Con il prof. Macchia mi sono sentito l’ultima volta per telefono esattamente un anno fa.
Era felicissimo per il nuovo prestigioso riconoscimento attribuitogli dall’Académie francaise, il Gran Premio della Francofonia.”E’ un grosso premio – mi disse giulivo – Ed è una grossa somma: centoventi milioni! Ma non so se andare a Parigi a ritirare personalmente il premio. Devo farmi operare di cateratta e alcuni amici mi hanno detto che chi soffre agli occhi e agli orecchi non deve affrontare viaggi in aereo: c’è il rischio di un’emorragia.”
“Ma no, professore – risposi celiando – Stia tranquillo. E poi le cateratte oggi si risolvono in un niente. Pensi che un mio amico, che con le cateratte ha un amical rapporto di vecchia data, non solo viaggia in aereo ma persino in torpedone e sui monopattini.”
“Ah sì?” fece ancora lui che stava allo scherzo, e condividendo il mio buon umore mi regalò altri indimenticabili minuti di felice conversazione telefonica. E tra l’altro mi disse di aver finalmente ricevuto il mio libro su Scaringi, un libro che gli avevo spedito chissà quanto tempo prima e che si era misteriosamente smarrito nei meandri delle Poste italiane.
“Sì, sì… Grazie. Ed è fatto molto bene. Bravo. Ottime le riproduzioni… Bravo di Palo. Io sempre apprezzato il suo impegno…”.
Come non sentirmi lusingato da queste parole. L’accademico dei Lincei, il saggista di fama internazionale, l’insignito della Legion d’Onore di Francia, la “Penna d’oro” della Presidenza della Repubblica Italiana, il vincitore di tanti prestigiosi premi letterari, il sublime interprete di Baudelaire e di Proust mi gratificava della sua attenzione e della sua stima: Come non sentirmi in Paradiso!…
Così, quando la mattina del 1° ottobre scorso l’amico Franz Brunetti mi ha informato per telefono della morte di Giovanni Macchia, son andato a rileggermi le lettere che egli mi aveva inviato e che io conservo gelosamente, come quella in cui, per aver pubblicato nel novembre del 1989 su “SINGOLARE/PLURALE”, un suo bellissimo articolo su Trani, mi scriveva di aver “sempre seguito il mio giornale e le mie battaglie” e che gli aveva “fatto piacere che almeno per un numero” anch’egli “fosse apparso come collaboratore”. O come quella del settembre del ’96, nella quale, dopo aver letto il mio libro su “La cultura del ‘900 a Trani” (“la nostra cultura”, aggiungeva) e quindi la “voce” a lui dedicata (che, bontà sua, giudicava “bella, lunga, esauriente”), mi scriveva di “esserne orgoglioso, come tranese”.
Ho capito allora che, al di là dei meriti che con tanta generosità egli mi aveva riconosciuto, in quelle parole io dovevo cercare un altro significato: Io gli avevo dato l’occasione di ristabilire un contatto con la sua amata città natale, quella che aveva lasciato a 11 anni, proprio come l’altro grande emigrato tranese, Nino Palumbo. Lui mi era stato grato per questo e per questo mi aveva scelto come tramite, il ponte che lo aveva riportato sulla riva luminosa della sua infanzia, nella “città meravigliosa”, nel “paese della luce”, dov’era nata la sua grande passione per il teatro e per lo spettacolo, ma dove pure viveva, fin dai empi degli Statuti Marittimi e di Carlo V, “un gran numero di personaggi togati”, e dove pertanto gli era nata l’idea della “prigione”, un tema ricorrente (dal Tasso a Pirandello) in molti dei suoi studi.
“Voi dunque mi assolverete se, abbandonata la mia città natale – aveva scritto in quel bellissimo articolo su Trani che ebbi l’onore di pubblicare sul mi giornale – dopo molti rimpianti e ricordi, io mi sia deciso a prendere un’altra strada: Avevo capito certo perché i tutori di questa terra non erano stati i poeti ma coloro che, come mio padre (presidente della Corte d’Assise) e i miei fratelli (magistrati), avevano difeso la legge. Lì dove la legge fu per tanto tempo sconosciuta e vilipesa. Ma giunto a Roma, passati molti anni, cominciai ad alimentare il mio grande vizio, che ancora mi attrae, verso una cosa splendidamente inutile: la letteratura, e questo amore per la letteratura mi allontanò ancora di più da Trani e dai confini stessi della mia patria, avviandomi verso altre contrade.: la Francia.”
Il 30 settembre, per i postumi della frattura di un femore, Giovanni Macchia è morto a Roma, e davvero, come è stato ben detto, con la sua morte la letteratura è più povera.
Ma è più povera anche la sua città natale che, pure ignorando i poeti, certamente lo ha avuto tra i figli più illustri di tutto il secolo.
Era felicissimo per il nuovo prestigioso riconoscimento attribuitogli dall’Académie francaise, il Gran Premio della Francofonia.”E’ un grosso premio – mi disse giulivo – Ed è una grossa somma: centoventi milioni! Ma non so se andare a Parigi a ritirare personalmente il premio. Devo farmi operare di cateratta e alcuni amici mi hanno detto che chi soffre agli occhi e agli orecchi non deve affrontare viaggi in aereo: c’è il rischio di un’emorragia.”
“Ma no, professore – risposi celiando – Stia tranquillo. E poi le cateratte oggi si risolvono in un niente. Pensi che un mio amico, che con le cateratte ha un amical rapporto di vecchia data, non solo viaggia in aereo ma persino in torpedone e sui monopattini.”
“Ah sì?” fece ancora lui che stava allo scherzo, e condividendo il mio buon umore mi regalò altri indimenticabili minuti di felice conversazione telefonica. E tra l’altro mi disse di aver finalmente ricevuto il mio libro su Scaringi, un libro che gli avevo spedito chissà quanto tempo prima e che si era misteriosamente smarrito nei meandri delle Poste italiane.
“Sì, sì… Grazie. Ed è fatto molto bene. Bravo. Ottime le riproduzioni… Bravo di Palo. Io sempre apprezzato il suo impegno…”.
Come non sentirmi lusingato da queste parole. L’accademico dei Lincei, il saggista di fama internazionale, l’insignito della Legion d’Onore di Francia, la “Penna d’oro” della Presidenza della Repubblica Italiana, il vincitore di tanti prestigiosi premi letterari, il sublime interprete di Baudelaire e di Proust mi gratificava della sua attenzione e della sua stima: Come non sentirmi in Paradiso!…
Così, quando la mattina del 1° ottobre scorso l’amico Franz Brunetti mi ha informato per telefono della morte di Giovanni Macchia, son andato a rileggermi le lettere che egli mi aveva inviato e che io conservo gelosamente, come quella in cui, per aver pubblicato nel novembre del 1989 su “SINGOLARE/PLURALE”, un suo bellissimo articolo su Trani, mi scriveva di aver “sempre seguito il mio giornale e le mie battaglie” e che gli aveva “fatto piacere che almeno per un numero” anch’egli “fosse apparso come collaboratore”. O come quella del settembre del ’96, nella quale, dopo aver letto il mio libro su “La cultura del ‘900 a Trani” (“la nostra cultura”, aggiungeva) e quindi la “voce” a lui dedicata (che, bontà sua, giudicava “bella, lunga, esauriente”), mi scriveva di “esserne orgoglioso, come tranese”.
Ho capito allora che, al di là dei meriti che con tanta generosità egli mi aveva riconosciuto, in quelle parole io dovevo cercare un altro significato: Io gli avevo dato l’occasione di ristabilire un contatto con la sua amata città natale, quella che aveva lasciato a 11 anni, proprio come l’altro grande emigrato tranese, Nino Palumbo. Lui mi era stato grato per questo e per questo mi aveva scelto come tramite, il ponte che lo aveva riportato sulla riva luminosa della sua infanzia, nella “città meravigliosa”, nel “paese della luce”, dov’era nata la sua grande passione per il teatro e per lo spettacolo, ma dove pure viveva, fin dai empi degli Statuti Marittimi e di Carlo V, “un gran numero di personaggi togati”, e dove pertanto gli era nata l’idea della “prigione”, un tema ricorrente (dal Tasso a Pirandello) in molti dei suoi studi.
“Voi dunque mi assolverete se, abbandonata la mia città natale – aveva scritto in quel bellissimo articolo su Trani che ebbi l’onore di pubblicare sul mi giornale – dopo molti rimpianti e ricordi, io mi sia deciso a prendere un’altra strada: Avevo capito certo perché i tutori di questa terra non erano stati i poeti ma coloro che, come mio padre (presidente della Corte d’Assise) e i miei fratelli (magistrati), avevano difeso la legge. Lì dove la legge fu per tanto tempo sconosciuta e vilipesa. Ma giunto a Roma, passati molti anni, cominciai ad alimentare il mio grande vizio, che ancora mi attrae, verso una cosa splendidamente inutile: la letteratura, e questo amore per la letteratura mi allontanò ancora di più da Trani e dai confini stessi della mia patria, avviandomi verso altre contrade.: la Francia.”
Il 30 settembre, per i postumi della frattura di un femore, Giovanni Macchia è morto a Roma, e davvero, come è stato ben detto, con la sua morte la letteratura è più povera.
Ma è più povera anche la sua città natale che, pure ignorando i poeti, certamente lo ha avuto tra i figli più illustri di tutto il secolo.
Domenico di Palo
* Pubblicato in “Corrispondenze”, Trani 4 ottobre 2001, e in “Il Giornale di Trani” del 27 ottobre del 2001.
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