eccolo rispondere testualmente: “E’ proprio vero che i creatori delle riviste fiorentine dell’inizio del secolo s’ispirarono alla ‘Rassegna Pugliese’. Papini non faceva che leggerla giorno e notte, Corradini se la portava a tavola e la leggeva mentre faceva colazione per non perdere tempo. Prezzolini la teneva al capezzale del letto, per pre-parare gli articoli dell’indomani. Borgese conservava la collezione ed ogni tanto andava a consultare i fascicoli arretrati. Non parlo poi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile: se ne disputavano le copie”.
Ironia raggelante, indubbiamente, e comunque tale da lasciare di sasso qualsiasi incauto interlocutore. Ma non Nicola Pàstina, che nel numero successivo della “Rassegna”, dopo avere elegantemente riconosciuto le qualità letterarie dello scrittore perugino, così aggiungeva: “L’umorismo non è un genere facile, e forse Prezzolini era un più raffinato umorista quand’era più giovane e scriveva che l’Opera Nazionale Balilla era la più grande rivoluzione sociale che si sia compiuta in Italia da secoli; oppure era lui Prezzolini, e non l’ottimo prof. Tommasino, uno dei più grandi inventori d’Italia quando scopriva che il duce era un motore unico e centrale, instabile e onnipresente che spinge, spinge, spinge”.
Questo dunque fu il Nicola Pastina che io conosciuto.
E suo fratello Domenico, invece?
Ben altro, per le ragioni che ho già detto, fu il mio approccio con lui, più indiretto, più mediato dalle letture e dai racconti altrui, ma non meno stimolante, non meno coinvolgente.
E allora?
“Dell’un dirò, però che d’amendue/ si dice l’un pregiando, qual uom prende,/ perch’ ad un fine fuor l’opere sue/…” ripeterei con il poeta se non temessi di far torto ad entrambi appiattendo le loro biografie in una superficiale consonanza di ideali e di opere.
Forte fu, infatti, la personalità di Domenico Pastina e forte fu quella di Nicola, al di là della comune mitezza di carattere, e fu per questa forza che entrambi s’impegnarono con spirito critico nella lotta politica, furono lucidi testimoni della vita pubblica non solo pugliese ma nazionale e, in misura diversa, entrambi furono protagonisti di un episodio che, dopo gli anni bui della censura fascista, contribuì ad avviare la stagione della libertà di stampa in Italia. Mi riferisco, ovviamente, alla pubblicazione presso la Tipografia Vecchi, nell’ottobre del 1943, di un numero dell”Italia libera”, un giornale che giustamente è stato definito l’antesignano della libertà di stampa in Italia.
E, non prima di contestualizzarlo, vengo dunque al tema che mi è stato chiesto di trattare e al quale da ora disciplinatamente mi atterrò.
Quale fu, allora, il contesto storico nel quale si collocò la pubblicazione dell“Italia libera”? E quali furono le sue motivazioni originarie?
La sera dell’8 settembre del 1943, dunque, veniva im-provvisamente diffuso per radio l’annuncio dell’armistizio.
Il 10 settembre Vittorio Emanuele III, a bordo della nave “Baionetta”, con tutta la corte e il maresciallo Badoglio giungeva a Brindisi a conclusione della sua precipitosa fuga dalla capitale.
Iniziava così la fragile e incerta vita di quel “Regno del Sud” che, “per garantire - come si disse - la continuità dello Stato italiano”, si limitò temporaneamente ad esercitare la sua sovranità prima sulle province pugliesi di Bari Brindisi Lecce e Taranto e, dal febbraio del 1944 fino al suo trasferimento a Salerno il 5 giugno dello stesso anno, su tutta l’Italia a sud delle province di Foggia e di Napoli.
Una vita incerta, ho detto, che davvero sembrava “composta da ordini diversi di esseri viventi”.
Da una parte, infatti, vi era uno Stato corroso e svalutato anche dall’interno e i partiti politici (il Partito liberale, la Democrazia Cristiana, il PSIUP, nel quale si raccoglievano i socialisti del tempo, il PCI e il Partito d’Azione) con scarsi legami con le masse e ancora gestiti da pochi volenterosi; e dall’altra una popolazione ancora scossa dalle paure di una guerra lunghissima e dai continui estenuanti sacrifici per sopravvivere, una popolazione praticamente tagliata fuori dal mondo (i giornali erano scarsamente diffusi e la radio trasmetteva solo musichette e mai un commento ai gravi fatti che avvenivano in Italia) e che quindi sapeva con uno sfasamento di sei/sette giorni sull’avvenimento che ormai faceva parte del “Regno del Sud” e che il resto dell’Italia (dove risorgeva il fascismo e dove pure si andavano organizzando i primi nuclei partigiani) era in mano ai tedeschi.
Su tutto, insomma, il segno drammatico di una guerra che continuava realmente, per la presenza, fino a Bari, di un’amministrazione militare anglo-americana, forte di una potenza di mezzi mai immaginati, e, per alcune improvvise incursioni nel nord barese, delle ultime retroguardie tedesche.
E’ in questo contesto che va pertanto collocato non solo l’episodio della rappresaglia nazista dei 50 ostaggi a Trani, ma anche la pubblicazione, presso la Tipografia Vecchi, dell’”Italia libera”, che uscì come organo del Partito d’Azione, una forza politica costituita in gran parte da militanti dell’ormai disciolto movimento di “Giustizia e Libertà”.
E’ stato lo storico Giovanni De Luna, in un suo libro pubblicato negli anni ’80 da Feltrinelli (”Storia del Partito d’Azione – 1942-1947”) a dare un più giusto significato all’esperienza azionista nella crisi bellica e postbellica, a valutare le ragioni della sua affermazione durante la Resistenza e del suo declino dopo la Liberazione, e quindi non solo a rimuovere quel pregiudizio che, diffuso a sinistra non meno che a destra, ha fatto stimare gli azionisti degli intellettuali piuttosto che dei politici, degli idealisti piuttosto che dei realisti, ma a chiarire che il fallimento del partito non sia da addebitare al loro modo di fare politica ma in gran parte agli equivoci e alle contraddizioni che caratterizzavano la scena nazionale come quella internazionale.
Non mi sembra questa la sede per riprendere tali argomentazioni, ma insieme a De Luna è opportuno ricordare non solo che il Partito d’Azione, insieme al PCI, fu il movimento più numeroso e agguerrito del tempo e che si qualificò come importante strumento di mediazione sociale, ma che gli azionisti, al di là della loro intransigenza politica e morale, intuirono molte cose sullo sviluppo della società italiana in un regime democratico, colsero l’importanza dell’apparato statale e la necessità di una sua riforma profonda dopo l’esperienza fascista e affrontarono con intelligenza sia i nuovi termini della questione meridionale sia il ruolo sempre più decisivo che le classi medie erano destinate a giocare all’interno di uno sviluppo capitalistico.
Ne consegue, in questa luce, che anche il giornale pubblicato a Trani nell’ottobre del ’43 assume certamente un’importanza maggiore di quella che finora pur gli è stata riconosciuta.
Orbene, nei tempi di cui ci interessiamo, tra gli azionisti pugliesi (perlopiù giovani intellettuali formatisi nel gruppo vicino alla casa editrice Laterza, fortemente segnati dall’influenza di Tommaso Fiore) i più impegnati erano indubbiamente Michele Cifarelli, magistrato ancora trentenne, il prof. Fabrizio Canfora, illustre professore di storia e filosofia al liceo “Orazio Flacco” di Bari e padre dello storico Luciano Canfora, l’avv. Giuseppe Papalia, Vincenzo e Vittore Fiore, figli di Tommaso, e i tranesi Domenico Pàstina, avvocato allora 45enne, suo fratello Nicola, di 3 anni più giovane e l’avv. Vittorio Malcangi, l’illustre penalista, al quale si deve la progettazione del primo comitato antifascista a Trani.
Ad essi si era unito l’ing. Vincenzo Calace (anch’egli tranese, ma vissuto prevalentemente a Bisceglie) che, appena liberato da lunghi anni di detenzione nelle carceri fasciste, era ormai tra gli esponenti più attivi del Partito d’Azione che, nello storico primo congresso dei partiti antifascisti tenuto nel teatro “Piccinni” di Bari il 28 gennaio del 1944, lo designerà come proprio rappresentante nella Giunta esecutiva permanente del C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale).
Fu in questo gruppo, il 12 settembre del ’43, due giorni dopo l’arrivo del re a Brindisi, che, commentando quella notizia, venne dunque l’idea di estendere l’azione politica impossessandosi di uno strumento di propaganda valido su un vasto territorio.
Si decise così di utilizzare le antenne di Radio Bari che, organizzata dagli alleati, divenne ben presto “la voce dell’antifascismo pugliese”, e, sul fronte giornalistico, fallito il tentativo di garantire alla direzione della “Gazzetta del Mezzogiorno” un direttore antifascista e progressista (“Furono tutti d’accordo nell’indicare Domenico Pàstina di Trani” – ricorda Mario Dilio) per una sterzata alla politica di quel giornale, già compromesso col passato regime, i fratelli Pàstina e Vincenzo Calace, grazie all’appoggio del tipografo Francesco (Bebè) Petra-rota, pensarono di dar vita all’edizione meridionale dell’”Italia libera”, la cui direzione responsabile fu affidata a Nicola Pàstina.
Il giornale sarebbe stato composto soltanto da quattro fogli di piccolo formato, ma avrebbe avuto una tale forza d’urto da procurare non poche noie al governo Badoglio.
Scrive in proposito Fabrizio Canfora nella sua bella prefazione alle “Pagine sparse” di Mimì Pàstina, raccolte da Nicola per l’ Adriatica editrice nel 1971, che, in una situazione che vedeva il governo Badoglio teso a ricostruire e a rinsaldare l’ossatura del vecchio stato prefascista, a fare del Mezzogiorno una sorta di Vandea, di contraltare delle forze democratiche più avanzate, pre-minenti e impegnate nella guerra di resistenza nel Nord, era naturale che i democratici del Sud, per deboli che fossero, tentassero con ogni mezzo di saldare moralmente e politicamente Nord e Sud della penisola.
Primo obiettivo del locale gruppo dirigente del Partito d’Azione, quindi, fu quello di strappare dal governo brindisino il decreto sulla libertà di stampa, sul diritto dei partiti a operare alla luce del sole e a disporre d’un proprio organo d’informazione.
Fu così che, a un mese dall’insediamento del re e del suo seguito a Brindisi, nell’ottobre venne lanciato, in violazione all’ancora vigente legislazione fascista sulla stampa, il primo numero dell’”Italia libera”: al fine, appunto, di provocare la reazione del locale governo e di indurre quindi gli alleati, sensibili in questioni di forma, ad intervenire.
E la reazione, naturalmente, non mancò. Quel “foglietto striminzito di quattro pagine” - come l’ebbe a definire lo stesso Nicola Pàstina - fu infatti considerato clandestino e, fatto sequestrare, diede luogo all’incriminazione e all’arresto di Vincenzo Calace, dello stampatore Francesco Petrarota, e - si dice per errore, ma non ne sono tanto convinto - di Domenico Pàstina.
A base però della pronta reazione repressiva - scrive ancora Canfora - era senza dubbio l’intonazione trasparentemente repubblicana del giornale, il quale - aggiunge Nicola Pàstina in un articolo pubblicato nel 1966 in un fascicolo della rinata “Rassegna pugliese” - poneva con chiarezza i problemi della nuova Italia ed accusava senza riguardi la monarchia e gli uomini del suo entourage, recando di conseguenza un grave colpo alla realizzazione del progetti brindisini.
Tra gli articoli apparsi su quel foglio, infatti, vi erano: un editoriale firmato da Michele Cifarelli (“Il dovere supremo”), in cui si sosteneva la necessità di concorrere con gli alleati nella lotta contro i tedeschi se si voleva in qualche modo “contare” e riscattare il paese; un’intervista al conte Carlo Sforza, tornato in Italia il 19 ottobre del ’43 dopo lunghi anni di esilio in America, e nella quale il futuro ministro degli esteri criticava aspramente l’idea di Churcill che l’Italia dovesse raccogliersi attorno al re e in cui si chiedeva “un netto colpo di scopa del governo italiano”; un trafiletto dedicato al ministro della Real Casa Acquarone, descritto come un “Metternich in 64°”; un articolo, non firmato, di Vincenzo Calace, pieno di umanità e di bontà, sul tema dell’epurazione e contro le liste di proscrizione e nel quale con coraggiosa fermezza si protestava contro la “caccia all’uomo” che si verificò nei primi mesi dopo la caduta del fascismo; e soprattutto uno scritto di Domenico Pàstina contro la monarchia e i ministri del governo Badoglio, da Pàstina giudicati personaggi mediocri e incapaci di “liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo”.
Ma leggiamo insieme, perché ne vale la pena, alcuni passi di questo scritto, tutto grondante sdegno e ironia.
“Domandiamo innanzi tutto - scriveva Mimì Pastina - se esiste un Governo regolarmente funzionante. Or è un mese, il Maresciallo Badoglio abbandonò Roma e i suoi ministri civili e si rifugiò a Brindisi con i ministri militari. Nulla si sa della sorte di quegli infelici che dovrebbero considerarsi tuttora in carica, dato che nessun prov-vedimento ufficiale è stato preso nei loro confronti (…): Certo si è che, venuta meno la compagine ministeriale, il Maresciallo si è (…) circondato di gente di statura troppo piccola per poter dirigere il popolo italiano nel momento di eccezionale gravità che si attraversa. Un ministro della real casa, alcuni prefetti educati e allevati in regime fascista non possono e non potranno mai liberare i loro cervelli dalle incrostazioni formatesi in vent’anni di fascismo. Chi si è avvezzato a dare ordini a colpi di scudiscio, a vedersi davanti schiene prone di lacchè compiacenti, non avrà mai la capacità di discutere liberamente i problemi dell’ora da paro a paro con liberi cittadini degni di questo nome (…)”.
E aggiungeva: “Alle cariche pubbliche vengono chiamati uomini screditati o dal passato politico inquinato da filofascismo; dalla Radio di Bari sono stati eliminati elementi di alta cultura e di provata fede antifascista per ridare alla propaganda la vuota e bolsa intonazione dei tempi fascisti.”
“Il Partito d’Azione - dunque - tradirebbe la sua missione, se non gittasse alto il suo grido di allarme; chi vieta la trasmissione radiofonica degli inni di Mameli e di Garibaldi dimostra tanta ottusità politica, dà prova di essere permeato di tanto fascismo, da meritare il più aspro anatema! Né ci si venga a dire che il Governo Badoglio ha molto da fare e che è opera antipatriottica creargli delle difficoltà: nulla di più falso. Il Governo (…) del Maresciallo Badoglio, nel mese trascorso, non ha fatto nulla e per l’avvenire non ha intenzione di far nulla. Vi sono problemi gravi e angosciosi e urgenti, quali l’assistenza, l’alimentazione, la finanza pubblica, il riordinamento dell’esercito, che non vengono, prima che risolti, neanche affrontati, neanche proposti. Vi è poi il problema formidabile e fondamentale della guerra. Noi siamo in guerra contro la Germania, ma dove sono i nostri soldati, dove sono i nostri volontari? I cittadini animosi ed entusiasti, che a migliaia arrivano per arruolarsi da tutti i territori, liberi od occupati d’Italia, sono sistematicamente respinti dalle autorità militari. Le iniziative individuali sono severamente proibite. E allora che cosa si aspetta? (...) Finiamola - dunque - con i sistemi ermetici di governo! Il popolo ha il diritto di sapere ciò che si vuole e dove si va e i governanti hanno il dovere di far partecipare il popolo al governo. Diversamente andremo incontro a un fascismo peggiore”.
E concludeva: “Noi, come combattemmo il fascismo, combatteremo anche, se sarà necessario, e con tutte le nostre forze, questa che potremmo definire una degenerazione del fascismo.”
Che forza, in queste parole, così dirette, così esplicite, e quanto lontane da certo politichese dei giorni nostri. E quanta passione civile esse riflettono!
Sembra proprio di vederlo Mimì Pàstina, lui che fortunosamente, nell’ottobre del 1930, era scampato alla “retata” dei giellini operata in varie città d’Italia dall’OVRA, la polizia politica che il regime aveva istituito per combattere e reprimere l’opposizione al fascismo, sembra proprio di vederlo ergersi nella sua gentile persona e affiancarsi con fierezza ai tanti suoi compagni di “Giustizia e Libertà” che invece erano finiti arrestati (e fra i quali Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, e lo stesso Vincenzo Calace) e il cui maggiore elogio è scritto proprio nelle parole della sentenza del Tribunale speciale fascista che condannandoli nel 1931, insieme ad altri antifascisti, e nell’illusione di bollarli per sempre e giustificarne la condanna, li aveva definiti “uomini audaci, al di sopra di ogni personale interesse, capaci di tutto pur di abbattere il regime”.
E che implacabile disanima dei problemi della nuova Italia, che lucida consapevolezza della vera natura del governo Badoglio che, nel giro di qualche ora, con l’arresto di Calace, dello stampatore Petrarota e di Mimì Pàstina (non trovato in casa, questi si costituì il giorno dopo), manifestò chiaramente che non solo non aveva intenzione di procedere al ripristino della libertà di stampa, di cui il paese da diciotto anni era stato privato, ma che non intendeva riconoscere ai partiti antifascisti il diritto di organizzarsi e propagandare liberamente le loro idee e i loro programmi, né accordare un minimo di credito e fiducia a tutti coloro che avevano fama di antifascisti.
Quella operazione poliziesca, dunque, non fu solo un tentativo di rappresaglia e di intimidazione contro degli azionisti che ponevano al primo punto del loro programma la istanza repubblicana, ma anche un atto di furberia provinciale di chi riteneva di poter continuare a spadroneggiare impunemente nella vita politica della nazione, e per di più di una nazione ridotta a due regioni del Mezzogiorno, sui cui sentimenti filomonarchici si faceva ancora assegnamento.
Ma si vide ben presto quanto fosse sbagliato questo calcolo.
L’arresto dei due azionisti, infatti, ricorda ancora Nicola Pàstina in quell’articolo del 1966, e specialmente di Vincenzo Calace, un antifascista che aveva trascorso tredici dei suoi anni migliori tra carcere e confino, determinò una penosissima impressione in tutte le nostre città, e “fu un tipico esempio di boomerang che si risolve in danno di colui che lo ha lanciato”.
Vi fu, infatti, l’autorevole intervento del conte Sforza, del giornalista Alberto Tarchiani, poi ministro del secondo governo Badoglio e per dieci anni ambasciatore italiano negli Stati Uniti; vi fu la veemente insurrezione dei partiti politici; se ne parlò persino alla Camera dei Comuni, a Londra; e i Comandi alleati, sensibili – come abbiamo già detto – alle questioni di forma, non poterono negare l’enormità di quella odiosa misura poliziesca.
Così l’occasione fu utilissima e servì a rendere clamorosamente evidente quale fosse il preteso nuovo abito democratico di Vittorio Emanuele, di Badoglio, dei generali e dei ministri di corte; i quali furono a malincuore obbligati a fare marcia indietro e a concedere un minimo di libertà di stampa, la libertà di riunione e di propaganda politica e, ovviamente, a scarcerare, dopo soli otto giorni di detenzione nel carcere barese di Via Carrassi (una detenzione che, in verità, ricorda suo fratello Nicola, Mimì Pàstina prese con spirito e ironia e se ne divertì molto) i due azionisti e il tipografo Petrarota.
Certo, si potrebbe obiettare che prima o poi la libertà di stampa si sarebbe ottenuta, e che nessun governo avrebbe potuto a lungo farsi scudo della legislazione fascista sulla stampa.
L’episodio, cioè, certamente non va sottovalutato, ma - come d’altra parte riconosce lo stesso Nicola Pàstina - nemmeno sopravvalutato.
E’ innegabile, tuttavia, che l’arresto dei nostri azionisti fu l’occasione propizia, la causa determinante, diciamo pure il pretesto, per accelerare i tempi, consacrare tangibilmente la decadenza morale, la natura illiberale di quella legge sulla stampa, che risaliva al 1928, e costringere il governo Badoglio a un primo riconoscimento del nuovo assetto democratico.
Un episodio, insomma, che pure al di là dei meriti che Giovanni De Luna ha riconosciuto al Partito d’Azione, non sarebbe giusto far passare sotto silenzio.
Per questo, allora, a 64 anni dalla pubblicazione dell’”Italia libera”, a 48 anni dalla morte di Domenico Pàstina e a trent’anni esatti da quella di Nicola Pàstina, ne parliamo ancora oggi, e con la speranza, naturalmente, che se ne tragga insegnamento.
Domenico di Palo
* Il testo qui riportato (uscito nel 2007 a puntate sul “Giornale di Trani” e poi ripubblicato in edizione aggiornata nel 2009 da Landriscina Editrice) è la relazione da me svolta nel Convegno su “I fratelli Pàstina e la difficile nascita della democrazia a Trani e in Italia”, organizzato a Trani il 16 giugno 2007 dall’Associazione “Obiettivo Trani” e dalle Sezioni di Trani e di Andria della “Società di Storia Patria per la Puglia”, in collaborazione con il Comitato di Bari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, e al quale intervennero anche i professori Franz Brunetti, Giuseppe Brescia e Giovanni de Gennaro.
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