Dieci anni fa, introducendo la mia monografia su Ivo Scaringi, alla quale avevo dato mano ancora sotto l’emozione della sua morte, scrivevo che la sua prima mostra personale, nel maggio del 1964, fu davvero una svolta nella storia della pittura pugliese del secondo novecento.
Oggi, acquietatasi quella emozione, come accade per le cose degli uomini, ma non spentosi il rammarico per la sua prematura scomparsa (perché ancora tanto egli poteva dare all’arte, ai suoi cari e agli amici), sono sempre convinto che, parlando di Ivo, si debba partire dal forte impatto che quella sua prima mostra alla “Vernice” di Bari ebbe sui suoi numerosi visitatori.
Nello stanco panorama dell’arte pugliese del tempo, infatti, quella per intenderci delle figurazioni manierate degli ulivi, dei trulli, delle case imbiancate di calce e dei paesaggi a terrazze della Murgia, quella mostra segnò, decisamente, un punto di rottura, nell’innovare nella tradizione la pittura della nostra regione…
Le facce rugose di vecchie terribili come megere, dipinte infatti nelle sue tele; i lineamenti esasperati di donne tarantolate, o in preda a pratiche esorcistiche o al travaglio del parto; quei braccianti induriti come la pietra e quindi ormai insensibili al dolore e alla fatica; le masse materiche di usci tutti a croste o slabbrati come quelli di certi nostri vecchi terrazzi e sottani; e poi i letti disfatti situati in interni poveri e dai muri sporcati dal tempo e dall’incuria; e le fucilazioni, con quei corpi che caduti per terra si riducevano a poveri stracci abbandonati; e ancora certi visi stravolti, dipinti di scorcio, di tre quarti, in primo piano; quelle tele insomma, raffiguranti sì il segno di una polemica sociale ma anche il sentimento acuto dello squallore, della disperazione e della morte, erano di certo ben altra cosa dell’oleografisno, del figurativismo “grazioso” e di evasione e dello spento naturalismo di tanta tradizione pittorica nostrana.
Ecco perché allora ebbi la sensazione di essere testimone di un evento storico della pittura pugliese, una sensazione che certamente condivise anche Pietro Marino, all’epoca ritenuto un’autorità nella critica d’arte in Puglia, Pietro Marino che, scrivendone sul suo giornale, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, salutava in Ivo Scaringi “il più sicuro e maturo rappre-sentante della nuova generazione di artisti pugliesi” e, non potendo negare la forza della sua voce, per essa credeva doveroso “compromettersi”. Pur non accettandone - aggiungeva poi, forse con eccessiva prudenza - pur non accettandone “il punto di partenza, la matrice ideologica”.
E a quale punto di partenza, a quale matrice ideologica egli si riferisse era ben chiaro a tutti.
I primi Anni Sessanta, a Trani, eccoci infatti, un gruppo di giovani amici (i giacobini, ci chiamò Franz Brunetti) decisamente animati da una voglia sacrosanta di cambiare il mondo, ed eccoci quindi impegnati a reagire alle chiusure retrive, alle censure e alla messa al bando di quelle iniziative culturali che cercavamo di promuovere nel grigiore della vita cittadina. Come il Circolo del Cinema, ad esempio, il primo ad essere fondato a Trani, o come “Il Canocchiale”, il periodico cittadino, nel quale aveva trovato espressione, si disse, “una componente di sinistra, libertaria e innovatrice rispetto alla pesantezza del PCI pugliese”.
Ed ecco, paralleli a queste esperienze, i nostri “corti viaggi sentimentali” in Lucania, sulle orme di Rocco Scotellaro, “il poeta della libertà contadina”, “l’intellettuale nuovo” che nel clima pesante del dopoguerra, sulla base di un’esperienza reale, fu portato dagli avvenimenti a impegnarsi fino in fondo nella lotta politica e a pagare amaramente il prezzo della sua scelta.
Quanto a Bari, eccoci, nello studio bohémien di Tony Prayer, insieme ad altri giovani pittori, a parlare tutti ad alta voce, della Puglia, dell’arte, della sua funzione. E a leggere persino le lettere di Siqueiros, e ad esse mescolare, alla rinfusa, i nomi di Picasso, di Gaetano Salvemini, di Tommaso Fiore e di una Spagna senza Franco.
Eccoci insomma animati da quella passione che avremmo riscoperto, di lì a qualche mese, nella galleria del “Sagittario” di Giacomo Cinquepalmi, con gli amici di “Nuova Puglia”; nel tentativo di “fare gruppo”, di uscire finalmente dall’individualismo atavico del Mezzogiorno d’Italia, nel tracciare le linee di un progetto artistico che fosse nutrito di istanze morali e sociali, e che - seguendo l’esempio del molfettese Salvatore Salvemini e di Ginetto Guerricchio, il pittore materano da pochi anni disceso in Puglia fresco di studi e di successi conseguiti al nord - rivolgesse il colorismo plastico di Francesco Spizzico, di Vito Stifano e di Roberto De Robertis (gli antichi maestri di Ivo all’Istituto d’Arte di Bari e protagonisti di un timido rinnovamento negli anni Trenta-Cinquanta) in direzione di un neoespressionismo nervoso e impetuoso. Disfacendo colori e piani, e assumendo come referente la crisi della civiltà contadina nel Sud, e l’emergere delle contraddizioni della nuova cultura urbana.
Vivevamo, insomma, il nostro ’68, anticipato nel tempo, è vero, ma per ciò più eroico e, chissà, forse più autentico.
Anche Ivo, dunque, faceva parte del gruppo. Ma un po’ defilato, quasi nell’ombra, attento solo ad ascoltare. Al punto che a volte a tutti noi, neofiti entusiasti, sembrava eccessivo il suo silenzio, e incomprensibile la sua riservatezza, alla quale finiva col sacrificare anche la cura della propria immagine.
Ma Ivo invece, a differenza di noi, non si sentiva un neofita, e all’impegno politico nei partiti (l’impegno che in quegli anni cominciavamo a vivere), anche per una sorta di consuetudine familiare, sapeva guardare con la superiore saggezza di chi ha già lunga esperienza delle cose del mondo.
Né si era mai definito un “militante”.
Né, d’altra parte, ci era ancora del tutto chiaro che lui, naturalmente di poche parole, consumava nella pittura l’ormai acquisita consapevolezza della condizione umana, esauriva in essa il suo (così poi fu scritto) “urlo biologico”, che la sua arte, insomma, e il suo modo di essere già andavano oltre la polemica sociale, oltre la storia, per farsi, in rigorosa solitudine, segno immutabile, una lucida e disperata testimonianza della tragedia del vivere, e del morire.
Questo e non altro, allora, era Ivo Scaringi, con buona pace di noi impetuosi “giacobini”, che quindi sbagliavamo a pretendere da lui ciò che egli non poteva darci.
Abitava allora, a Trani, nella casa paterna di Via Sasso 32, nel quartiere di San Michele. Quella con le ghirlande di pomodori rossi messi ad essiccare alle pareti dell’androne, con una scala buia e stretta che sbucava in un terrazzino pieno di calchi di gesso e di statuine cimiteriali (opera di suo padre, lo scultore Nicola Scaringi); due vecchie poltrone di vimini; e poi un piccolo locale col tetto spiovente e trasformato nello studio del pittore, in mezzo al quale, tra decine di tele appoggiate al muro, barattoli di latta, tubetti di colore allineati con cura, una cartella zeppa di disegni su una sedia impagliata, un fiasco vuoto, panni vari aggomitolati in modi diversi, attrezzi da giardino, arnesi arrugginiti, troneggiava una grossa ciotola di latta, una sputacchiera trasformata in portacenere e colma di cicche e mozziconi vari.
Ivo se ne stava seduto vicino al cavalletto, come sempre ricurvo sulle spalle, la mezza sigaretta tra le labbra e con la coppola calata sul capo. E se ne stava lì ad ascoltare, in silenzio, i miei discorsi torrenziali sui massimi sistemi, mentre lui, tra mille ripensamenti, squadrava la tela, vi tracciava segni, vi spandeva colori su colori, facendo quindi emergere, lentamente, ma come per incanto, quella che lui definiva la struttura materica del quadro, la sua ossatura, che, per la consapevolezza che egli aveva del mestiere di pittore, una consapevolezza da lui acquisita da ragazzo nella bottega paterna, mai dunque si riduceva ad una semplice pellicola, ad una semplice superficie colorata.
“Sono un pittore all’antica - amava spesso definirsi - Credo al mestiere del pittore, alla pittura costruita: quella che, battendo sulla tela, ti risponde”.
E così, quando avevo esaurito le mie divagazioni, eccolo Ivo, quasi ad allontanare da sé un’eventuale taccia di musone, che mai avrebbe tollerato, eccolo dare sfogo a tutto il suo sottile umorismo, venato di garbata ironia, ed alludere al pittore di comune conoscenza che si faceva quotare sul “Bolaffi” a pagamento e che sborsava periodicamente somme cospicue al critico di turno per una compiacente segnalazione sul suo giornale; al politicante chiacchierato che faceva spudoratamente professione di onestà amministrativa; o al visitatore con la puzza sotto il naso che, aggirandosi nel suo studio a scartabellare una tela dopo l’altra, gli chiedeva di tanto in tanto: “Ma questa che significa?”.
“Uh!... Madonna. Ci resto male - diceva Ivo rifacendo, con arguzia, il verso al nostro severo e sprovveduto inquisitore - Ci resto male quando mi chiedono cosa vogliono dire i miei quadri”.
Finché, inevitabilmente, mi riconduceva sul suo terreno preferito, e si parlava di mestica, di disegno, di colori, come per rammentarmi che quello soltanto era, dopo tutto, il suo linguaggio e che desiderava farsi capire solo attraverso i suoi quadri.
E intanto il suo prestigio si consolidava nella regione e fuori di essa. I riconoscimenti autorevoli (tra cui quelli di Vito Carofiglio, Pietro De Giosa, Anna D’Elia, Camillo Langone, Maria Marcone, Filiberto Menna, Dario Micacchi, Duilio Morosini, Giancarlo Pandini, Enzo Panareo, Michele Prisco, Paolo Ricci, Franco Sossi, Marcello Venturoli, Luciana Zingarelli, e soprattutto di Vittore Fiore e di Elio Mercuri, autori nel 1970 di due saggi a mio avviso fondamentali sulla sua arte), si facevano numerosi).
E pure nella fine ingloriosa di “Nuova Puglia”, nel 1966, e di “Immaginazione e Realtà”, nel 1971, una fine che avevano contribuito ad affrettare non solo l’ostilità dell’ambiente (stretto fra ostinate resistenze conservatrici e l’autorevolezza da poco conquistata dai De Robertis, dagli Spizzico e dagli Stifano), ma anche - perché no - l’esaurimento dell’uso strumentale che di queste esperienze alcuni partiti politici si erano illusi di poter fare; nonostante la vita breve di queste esperienze di gruppo - dicevo - restava incorrotta la fama di “maestro” di Ivo Scaringi che, ormai, anche pittori già affermati ritenevano “il migliore di tutti”, come Guerricchio, ad esempio, quando apertamente confessava che alcuni dei quadri di Ivo avrebbe voluto saperli dipingere anche lui.
Indiscusso protagonista della pittura pugliese di quegli anni, sembrava, insomma, che non ci fossero più ostacoli per affermare definitivamente la sua “immagine” o per prendere, come si dice, il volo per traguardi più ambiziosi.
E, in verità, non gli mancavano le occasioni.
A metà degli anni Sessanta, per esempio, un noto gallerista di Bari gli fece una proposta che qualunque pittore al mondo avrebbe considerato vantaggiosissima.
Quel gallerista si disse disposto a versargli mensilmente qualsiasi cifra, in cambio di una periodica e puntuale consegna di un certo numero di quadri.
Ma Ivo rispose di no.
“Mettersi in mano ad un mercante d’arte significa dipingere quello che vuole il pubblico” disse in un intervista.
E ancora, qualche anno dopo, parlando di sé nel corso di una delle sue ultime mostre: “Non ho l’assillo del mercato, non ho scadenze da rispettare. Sono un pittore libero, li-be-ro!” dichiarò orgogliosamente.
Fu così che cominciò a definirsi il suo ruolo di artista libero e solitario.
E fu così che cominciò a costruirsi la leggenda del pittore dal talento indiscusso ma in volontario esilio in provincia, una leggenda della quale Ivo finì in verità anche col compiacersi se di tanto in tanto, con un po’ di civetteria e con evidente orgoglio, rammentava quanto su di lui aveva scritto ancora Pietro Marino nel 1965.
“Ivo Scaringi - aveva scritto il critico barese – poteva diventare il cocco dei buoni borghesi che comprano quadri per il salotto. Ne aveva tutti i requisiti: il senso sicuro del colore aggressivo e squillante, come le gam-me dei rossi che infondono allegria o eccitano; il segno scattante, di una eleganza capace di dar senza pericolo i brividi della modernità; la perizia grafica. Poteva persino qualificarsi, il giovane pittore tranese, come un interessante portatore di neocaravaggismo: mettendo d’accordo - come s’è visto, in certi momenti della sua ancor breve carriera - drammaticità neorealista e un revival di monumentalismo barocco napoletano. L’istanza meridionalista - che nutre con lontane radici umanistiche la cultura pugliese - sarebbe rimasta appagata del tributo resole con soggetti popolareschi, interni di dimore contadine, volti operai del boom industriale. Temi, anche questi, affrontati da Ivo Scaringi con aggressiva sofferenza. Ma Scaringi ha smantellato il suo facile destino, man mano che meditava sulla realtà complessa e contraddittoria del nostro tempo. E la sua pittura tende sempre più a rifletterne le interne tensioni e lacerazioni, ad assumere i segni idonei a significare la condizione alienata dell’uomo…”.
Ecco perché non servivano a nulla le sollecitazioni di amici ed estimatori a curare di più, come si dice, la sua immagine, e quindi a impegnarsi in direzione di una sua più diffusa e radicata popolarità.
Così, diviso tra l’insegnamento nella scuola media (dal 1969 si era fatto trasferire dall’Istituto d’arte di Bari, dove, per meriti artistici - cosa davvero d’altri tempi - nel 1960 era stato assunto come docente di discipline artistiche), un tranquillo ménage familiare e la frequentazione di pochi e sinceri amici, continuava la sua paziente e faticosa ricerca, ma in piena libertà e solitudine.
“La libertà – gli piaceva ripetere – non te la regala nessuno. Per questo è preferibile – aggiungeva – che certe esperienze si facciano sulla propria pelle, anche nell’incertezza e nelle cadute”.
Certo, in tempi di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, di ferree logiche di mercato, di culto dell’immagine, di spettacolarizzazione, a volte cinica, della vita e della stessa morte, forse non siamo più abituati a sentire parole come queste.
Eppure è in queste parole la chiave di lettura di tutta la sua vita e di tutta la sua opera.
Io, pur frequentandolo a volte meno spesso per i casi della vita, ebbi comunque la fortuna di seguire puntualmente in quegli anni il suo itinerario pittorico, lo svolgimento dei suoi nuovi cicli figurativi, dagli inventari alle ricomposizioni, negli anni Settanta, di elementi tecnologici e di frammenti di realtà, che avevano perduto la loro identità e che, al di là della persistente felicità del colore e della indiscutibile certezza del segno, riducendosi alla loro stessa oggettività, insinuavano un sentimento di sottile angoscia, fino a certe soluzioni formali, fino a certi risultati artistici che sembravano andare al di là della stessa pittura; e, dopo queste “prove”, in verità di breve durata, dopo questo nuovo approdo della sua attività creativa, tornato egli improvvisamente all’antico, ai bellissimi acquerelli della fine di quel decennio.
Riprendemmo a frequentarci più assiduamente dai primi anni Ottanta, quando lo coinvolsi in alcuni miei progetti editoriali (invitandolo, tra l’altro, prima a illustrare un mio nuovo libro di versi e poi a disegnare le copertine di “SINGOLARE/PLURALE”, il periodico di critica e costume che, avvalendosi di collaborazioni qualificate, riuscii a far durare per 13 anni, fino al 1991).
Ivo intanto aveva cambiato studio. Si era trasferito infatti in Via Perrone Capano, e qui nei pressi della sua nuova abitazione, aveva affittato un piccolo e umido locale, che sembrava tuttavia “bellissimo e suggestivo” ai suoi visitatori, perché vi si accedeva “per un corridoio di vegetazione superando viottoli e cancelli”.
Fu in questo studio che continuò il nostro dialogo, tuttavia sempre più ricco di pause e di silenzi, e che si consolidò la nostra amicizia, anche perché dell’originario gruppo di amici dei primi anni Sessanta, Ivo ed io eravamo gli unici rimasti a Trani.
E fu così che a me toccò non dico fargli da mèntore, chè i suoi progetti egli bene li definiva e bene aveva chiari, ma un po’ da cassa di risonanza, spentisi anche progressivamente sui giornali o altrove gli echi delle sue più rare “personali” e partecipazioni a quei sodalizi occasionali per qualche mostra.
Ad esempio, infatti, era stata del tutto ignorata la mostra personale che, dopo tante nostre pressioni e con non poca fatica riuscì ad organizzare nella galleria “La nuova Papessa” a Roma, nell’ottobre del 1981.
Così come quasi ignorate - nonostante lo straordinario successo di pubblico e al di là di alcuni efficacissimi servizi giornalisti, come quello di Antonio Rossano su RAI 3 e un articolo di Michele Campione sul “Corriere del Giorno” di Taranto - furono le ultime due bellissime personali da lui messe su nel settembre del 1994 al Museo diocesano di Trani e nel marzo del 1995 nella galleria “Arte Spazio” di Bari.
Pagava, purtroppo, il prezzo del suo isolamento, del suo amore per la libertà, del suo rigore morale.
E ne provò amarezza, certamente, ma ne ricevette anche nuovo stimolo per la sua pittura, che si fece ancora più grande, e per la sua riflessione ininterrotta sulla vita strozzata, sulla morte, sulla dimensione ontologica di essa, ché tale infatti è venuta, penso definitivamente, chiarendosi la sua ricerca.
Ripenso ai suoi nodi dei primi anni Ottanta, a quei fagotti che per Ivo potevano contenere di tutto, ma che ormai mi danno soltanto l’idea di freddi sudari.
E poi alle grandi tele della “Zattera della Medusa”, l’importante mostra itinerante del 1984 che, organizzata insieme a Luigi Guerricchio Beppe Labianca e Leo Morelli, rivisitava in chiave moderna il famoso quadro di Theodore Gericault; ripenso al “Naufragio in una stanza” che faceva parte di quel ciclo e, al di là delle allusioni autobiografiche che vi si possono cogliere, mi balza più evidente agli occhi il carattere metastorico della tragedia che vi è raffigurata.
E così, certamente ispirata da quelle per le quali si accedeva al suo studio di pittore, rileggo le sue vegetazioni, che faticosamente si fanno spazio tra strutture e lamiere, come segnali dell’eterno conflitto tra la vita e la morte.
E ancora i suoi dipinti sul mare, il simbolo della madre e della vita, inquietanti nella loro freddezza metallica.
O - tema centrale della sua ultima produzione pittorica - le visite ai monumenti, le ricognizioni sulle sculture medievali, che nella loro bellezza formale e nella loro ricchissima simbologia da sempre lo avevano affascinato fino a imprimersi definitivamente nella sua memoria e, ponendosi - per lui - come punto di riferimento esclusivo di altre bellezze, a divenire il luogo dove la storia si annulla, e il presente e il passato si fanno un tutt’uno di mostruosità e di stupore.
Ora, e mi avvio alla conclusione, non è questa la sede per discutere alcune opinioni che, dopo la morte di Ivo, sono state espresse su di lui (come quella, ad esempio, sulla sua incapacità di adattarsi al nuovo); né mi sembra questa la sede per esprimere le proprie preferenze per questa o per quell’altra sua stagione pittorica.
Questo è il compito del critico, o meglio del critico militante, perché lo storico, invece, il biografo, così come ho cercato di fare anche nel mio libro, queste stagioni alla storia dell’arte le consegna tutte.
Semmai, mi sembra opportuno dire che se bene hanno fatto “I Dialoghi di Trani”, nell’ottica di una politica culturale tesa al recupero della nostra memoria storica e alla valorizzazione delle nostre più qualificate risorse artistiche, a dedicare, nel decimo anniversario della sua morte, questo spazio a Ivo Scaringi, altrettanto bene oggi farebbero le istituzioni a impegnarsi a realizzare finalmente ciò che promisero dieci anni fa, e quindi, a progettare non solo l’organizzazione di un premio di pittura a lui dedicato, ma, partendo da un primo nucleo di una sessantina di tele (che la famiglia, rimasta fedele custode della sua opera, sarebbe disposta a donare), anche l’allestimento di una mostra permanente, organica ed approfondita, da collocare, s’intende, nella sede più idonea e che restituisca, anche in concretezza visiva, le dimensioni del personaggio e, con lui, una pagina certamente importante della storia dell’arte contemporanea in Puglia.
Domenico di Palo
Oggi, acquietatasi quella emozione, come accade per le cose degli uomini, ma non spentosi il rammarico per la sua prematura scomparsa (perché ancora tanto egli poteva dare all’arte, ai suoi cari e agli amici), sono sempre convinto che, parlando di Ivo, si debba partire dal forte impatto che quella sua prima mostra alla “Vernice” di Bari ebbe sui suoi numerosi visitatori.
Nello stanco panorama dell’arte pugliese del tempo, infatti, quella per intenderci delle figurazioni manierate degli ulivi, dei trulli, delle case imbiancate di calce e dei paesaggi a terrazze della Murgia, quella mostra segnò, decisamente, un punto di rottura, nell’innovare nella tradizione la pittura della nostra regione…
Le facce rugose di vecchie terribili come megere, dipinte infatti nelle sue tele; i lineamenti esasperati di donne tarantolate, o in preda a pratiche esorcistiche o al travaglio del parto; quei braccianti induriti come la pietra e quindi ormai insensibili al dolore e alla fatica; le masse materiche di usci tutti a croste o slabbrati come quelli di certi nostri vecchi terrazzi e sottani; e poi i letti disfatti situati in interni poveri e dai muri sporcati dal tempo e dall’incuria; e le fucilazioni, con quei corpi che caduti per terra si riducevano a poveri stracci abbandonati; e ancora certi visi stravolti, dipinti di scorcio, di tre quarti, in primo piano; quelle tele insomma, raffiguranti sì il segno di una polemica sociale ma anche il sentimento acuto dello squallore, della disperazione e della morte, erano di certo ben altra cosa dell’oleografisno, del figurativismo “grazioso” e di evasione e dello spento naturalismo di tanta tradizione pittorica nostrana.
Ecco perché allora ebbi la sensazione di essere testimone di un evento storico della pittura pugliese, una sensazione che certamente condivise anche Pietro Marino, all’epoca ritenuto un’autorità nella critica d’arte in Puglia, Pietro Marino che, scrivendone sul suo giornale, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, salutava in Ivo Scaringi “il più sicuro e maturo rappre-sentante della nuova generazione di artisti pugliesi” e, non potendo negare la forza della sua voce, per essa credeva doveroso “compromettersi”. Pur non accettandone - aggiungeva poi, forse con eccessiva prudenza - pur non accettandone “il punto di partenza, la matrice ideologica”.
E a quale punto di partenza, a quale matrice ideologica egli si riferisse era ben chiaro a tutti.
I primi Anni Sessanta, a Trani, eccoci infatti, un gruppo di giovani amici (i giacobini, ci chiamò Franz Brunetti) decisamente animati da una voglia sacrosanta di cambiare il mondo, ed eccoci quindi impegnati a reagire alle chiusure retrive, alle censure e alla messa al bando di quelle iniziative culturali che cercavamo di promuovere nel grigiore della vita cittadina. Come il Circolo del Cinema, ad esempio, il primo ad essere fondato a Trani, o come “Il Canocchiale”, il periodico cittadino, nel quale aveva trovato espressione, si disse, “una componente di sinistra, libertaria e innovatrice rispetto alla pesantezza del PCI pugliese”.
Ed ecco, paralleli a queste esperienze, i nostri “corti viaggi sentimentali” in Lucania, sulle orme di Rocco Scotellaro, “il poeta della libertà contadina”, “l’intellettuale nuovo” che nel clima pesante del dopoguerra, sulla base di un’esperienza reale, fu portato dagli avvenimenti a impegnarsi fino in fondo nella lotta politica e a pagare amaramente il prezzo della sua scelta.
Quanto a Bari, eccoci, nello studio bohémien di Tony Prayer, insieme ad altri giovani pittori, a parlare tutti ad alta voce, della Puglia, dell’arte, della sua funzione. E a leggere persino le lettere di Siqueiros, e ad esse mescolare, alla rinfusa, i nomi di Picasso, di Gaetano Salvemini, di Tommaso Fiore e di una Spagna senza Franco.
Eccoci insomma animati da quella passione che avremmo riscoperto, di lì a qualche mese, nella galleria del “Sagittario” di Giacomo Cinquepalmi, con gli amici di “Nuova Puglia”; nel tentativo di “fare gruppo”, di uscire finalmente dall’individualismo atavico del Mezzogiorno d’Italia, nel tracciare le linee di un progetto artistico che fosse nutrito di istanze morali e sociali, e che - seguendo l’esempio del molfettese Salvatore Salvemini e di Ginetto Guerricchio, il pittore materano da pochi anni disceso in Puglia fresco di studi e di successi conseguiti al nord - rivolgesse il colorismo plastico di Francesco Spizzico, di Vito Stifano e di Roberto De Robertis (gli antichi maestri di Ivo all’Istituto d’Arte di Bari e protagonisti di un timido rinnovamento negli anni Trenta-Cinquanta) in direzione di un neoespressionismo nervoso e impetuoso. Disfacendo colori e piani, e assumendo come referente la crisi della civiltà contadina nel Sud, e l’emergere delle contraddizioni della nuova cultura urbana.
Vivevamo, insomma, il nostro ’68, anticipato nel tempo, è vero, ma per ciò più eroico e, chissà, forse più autentico.
Anche Ivo, dunque, faceva parte del gruppo. Ma un po’ defilato, quasi nell’ombra, attento solo ad ascoltare. Al punto che a volte a tutti noi, neofiti entusiasti, sembrava eccessivo il suo silenzio, e incomprensibile la sua riservatezza, alla quale finiva col sacrificare anche la cura della propria immagine.
Ma Ivo invece, a differenza di noi, non si sentiva un neofita, e all’impegno politico nei partiti (l’impegno che in quegli anni cominciavamo a vivere), anche per una sorta di consuetudine familiare, sapeva guardare con la superiore saggezza di chi ha già lunga esperienza delle cose del mondo.
Né si era mai definito un “militante”.
Né, d’altra parte, ci era ancora del tutto chiaro che lui, naturalmente di poche parole, consumava nella pittura l’ormai acquisita consapevolezza della condizione umana, esauriva in essa il suo (così poi fu scritto) “urlo biologico”, che la sua arte, insomma, e il suo modo di essere già andavano oltre la polemica sociale, oltre la storia, per farsi, in rigorosa solitudine, segno immutabile, una lucida e disperata testimonianza della tragedia del vivere, e del morire.
Questo e non altro, allora, era Ivo Scaringi, con buona pace di noi impetuosi “giacobini”, che quindi sbagliavamo a pretendere da lui ciò che egli non poteva darci.
Abitava allora, a Trani, nella casa paterna di Via Sasso 32, nel quartiere di San Michele. Quella con le ghirlande di pomodori rossi messi ad essiccare alle pareti dell’androne, con una scala buia e stretta che sbucava in un terrazzino pieno di calchi di gesso e di statuine cimiteriali (opera di suo padre, lo scultore Nicola Scaringi); due vecchie poltrone di vimini; e poi un piccolo locale col tetto spiovente e trasformato nello studio del pittore, in mezzo al quale, tra decine di tele appoggiate al muro, barattoli di latta, tubetti di colore allineati con cura, una cartella zeppa di disegni su una sedia impagliata, un fiasco vuoto, panni vari aggomitolati in modi diversi, attrezzi da giardino, arnesi arrugginiti, troneggiava una grossa ciotola di latta, una sputacchiera trasformata in portacenere e colma di cicche e mozziconi vari.
Ivo se ne stava seduto vicino al cavalletto, come sempre ricurvo sulle spalle, la mezza sigaretta tra le labbra e con la coppola calata sul capo. E se ne stava lì ad ascoltare, in silenzio, i miei discorsi torrenziali sui massimi sistemi, mentre lui, tra mille ripensamenti, squadrava la tela, vi tracciava segni, vi spandeva colori su colori, facendo quindi emergere, lentamente, ma come per incanto, quella che lui definiva la struttura materica del quadro, la sua ossatura, che, per la consapevolezza che egli aveva del mestiere di pittore, una consapevolezza da lui acquisita da ragazzo nella bottega paterna, mai dunque si riduceva ad una semplice pellicola, ad una semplice superficie colorata.
“Sono un pittore all’antica - amava spesso definirsi - Credo al mestiere del pittore, alla pittura costruita: quella che, battendo sulla tela, ti risponde”.
E così, quando avevo esaurito le mie divagazioni, eccolo Ivo, quasi ad allontanare da sé un’eventuale taccia di musone, che mai avrebbe tollerato, eccolo dare sfogo a tutto il suo sottile umorismo, venato di garbata ironia, ed alludere al pittore di comune conoscenza che si faceva quotare sul “Bolaffi” a pagamento e che sborsava periodicamente somme cospicue al critico di turno per una compiacente segnalazione sul suo giornale; al politicante chiacchierato che faceva spudoratamente professione di onestà amministrativa; o al visitatore con la puzza sotto il naso che, aggirandosi nel suo studio a scartabellare una tela dopo l’altra, gli chiedeva di tanto in tanto: “Ma questa che significa?”.
“Uh!... Madonna. Ci resto male - diceva Ivo rifacendo, con arguzia, il verso al nostro severo e sprovveduto inquisitore - Ci resto male quando mi chiedono cosa vogliono dire i miei quadri”.
Finché, inevitabilmente, mi riconduceva sul suo terreno preferito, e si parlava di mestica, di disegno, di colori, come per rammentarmi che quello soltanto era, dopo tutto, il suo linguaggio e che desiderava farsi capire solo attraverso i suoi quadri.
E intanto il suo prestigio si consolidava nella regione e fuori di essa. I riconoscimenti autorevoli (tra cui quelli di Vito Carofiglio, Pietro De Giosa, Anna D’Elia, Camillo Langone, Maria Marcone, Filiberto Menna, Dario Micacchi, Duilio Morosini, Giancarlo Pandini, Enzo Panareo, Michele Prisco, Paolo Ricci, Franco Sossi, Marcello Venturoli, Luciana Zingarelli, e soprattutto di Vittore Fiore e di Elio Mercuri, autori nel 1970 di due saggi a mio avviso fondamentali sulla sua arte), si facevano numerosi).
E pure nella fine ingloriosa di “Nuova Puglia”, nel 1966, e di “Immaginazione e Realtà”, nel 1971, una fine che avevano contribuito ad affrettare non solo l’ostilità dell’ambiente (stretto fra ostinate resistenze conservatrici e l’autorevolezza da poco conquistata dai De Robertis, dagli Spizzico e dagli Stifano), ma anche - perché no - l’esaurimento dell’uso strumentale che di queste esperienze alcuni partiti politici si erano illusi di poter fare; nonostante la vita breve di queste esperienze di gruppo - dicevo - restava incorrotta la fama di “maestro” di Ivo Scaringi che, ormai, anche pittori già affermati ritenevano “il migliore di tutti”, come Guerricchio, ad esempio, quando apertamente confessava che alcuni dei quadri di Ivo avrebbe voluto saperli dipingere anche lui.
Indiscusso protagonista della pittura pugliese di quegli anni, sembrava, insomma, che non ci fossero più ostacoli per affermare definitivamente la sua “immagine” o per prendere, come si dice, il volo per traguardi più ambiziosi.
E, in verità, non gli mancavano le occasioni.
A metà degli anni Sessanta, per esempio, un noto gallerista di Bari gli fece una proposta che qualunque pittore al mondo avrebbe considerato vantaggiosissima.
Quel gallerista si disse disposto a versargli mensilmente qualsiasi cifra, in cambio di una periodica e puntuale consegna di un certo numero di quadri.
Ma Ivo rispose di no.
“Mettersi in mano ad un mercante d’arte significa dipingere quello che vuole il pubblico” disse in un intervista.
E ancora, qualche anno dopo, parlando di sé nel corso di una delle sue ultime mostre: “Non ho l’assillo del mercato, non ho scadenze da rispettare. Sono un pittore libero, li-be-ro!” dichiarò orgogliosamente.
Fu così che cominciò a definirsi il suo ruolo di artista libero e solitario.
E fu così che cominciò a costruirsi la leggenda del pittore dal talento indiscusso ma in volontario esilio in provincia, una leggenda della quale Ivo finì in verità anche col compiacersi se di tanto in tanto, con un po’ di civetteria e con evidente orgoglio, rammentava quanto su di lui aveva scritto ancora Pietro Marino nel 1965.
“Ivo Scaringi - aveva scritto il critico barese – poteva diventare il cocco dei buoni borghesi che comprano quadri per il salotto. Ne aveva tutti i requisiti: il senso sicuro del colore aggressivo e squillante, come le gam-me dei rossi che infondono allegria o eccitano; il segno scattante, di una eleganza capace di dar senza pericolo i brividi della modernità; la perizia grafica. Poteva persino qualificarsi, il giovane pittore tranese, come un interessante portatore di neocaravaggismo: mettendo d’accordo - come s’è visto, in certi momenti della sua ancor breve carriera - drammaticità neorealista e un revival di monumentalismo barocco napoletano. L’istanza meridionalista - che nutre con lontane radici umanistiche la cultura pugliese - sarebbe rimasta appagata del tributo resole con soggetti popolareschi, interni di dimore contadine, volti operai del boom industriale. Temi, anche questi, affrontati da Ivo Scaringi con aggressiva sofferenza. Ma Scaringi ha smantellato il suo facile destino, man mano che meditava sulla realtà complessa e contraddittoria del nostro tempo. E la sua pittura tende sempre più a rifletterne le interne tensioni e lacerazioni, ad assumere i segni idonei a significare la condizione alienata dell’uomo…”.
Ecco perché non servivano a nulla le sollecitazioni di amici ed estimatori a curare di più, come si dice, la sua immagine, e quindi a impegnarsi in direzione di una sua più diffusa e radicata popolarità.
Così, diviso tra l’insegnamento nella scuola media (dal 1969 si era fatto trasferire dall’Istituto d’arte di Bari, dove, per meriti artistici - cosa davvero d’altri tempi - nel 1960 era stato assunto come docente di discipline artistiche), un tranquillo ménage familiare e la frequentazione di pochi e sinceri amici, continuava la sua paziente e faticosa ricerca, ma in piena libertà e solitudine.
“La libertà – gli piaceva ripetere – non te la regala nessuno. Per questo è preferibile – aggiungeva – che certe esperienze si facciano sulla propria pelle, anche nell’incertezza e nelle cadute”.
Certo, in tempi di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, di ferree logiche di mercato, di culto dell’immagine, di spettacolarizzazione, a volte cinica, della vita e della stessa morte, forse non siamo più abituati a sentire parole come queste.
Eppure è in queste parole la chiave di lettura di tutta la sua vita e di tutta la sua opera.
Io, pur frequentandolo a volte meno spesso per i casi della vita, ebbi comunque la fortuna di seguire puntualmente in quegli anni il suo itinerario pittorico, lo svolgimento dei suoi nuovi cicli figurativi, dagli inventari alle ricomposizioni, negli anni Settanta, di elementi tecnologici e di frammenti di realtà, che avevano perduto la loro identità e che, al di là della persistente felicità del colore e della indiscutibile certezza del segno, riducendosi alla loro stessa oggettività, insinuavano un sentimento di sottile angoscia, fino a certe soluzioni formali, fino a certi risultati artistici che sembravano andare al di là della stessa pittura; e, dopo queste “prove”, in verità di breve durata, dopo questo nuovo approdo della sua attività creativa, tornato egli improvvisamente all’antico, ai bellissimi acquerelli della fine di quel decennio.
Riprendemmo a frequentarci più assiduamente dai primi anni Ottanta, quando lo coinvolsi in alcuni miei progetti editoriali (invitandolo, tra l’altro, prima a illustrare un mio nuovo libro di versi e poi a disegnare le copertine di “SINGOLARE/PLURALE”, il periodico di critica e costume che, avvalendosi di collaborazioni qualificate, riuscii a far durare per 13 anni, fino al 1991).
Ivo intanto aveva cambiato studio. Si era trasferito infatti in Via Perrone Capano, e qui nei pressi della sua nuova abitazione, aveva affittato un piccolo e umido locale, che sembrava tuttavia “bellissimo e suggestivo” ai suoi visitatori, perché vi si accedeva “per un corridoio di vegetazione superando viottoli e cancelli”.
Fu in questo studio che continuò il nostro dialogo, tuttavia sempre più ricco di pause e di silenzi, e che si consolidò la nostra amicizia, anche perché dell’originario gruppo di amici dei primi anni Sessanta, Ivo ed io eravamo gli unici rimasti a Trani.
E fu così che a me toccò non dico fargli da mèntore, chè i suoi progetti egli bene li definiva e bene aveva chiari, ma un po’ da cassa di risonanza, spentisi anche progressivamente sui giornali o altrove gli echi delle sue più rare “personali” e partecipazioni a quei sodalizi occasionali per qualche mostra.
Ad esempio, infatti, era stata del tutto ignorata la mostra personale che, dopo tante nostre pressioni e con non poca fatica riuscì ad organizzare nella galleria “La nuova Papessa” a Roma, nell’ottobre del 1981.
Così come quasi ignorate - nonostante lo straordinario successo di pubblico e al di là di alcuni efficacissimi servizi giornalisti, come quello di Antonio Rossano su RAI 3 e un articolo di Michele Campione sul “Corriere del Giorno” di Taranto - furono le ultime due bellissime personali da lui messe su nel settembre del 1994 al Museo diocesano di Trani e nel marzo del 1995 nella galleria “Arte Spazio” di Bari.
Pagava, purtroppo, il prezzo del suo isolamento, del suo amore per la libertà, del suo rigore morale.
E ne provò amarezza, certamente, ma ne ricevette anche nuovo stimolo per la sua pittura, che si fece ancora più grande, e per la sua riflessione ininterrotta sulla vita strozzata, sulla morte, sulla dimensione ontologica di essa, ché tale infatti è venuta, penso definitivamente, chiarendosi la sua ricerca.
Ripenso ai suoi nodi dei primi anni Ottanta, a quei fagotti che per Ivo potevano contenere di tutto, ma che ormai mi danno soltanto l’idea di freddi sudari.
E poi alle grandi tele della “Zattera della Medusa”, l’importante mostra itinerante del 1984 che, organizzata insieme a Luigi Guerricchio Beppe Labianca e Leo Morelli, rivisitava in chiave moderna il famoso quadro di Theodore Gericault; ripenso al “Naufragio in una stanza” che faceva parte di quel ciclo e, al di là delle allusioni autobiografiche che vi si possono cogliere, mi balza più evidente agli occhi il carattere metastorico della tragedia che vi è raffigurata.
E così, certamente ispirata da quelle per le quali si accedeva al suo studio di pittore, rileggo le sue vegetazioni, che faticosamente si fanno spazio tra strutture e lamiere, come segnali dell’eterno conflitto tra la vita e la morte.
E ancora i suoi dipinti sul mare, il simbolo della madre e della vita, inquietanti nella loro freddezza metallica.
O - tema centrale della sua ultima produzione pittorica - le visite ai monumenti, le ricognizioni sulle sculture medievali, che nella loro bellezza formale e nella loro ricchissima simbologia da sempre lo avevano affascinato fino a imprimersi definitivamente nella sua memoria e, ponendosi - per lui - come punto di riferimento esclusivo di altre bellezze, a divenire il luogo dove la storia si annulla, e il presente e il passato si fanno un tutt’uno di mostruosità e di stupore.
Ora, e mi avvio alla conclusione, non è questa la sede per discutere alcune opinioni che, dopo la morte di Ivo, sono state espresse su di lui (come quella, ad esempio, sulla sua incapacità di adattarsi al nuovo); né mi sembra questa la sede per esprimere le proprie preferenze per questa o per quell’altra sua stagione pittorica.
Questo è il compito del critico, o meglio del critico militante, perché lo storico, invece, il biografo, così come ho cercato di fare anche nel mio libro, queste stagioni alla storia dell’arte le consegna tutte.
Semmai, mi sembra opportuno dire che se bene hanno fatto “I Dialoghi di Trani”, nell’ottica di una politica culturale tesa al recupero della nostra memoria storica e alla valorizzazione delle nostre più qualificate risorse artistiche, a dedicare, nel decimo anniversario della sua morte, questo spazio a Ivo Scaringi, altrettanto bene oggi farebbero le istituzioni a impegnarsi a realizzare finalmente ciò che promisero dieci anni fa, e quindi, a progettare non solo l’organizzazione di un premio di pittura a lui dedicato, ma, partendo da un primo nucleo di una sessantina di tele (che la famiglia, rimasta fedele custode della sua opera, sarebbe disposta a donare), anche l’allestimento di una mostra permanente, organica ed approfondita, da collocare, s’intende, nella sede più idonea e che restituisca, anche in concretezza visiva, le dimensioni del personaggio e, con lui, una pagina certamente importante della storia dell’arte contemporanea in Puglia.
Domenico di Palo
* Testo della conferenza tenuta il 26 settembre 2008 nell’ambito della Sezione dedicata a Ivo Scaringi dall’edizione annuale dei “Dialoghi di Trani”.
Testo bellissimo, perché oltre ad offrire un delicato ritratto morale e sentimentale del pittore, quanto mai opportuno di questi tempi,così disturbati da fatui cicaleggi, ci introduce nell'affascinante "segreto" della creazione artistica.
RispondiEliminaChe é fatta di tenace e sapiente applicazione di antiche regole artigiane,di pazienti stesure progressive, colore su colore, fino a quando, dalla "materia" così depositatasi sulla tela,emergono i volti "veri" e le vere icòne del nostro tempo. Bravo Di Palo.