I 40 ANNI DI PITTURA DI VINCENZO ROMANELLI *

Ho conosciuto Vincenzo Romanelli più di 30 anni fa, nel 1969, in occasione di una mostra da lui organizzata al Circolo Unione di Bari e per la quale mi capitò di scrivere una presentazione in catalogo.
Da allora non ci siamo più rivisti, o meglio qualche volta ci siamo salutati per strada, ma non ho saputo più nulla della sua attività di pittore e, al di là dei quadri esposti nel 1972 qui a Trani nello”Studio 188” di Michele Ladogana, non ho più avuto modo di vedere le sue opere.

Ma ecco ora, improvvisamente, questa sua retrospettiva e, con essa, ecco questa monografia che, curata dal critico d’arte Mauro Corradini, celebra ben quarant’anni di attività artistica (Mauro Corradini, “Vincenzo Romanelli – 40 anni di pittura”, Manerbio 2002).
E, ancora di più, ecco Romanelli che, come se avessimo continuato a frequentarci in tutti questi anni, in modo assolutamente informale e con un tono estremamente sommesso, com’è d’altra parte nel suo stile di uomo discreto e gentile, mi chiede di parlare del libro.

Ed io, piacevolmente sorpreso da tutte queste novità e in verità anche un po’ spiazzato dalla singolarità della sua richiesta, non sono stato capace di dirgli di no, pur rischiando di assumere un ruolo che non è certamente di mia competenza.

Vi confesso, infatti, che non mi ritengo in nessun modo un critico d’arte, ma un letterato piuttosto, che per ragioni molto contingenti qualche volta si è trovato a fare incursioni in un campo (quello artistico, appunto) non privo di insidie.
Per questo allora, per evitare ogni rischio e a scanso di equivoci, stasera mi limiterò a fare soltanto alcune considerazioni brevi e alla buona sul libro, sperando in ogni caso di non deludere le vostre aspettative.

Comincerò intanto a sottolineare due aspetti per così dire preliminari.
Il primo è relativo alla data di pubblicazione del volume e alla nota fuori testo nella quale Romanelli scrive: “Nel licenziare questa mia monografia, che illustra tanta parte della mia attività artistica, non posso non ringraziare mia moglie Etta e i mie figli Isabella, Nico e Alessandra, i quali con affetto e collaborazione hanno sostenuto il mio impegno di pittore e vinto la mia ritrosia per rendere possibile questa pubblicazione…”.

Ebbene, se queste sono, per così dire, le sue ragioni genetiche, questo libro, finito di stampare nel 2002, proprio in coincidenza dell’ottantesimo anno di età di Romanelli, è non solo il più bel regalo di compleanno che si possa fare ad un artista, ma soprattutto un grande segno di amore e di stima, uno di quei segni che davvero gratificano un’intera esistenza.
Il secondo è che, dopo aver visto la monografia, dopo aver letto la bella ed esauriente presentazione di Mauro Corradini e le (27) testimonianze critiche raccolte in appendice, dopo aver guardato le oltre novanta tavole di opere che, riassumendo appunto quaranta anni di attività artistica, corredano il libro e che in parte vengono riproposte in questa mostra, mi sono chiesto se non sia riduttivo parlare di Romanelli come di un pittore per così dire a mezzo servizio, come del resto, nei “cenni biografici” di pag. 97 e con la naturale modestia che lo contraddistingue, egli stesso sostanzialmente ama definirsi.

E riduttivo perché, sebbene condizionato da particolari vicende biografiche (tra cui persino una noiosa allergia ai colori), vicende che con l’arte non hanno nulla a che fare e che all’arte anzi si contrappongono come la notte al giorno, favorendone di conseguenza – ha ragione Corradini – una dispersione maggiore di quanto di solito accada; e al di là delle lunghe pause, Vincenzo Romanelli non ha mai tradito la sua naturale vocazione, la sua disponibilità all’arte, quella passione per la pittura dunque alla quale, nonostante tutto, egli è rimasto fedele per tutta la vita e, per lunghi periodi, ha pure coltivato in segreto.

E, anzi, non è forse per questo ancora più ammirevole di chi alla propria vocazione ha potuto dedicarsi liberamente e senza problemi?
Pertanto diamo a Romanelli il riconoscimento che gli spetta di diritto.
Egli è un pittore tout court, un pittore e basta, un artista a tutto tondo, e come ogni artista che si rispetti, con i suoi riferimenti espressivi, le sue tematiche, il suo stile, la sua poetica.

Giunge davvero a proposito allora la monografia di Mauro Corradini che, nel saggio che apre il volume, questi riferimenti, questa tematica, questo stile e questa poetica riesce a cogliere con chiarezza e acume critico.

Raggruppando per decenni le sue opere (tra le quali prevalgono, almeno fino agli anni Ottanta, i pastelli, gli acquerelli e quelle a tecnica mista), e attraverso una puntuale contestualizzazione o classificazione storica (che implica dunque una riflessione sugli eventuali rapporti con le tendenze artistiche coeve) Corradini ripercorre tutte le tappe dell’attività pittorica di Romanelli, né trascura di soffermarsi sulla sua formazione di “autodidatta anomalo”, sui lunghi anni di sforzi e tentativi, sulle “brusche frenate” che lo costringono a volte a porre in sordina la propensione e il talento espressivi”.

Ma è dagli anni Sessanta, gli anni della sua maturità pittorica, anzi dalla prima mostra del 1958 a Verona (aveva 36 anni) e dall’affermazione nella sua città natale, Brescia, con l’esposizione del 1967, che prende l’avvio la ricognizione critica di Corradini, anche perché le opere precedenti sono andate perdute o persino distrutte dall’artista.

Così eccolo individuare nel realismo neoclassico del Novecentismo (da cui l’artista assume la lezione della costruzione dell’immagine) e nelle esperienze del movimento milanese di “Corrente” (da cui deriva la libertà di gesto e di segno, largo e insistito, proprio dell’espressionismo, ma anche dell’informale) i primi significativi riferimenti culturali di Romanelli.

Eccolo collocare nei modi espressivi della “nuova figurazione”, e ancor prima nel realismo esistenziale degli anni Cinquanta la sua successiva ricerca pittorica.
Eccolo quindi cogliere in uno stile a metà strada tra felicità narrativa ed espressività della materia la sua cifra individuale, uno stile che nasce dalla volontà di affrontare i temi congeniali (il paesaggio e la natura morta) non “come un oggetto da descrivere, ma come un motivo da sviluppare”.

Eccolo poi sottolineare nelle opere degli anni Settanta (per lo più a tecnica mista) il definitivo abbandono della scenetta aneddotica e quindi un’immagine più sciolta, più sicura che tuttavia – citando da una nota critica del barlettano Aldo Carugno – non cessa di essere “apprensiva e sensibile nel suo modo di essere umana e di riconoscersi nei limiti oggettivi del mondo naturale”.

Eccolo, di fronte alla produzione più continua e organica degli anni Ottanta e Novanta (in verità non agevolmente ricostruita dal momento che Romanelli non usa datare le proprie opere), ritrovare il senso di un’esperienza espressiva ancora in evoluzione e, quindi, un sapore poetico ancora più intenso nei paesaggi e negli scorci, “colti per lo più sui toni del crepuscolo, quando la sera incombe sulle cose e l’artista sente più profondamente la poesia della natura”.

Eccolo, insomma, delineare un percorso artistico nel quale, se il paesaggio, la natura morta restano i temi dominanti, questi temi nel tempo sono filtrati da una sensibilità che, raffinandosi sempre di più, finisce col sostituire alla iniziale percezione retinica l’emozione interiore, dalla memoria alla nostalgia, dalla coscienza di un bene perduto all’incanto del suo recupero.

Fino all’acquisita consapevolezza del nostro destino nelle sue ultime opere, fino alla saggia malinconia della maturità quando, ricorrendo più frequentemente alla pittura ad olio su tela e su cartone, l’evocazione paesaggistica (dove ormai è scomparsa ogni figura umana) si fa quasi panico della natura, un’oscura angoscia di attesa fino a farsi metafora della vita e, per la vana ricerca della bellezza, dell’intera vicenda artistica.

E questo allora che fa di Romanelli non un pittore en plen air alla maniera degli impressionisti (cioè all’aria aperta, dal vero), ma un artista della memoria e della evocazione, non un pittore dello sguardo ma dell’anima, pur rischiando con questa definizione – ha ragione Luigi Salveti, che ne scrive nel 1990 – di ripetere un concetto troppo frequentato o di limitare al puro intimismo un’esperienza artistica.

Ed è questo che fa di lui, secondo un’acuta osservazione di Mario Lepore, “tendenzialmente un espressionista e un lirico”, ovvero un ossimoro incarnato, dal momento che due dimensioni contrapposte vengono poeticamente unificate. Ed è in sostanza quanto, in altre parole - perdonatemi l’autocitazione - già prefiguravo 30 anni fa, scrivendo che Romanelli “non lambicca ma costruisce il colore e… lascia libero campo ad una rappresentazione non epidermica della realtà… per cui le sue opere non sono edulcorate, non sono convenzionali se riflettono con forza l’emozione breve di un momento o conquistano la immagine rapida di paesaggi cari nella memoria, o se suggeriscono l’impressione di una grande forza emotiva inespressa”.

Certo, lontane sono le problematiche sociali ed estraneo egli rimane alle grandi avanguardie artistiche internazionali.
Ma è così che Vincenzo Romanelli ha fatto i conti con la crisi del naturalismo, alla luce di un atto di fede nella pittura e continuando ad operare dentro la tradizione.

E la sua fedeltà all’immagine, il suo rispetto della forma e del contenuto, quel suo cercare soluzioni all’interno dell’una o dell’altro, sono la riprova che ancora oggi è possibile, senza macchinose manipolazioni, esprimere le testimonianze della propria coscienza.
Quelle testimonianze che ora la bella monografia di Mauro Corradini ci restituisce con profondità di dottrina e intelligenza di analisi.
Domenico di Palo


* Per la presentazione della monografia d’arte “Vicenzo Romanelli – 40 anni di pittura” di Mauro Corradini (Manerbo 2002), tenuta in occasione del vernissage della mostra omonima a “La Maria del porto” il 21 giugno 2003. Poi pubblicato in “Il Giornale di Trani”, 11 luglio 2003.

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