Signore e, signori, buona sera e grazie a voi tutti per la vostra presenza.
Cercherò naturalmente di assolvere nel modo migliore possibile il compito che mi è stato affidato, ma prima di parlarvi di Valdemaro Vecchi permettetemi comunque di dirvi che non ho la pretesa di considerarmi uno storiografo e, se è vero che ho pubblicato anche un libro sulla cultura del ‘900 a Trani e che ho scritto alcuni articoli sul nostro grande tipografo ed editore, non presumo di fare lo storico della città.
Sono un letterato piuttosto, a cui di tanto in tanto piace fare delle incursioni nella storia locale, e a cui di tanto in tanto, per amore di Trani, piace cimentarsi in battaglie culturali che, suo malgrado, finisce spesso col perdere.
Già, le mie battaglie perdute, come quella, ad esempio, sostenuta proprio in nome di Valdemaro Vecchi sul quale stasera sono stato invitato a parlarvi, un invito perciò che certamente mi onora ma che, vi confesso, solo in parte mi ricompensa dell’amarezza che provai nel febbraio del 1984, quando, per l’ordinanza di un pretore, la Tipografia Vecchi fu sfrattata dai locali di Via Cavour, nella quale era stata fino allora ubicata, costretta a trasferirsi altrove e quindi, quasi per un insanabile precipitare di eventi, a cedere, ad un distributore librario barese, persino la titolarità.
Certo, sul piano della procedura civile, non c’era nulla da eccepire al modo con cui si concluse il contenzioso tra il nuovo proprietario dello stabile e il tipografo erede del Vecchi.
Tuttavia – e perdonatemi se parlo ancora di me – come sottolineai su “SIMGOLARE/PLURALE”, il periodico da me diretto per tredici anni, con quel provvedimento per l’alto valore storico e culturale della Tipografia, a Trani si cancellava per sempre una pagina gloriosa della sua storia.
Dissi allora, e non ho alcuna remora a ripeterlo oggi, che sbagliava il proprietario dello stabile quando destinò i locali della tipografia ad uffici della sua ditta; sbagliava il tipografo quando solo tardivamente si mostrò capace di prescindere dagli interessi della sua azienda; ma soprattutto sbagliavano le autorità competenti, le istituzioni, i partiti politici che, non accogliendo l’accorato appello da me, purtroppo in grande solitudine, ad essi rivolto dalla pagine del mio giornale (per la cronaca il Consiglio Comunale dell’epoca si limitò ad approvare un ordine del giorno in cui si facevano soltanto “auspici” perché il patrimonio culturale della tipografia non andasse disperso), non adottarono alcun provvedimento (il vincolo, ad esempio) teso a conservare alla città i locali dell’antica tipografia, con tutto quello che conteneva e che la valorizzava.
E così Trani fu privata per sempre dalla testimonianza di n momento altissimo non solo della sua storia, ma di quella dell’intero Mezzogiorno d’Italia.
Nei locali della tipografia, infatti, soprattutto nelle prime due stanze, ancora si respirava l’atmosfera pregnante di quei fermenti culturali che si ebbero nel Mezzogiorno nei primi decenni dell’Unità d’Italia.
L’arredamento, anche se malandato, era ancora quello dello studio in cui attorno al Vecchi si erano avvicendati, nella loro intensa attività di promozione culturale, le personalità intellettuali più illustri del secondo Ottocento.
In quei locali, tra la caduta del fascismo e l’avvento della democrazia, Domenico Pàstina, figura esemplare per dirittura morale e politica, era stato l’animatore di quel gruppo di ragazzi che, dopo gli anni bui del ventennio nero, finalmente avevano voluto saperne di più su Benedetto Croce e sulla storia “come pensiero e come azione”.
E in quei locali, nell’ottobre del 1943, era venuta alla luce “L’Italia del Popolo”, l’edizione meridionale de “L’Italia libera”, un giornale che segnò la ripresa della libertà di stampa in Italia e che, sequestrato per ordine del governo Badoglio, all’epoca di stanza a Brindisi dopo la sua fuga da Roma, portò conseguentemente all’assurdo arresto (revocato comunque a furor di popolo nel giro di sette giorni) dello stesso Pàstina, di Vincenzo Calace, altra luminosa figura dell’antifascismo pugliese e italiano, e dello stampatore Francesco Petrarota.
Tanto bastava a significare l’importanza storico-culturale della Tipografia Vecchi e quindi a giustificarne la conservazione.
Ma questa, purtroppo, nel febbraio del 1984 non interessò nessuno.
Il misfatto fu compiuto, la memoria storica fu cancellata e un patrimonio di grandissimo valore cominciò ingloriosamente a disperdersi.
Non per amore di polemica dico ancora oggi queste cose, ma per ricordare a me stesso, e ai giovani che mi ascoltano, che il grado di civiltà di un popolo si misura nel rispetto che esso ha per la sua memoria storica.
Guari a cancellarla, questa memoria, avremmo soltanto barbarie!
Guai a cancellarla, questa memoria, avremmo soltanto barbarie!
Ecco perché il Club Unesco di Trani e la Sezione cittadina della Società di storia patria fanno bene ad organizzare serate come questa; ecco perché, qualche anno fa, il Liceo Scientifico di Trani, intitolando la sua sede al grande tipografo-editore, ha compiuto un’opera di civiltà.
Ed ecco perché mi sembra opportuno rilanciare in questa sede quel progetto di un “Fondo Vecchi”, di cui si è parlato tempo fa, e di cui purtroppo confesso di non sapere più nulla di preciso: un fondo che non solo miri al recupero della ricca produzione editoriale della casa editrice tranese, ma contribuisca alla promozione di iniziative culturali e nazionali tese a ricordare il grande tipografo-editore, e ne sostenga i programmi e gli scopi.
Su Valdemaro Vecchi, si sa, nel 1979 pubblicò un bel libro Benedetto Ronchi, il sempre compianto direttore della nostra Biblioteca Comunale, il cui grande e inestimabile patrimonio librario egli amò, incrementò e seppe organizzare su basi più moderne e funzionali e che oggi, purtroppo, per l’incuria e la mediocrità degli uomini, mi si dice ridotto in condizioni pietose e chissà quanto ancora funzionali.
Ma tratteniamo ancora un po’ dentro di noi la indignazione per quest’altro capitolo sciagurato della storia di Trani e torniamo stasera a Valdemaro Vecchi (mi diceva l’amico Peppino Giusto che sugli innumerevoli beni perduti a Trani si potrebbero scrivere decine di libri.
Fu dunque il libro di Ronchi, dopo gli affettuoso scritti di Giovanni Bel-trani (lo studioso che, al di là del carattere erudito della sua opera, ebbe il merito di rilanciare gli studi storici a Trani) e di Nicola Pàstina (fratello di Domenico e altra no bile figura della nostra storia), fu dunque il libro di Ronchi – dicevo – a colmare una lacuna che più di tanti aveva avvertito lo stesso Pàstina, il quale, dando vita nel 1966, con l’avv. Agostino Caiati, dinamico editore di santo Spirito, ad una nuova edizione della “Rassegna Pugliese” e facendo proprio un antico desiderio di Benedetto Croce di una completa rassegna della produzione di Valdemaro Vecchi, né affidò appunto il compito a Benedetto Ronchi.
E non si può dire che tale compito non sia stato assolto con impegno, se ancora oggi, per chi voglia accostarsi al nostro tipografo-editore, la monografia di Ronchi, molto informata e corredata da un catalogo di tutte le 1076 edizioni pugliesi di Valdemaro Vecchi (ma qualcuno dice che siano ancora di più) è un importante punto di riferimento.
Chi fu allora Valdemaro Vecchi?
Nato a Borgo San Donnino (si chiamerà Fidenza dal 1927) in provincia di Parma, il 5 ottobre del 1840, da buona famiglia caduta in povertà (suo padre, il tipografo Giuseppe Vecchi, aveva con dotto na vita brillante e dispendiosa da ex benestante borghigiano), a 15 anni il giovane Vecchi lasciò la casa paterna per Milano, dove trovò lavoro presso il tipografo Guglielmini, lo stesso che stampò l’edizione del 1840 de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, e dove ben presto dalle mansioni di compositore passò a quella, ben più importante, di proto.
Nel 1859 tornò a Parma, e qui ebbe modo di praticare, con entusiasmo, l’attività di giornalista, nella quale si distinse – scrive il Croce – come scrittore chiaro, vivace e dotato di bella cultura.
Fu questa una passione che, trasmessagli dal padre, rimase sempre viva in lui, che la riprese con successo negli anni pugliesi.
Tre anni dopo fu chiamato ad Alessandria per dirigere una tipografia, e da Alessandria (dove nel 1864 aveva sposato Luisa Penna, che gli fu compagna devota per tutta la vita), cedendo ai ripetuti in viti dell’amico piemontese Giuseppe Onesti, direttore delle scuole municipali di Barletta e attratto dalla sua bravura di tipografo, nel 1864 si trasferì nella città di Eraclio.
A Barletta egli trascorse un decennio operoso e in verità non sempre sereno e, dopo la morte del suo unico figliuolo di quattro anni (Tommasino), nel 1879 venne a Trani, città allora sede di una Corte di Appello e che per la sua intensa vita giuridica e forense sembrava offrirgli la possibilità di incrementare e migliorare la sua attività editoriale.
A Trani, infatti, dopo aver scelto come socio Giuseppe Petrarota, e fino al 1906, anno della sua morte, egli con autentico spirito di pioniere, per le condizioni di estrema arretratezza della nostra terra, e quindi noncurante di più facili guadagni, svolse una intensa attività tipografica ed editoriale che subito si distinse non solo per la semplicità, la nitidezza e la correttezza della stampa (“le mie edizioni sono semplici – egli scrisse – non frasche, non fronzoli, non fregi, o il meno possibile”) e pertanto nettamente superiore a quella di tutte le altre, e in verità molto poche tipografie della regione (2 o 3 a bari, 2 assai piccole a Trani, qualcuna a Foggia e a Lecce), ma soprattutto per aver mobilitato intorno a sé le energie intellettuali più vive del tempo.
Tra esse, infatti, vi fu non solo Benedetto Croce che, dunque, prima di approdare a Laterza, con Vecchi ebbe una feconda relazione di oltre vent’anni (stampando con lui dal 1903 la “Critica”, la sua famosa rivista di storia, letteratura e filosofia e pubblicando ben 16 opere della sua monumentale attività di studioso), ma anche, tra gli altri, Giovanni Gentile, Antonio Labriola e Bertrando Spaventa, insomma i maggiori nomi della filosofia tra Ottocento e Novecento, i quali dunque – ricorda giustamente Eugenio Garin nella sua prefazione al libro di Ronchi – passarono tutti da Trani prima che da Bari.
E, proprio per la presenza di questo sodalizio, nel 1884 potè nascere la “Rassegna Pugliese”, la rivista in cui Vecchi raccolse scritti e documenti per la storia scientifica, civile e letteraria della Puglia, e alla quale egli sacrificò “buona parte del suo tempo e delle sue fatiche”.
La rivista, grazie ad un modesto prezzo di abbonamento (“il giornale, nel suo genere, più a buon mercato d’Italia”) e ad una tiratura (assolutamente eccezionale in quei tempi) di ben tremila copie, riuscì ad avere una notevole diffusione in Puglia e fuori fino al dicembre del 1913, oltre cioè la morte dello stesso editore, al quale nella direzione era subentrato intanto Giovanni Beltrani.Nei suoi venticinque anni di vita la “Rassegna Pugliese” costituì dunque “il cimento più arduo” per il Vecchi e sulle sue pagine scrissero i più bei nomi della cultura pugliese di quegli anni, come Giovanni Beltrani, Cosimo Bertacchi, Giovanni Bovio, Francesco Carabellese, Giuseppe Ceci, Raffaele Cotugno, Francesco Cutinelli, Raffaele De Cesare, Giustino Fortunato, Giacinto Francia, Armando Perotti, Cesare Ricco, Orazio Spagnoletti, e i giovanissimi Pasquale Càfaro, Tommaso Fiore, Michele Viterbo e Michele Vocino che, insieme ai molti collaboratori esterni (tra i quali lo stesso Benedetto Croce, che vi scriveva con lo pseudonimo di Gustavo Colline), s’impegnarono a fare di essa la vera rassegna della vita intellettuale della Puglia, la sede più importante del dibattito culturale del tempo.
Una caratteristica significativa di questo di battito, sempre vivo ed informato, fu la separazione tra la cultura, elemento di unione tra gli uomini, e la politica militante che divide; una separazione, come vedremo, ampiamente motivata e comunque esplicitamente programmata.
Vecchi, infatti, volle perentoriamente tale distinzione, e lo si può desumere, oltre che da una consuetudine di lavoro e da un costante e preciso indirizzo nella direzione della “Rassegna Pugliese”, anche da quanto ebbe a scrivere
Nella circolare del luglio 1883, con la quale annunciava ai pugliesi la nascita della sua rivista.
“Ogni ramo dello scibile – egli scrisse – dovrà pagare il suo tributo alla mia rassegna, dalla quale intendo soltanto escludere la così detta politica militante: perocché nessuna polemica di questo genere ha diritto di turbare il sereno cielo della scienza; e nessun pretesto voglio lasciare a quanti sono uomini d’ingegno e di cuore, perché mi neghino il loro con senso a cagione del credo politico”.
Ecco, allora, le ragioni per cui sulla “Rassegna Pugliese” vi scrivessero uomini di diversa tendenza politica e, ad esempio, n articolo di Giovanni Beltrani, conservatore e convinto monarchico, fosse affiancato ad uno di Giovanni Bovio, democratico e repubblicano.
Qualcuno forse oggi definirebbe questo comportamento “bipartisan”. Io non credo che sia la stessa cosa, anche perché alla base di tale presa di posizione c’era soprattutto la consapevolezza che “la politica, specie quella locale, poteva surriscaldare gli animi e renderli ciechi”; una consapevolezza che al vecchi, d’altra parte, derivava dall’amara esperienza personale vissuta negli anni barlettani, quando il giornale da lui fondato e diretto in quella città, “Il Circondario di Barletta” (all’epoca la Terra di Bari era divisa in tre circondari, di Bari, di Barletta e di Altamura), si vide violentemente e ripetutamente attaccato da parte degli avversari “a causa dell’insofferenza alle critiche e alla pubblica discussione e soprattutto della scarsa maturità di un ambiente sociale non aduso alla libera circolazione delle idee e al giuoco democratico”.
Tuttavia, se queste furono le ragioni che spinsero Vecchi a separare la cultura dalla politica, come non cogliere nella vita della “Rassegna Pugliese” un altro, e certamente più alto, modo di fare politica?
Come quando, ad esempio, egli rivolse ai pugliesi l’invito a non rimanere impassibili e a non tollerare ulteriormente che “dominasse sovrana ed assoluta nella così detta repubblica delle lettere una stampa, la quale, in grazia dell’alta e fedele posizione in che fortuna l’ha collocata, stima in diritto di guardare dall’alto in giù i prodotti del Mezzogiorno, quando non siano al servizio del consorzio centrale”.
Giovanni Beltrani ritenne di poter cogliere in tale appello la prima enunciazione, sia pure abbozzata, del problema del Mezzogiorno, e quindi una prima risposta a quella tesi dello squilibrio strutturale tra Nord e Sud d’Italia che il Risorgimento politico del paese – lo sappiamo tutti – non era stato capace di risolvere.
Certo, Vecchi fu sempre sensibile alle istanze sociali di progresso e di affrancamento dalla miseria e dall’ignoranza e aveva coscienza delle reali condizioni dell’Italia postunitaria.
In una conferenza tenuta nel Teatro Comunale di Trani il 20 settembre del 1895 per il XX Anniversario della Liberazione di Roma, infatti, pur riconoscendo i vantaggi che derivavano al nostro paese sul piano della rappresentatività internazionale, egli accennò alla “crisi economica gravissima” in cui versava l?Italia, al “disagio” in cui si trovavano “quasi tutte le classi sociali” e soprattutto alla “misera condizione dell’operaio”: si tratta di una “verità ineluttabile e dolorosissima”, disse tra l’altro.
Non è dunque così azzardato fare di lui anche un precursore delle battaglie meridionalistiche.
E, d’altra parte, come negare che la sua scelta di operare al sud, e con-tinuare ad operarvi nonostante le condizioni di estrema arretratezza riscontrate, la scelta di valorizzare le energie intellettuali più vive, pubblicandone le opere (“Né mi limitai ad offrire alla gioventù studiosa delle Puglie le colonne della “Rassegna” – per la quale tutti gli ingegni pugliesi si mossero da lungo letargo – ma apprestai ad essa anche la mia opera di editore, stampando a mio totale rischio parecchi volumi” – egli scrisse in proposito), fu anche una scelta “politica”, nel senso più nobile della parola, naturalmente?
E dei risultati ampiamente positivi di questa scelta gli diede sinceramente atto il deputato, giornalista e storico di origine pugliese Raffaele De Cesare quando, rammaricandosi con lui per la sua mancata partecipazione ala Esposizione generale di Torino del 1884 (alla Mostra torinese il Vecchi partecipò soltanto nella seconda edizione del 1898, vincendovi la medaglia d’argento), così gli scriveva tra l’altro: “Io le devo molti ringraziamenti, ed ella ed i lettori ne intendono la ragione; li devo a lei, che, non pugliese, sostiene ogni legittimo interesse della Puglia, e lo fa con sacrifizi proprii, certo non lievi, con quel garbo modesto, ch’è di pochi, e con quella fede intera e sicura, senza la quale non si compie nulla di serio, di fecondo, di durevole”. E aggiungeva: “… Non mi è ancora riuscito, caro signor Vecchi, di discorrere del gran bene morale e intellettuale, che ella vi fa (in Puglia): principalissimo l’aver fondato un’effemeride, che indubbiamente per serietà di contenuto, per eleganza e proprietà tipografica, potrebbe competere con le buone riviste straniere: All’infuori della “Nuova Antologia”, ch’è essenzialmente italiana, non vi è oggi in Italia un regione, che abbia come la Puglia una rassegna sua propria, scritta quasi interamente da pugliesi, e campo aperto ai giovani, ed a quanti in questa opera di morale riedificazione vogliono correre con l’opera del loro ingegno: Il merito n’è tutto di lei, non pugliese, ed io sono lieto di attestarlo, e di prometterle che in una Mostra, alla quale, vincendo la sua indomabile ritrosia, concorresse con la “Rassegna” e le altre sue belle edizioni, io, se avessi la fortuna di essere Giurato di questa Mostra – nazionale o interregionale che sia – spenderei tutta la mia opera perché a lei, grande benemerito della Puglia, fosse assegnato un premio eccezionale…”.
Ma andiamo avanti.
Alla “Rassegna Pugliese” si affiancarono ben presto altre riviste, come “Napoli nobilissima”, rivista di topografia ed arte napoletana, tesa ad esaltare il patrimonio storico-artistico della città partenopea e del Mezzogiorno in generale; l’”Archivio storico pugliese”, organo della Società di studi storici della Puglia, che pubblicava i risultati delle ricerche della Società di studi storici per la Puglia; la rivista mensile dedicata ai nuovi ideali nell’arte, nella scienza, nella vita “La Nuova Parola”; ed infine alcuni periodici a carattere strettamente giuridico, tra cui la famosissima “Rivista di Giureprudenza” che, uscita dal 1976 al 1914, fu diretta dall’avvocato e parlamentare Giuseppe Alberto Pugliese.
Se a queste riviste si aggiungono poi le mille e più pubblicazioni stampate o pubblicate dal coraggioso editore (tra cui la monumentale opera in tre grandi volumi in folio “La Terra di Bari sotto l’aspetto storico, economico e naturale”, i volumi dei “Codici Diplomatici” e dei “Do-cumenti e monografie” della Commissione provinciale di archeologia e storia della stessa provincia, e le collane “Biblioteca napoletana di storia e letteratura” e “Studi di letteratura, storia e filosofia”, curate da Benedetto Croce), e si ricordano i nomi dei relativi autori, si comprende come l’operazione editoriale e culturale di cui fu protagonista Valdemaro Vecchi non solo interessò i giuristi, gli storici e i letterati, ma registrò i temi essenziali di un dibattito dalle prospettive e dai confini più ampi: dalla grande fortuna del pensiero di Bertrando Spaventa (critico, com’è noto, verso lo spiritualismo cattolico) nella cultura meridionale, alla riproposizione del suo pensiero e dell’hegelismo tout court da parte di Giovanni Gentile; dalla diffusione del pensiero socialista, attraverso la mediazione di Antonio Labriola, alla critica attenzione di Benedetto Croce ai suoi scritti filosofici e politici.
Non sembra comunque difficile, scorrendo le pagine del “Catalogo Vecchi” ricostruito da Benedetto Ronchi, isolare un numero rilevante di monografie che rinviano tutte alla cultura positivistica di fine Ottocento. Per esempio le numerose pubblicazioni sul comportamento delinquenziale, che risentono fortemente delle teorie di Cesare Lombroso, il fondatore dell’antropologia criminale, e alla condizione femminile; il contributo offerto alla “questione pedagogica” ed alla formazione dei docenti della scuola postunitaria, e i primi tentativi di interpretazione sociologica della realtà italiana e meridionale.
Non è forse un caso – sottolineò il prof. Pietro Sisto in una recensione al libro di Ronchi – che la produzione editoriale del Vecchi sembra proprio incontrare nei primi anni del Novecento delle notevoli difficoltà: quando l’8 febbraio del 1906 (e non il giorno 9, com’è inciso sulla targa di Via Cavour e ripetuto in tanti scritti) Valdemaro Vecchi, per un forte attacco di angina pectoris (tragica conseguenza dell’enorme fatica cui si era sottoposto) moriva in estrema povertà (anche per essersi egli sobbarcato alle spese di altre due tipografie che intanto aveva aperto a Giovinazzo e San Severo e che ben presto si rivelarono finanziariamente disastrose), le condizioni sociali, economiche e politiche che erano state alla base di quella cultura positivista e degli ideali risorgimentali erano ormai profondamente mutate, e profondamente mutata, per l’affermarsi di posizioni antipositivistiche sul terreno storico-filosofico e antinaturalistiche su quello artistico, era di conseguenza la cultura dominante.
In questa “nuova” realtà, invece, riusciva a trovare un suo spazio una famiglia di ex falegnami di Putignano, i Laterza, che, dopo aver imparato il mestiere da Vecchi, ebbero la capacità (eliminando da un lato la componente più provinciale del positivismo e consolidando dall’altro il legamo con quella cultura crociana, più aperta ed “europea”, che era ormai in grado di assicurare un mercato al libro) di fondare su “basi nuove” e, come poi si è visto, certamente più durature (visto che di recente si è festeggiato il suo centenario) la casa editrice barese.
Che poi le scelte della casa editrice barese finissero per danneggiare gli autori meridionali, relegati (tranne alcuni casi) al ruolo di autori di serie B a vantaggio di quelli del nord, è un altro discorso, certamente non liquidabile in due battute e quindi da fare in altra occasione.
Perché qui, avviandomi alla conclusione, mi limito a dire che proprio queste scelte (e al di là degli effetti generalmente positivi che esse sortirono) oggi mi fanno apprezzare ancora di più la “meridionalità” di Valdemaro Vecchi, la sua grande passione civile, l’onestà e l’impegno disinteressato così generosamente profuso nel suo lavoro, quella meridionalità, quella passione civile e quell’impegno che, d’altra parte, lo spinsero a creare nella nostra città il primo centro di cultura della terra pugliese e la prima tipografia dell’Italia moderna.
Possiamo affermarlo a chiare lettere noi oggi, ma ne aveva chiara coscienza anch’egli all’epoca.
Nel 1898, in una memoria autobiografica molto cara al Croce, scritta per l’Esposizione generale di Torino e pubblicata col titolo “Trent’anni di lavoro in Puglia”, parlando di sé con la consueta umiltà e modestia, ma comunque consapevole degli ostacoli superati, così egli disse infatti: “Io comprendo benissimo che i miei lavori sono delle cose modeste in confronto di quelli che si fanno in tante altre tipografie dell’alta Italia, ove l’arte tipografica ha raggiunto il massimo splendore. Ma i miei lavori, fatti in Puglia, ove l’arte tipografica trent’anni fa era nello stato più miserando che si possa mai concepire (l’arte tipografica era ridicolmente esercitata e produceva stampati insigni per grossolanità e cattivo gusto e infiorati di quasi incredibili errori), segnano indubbiamente un progresso, che senza una ferrea volontà, un lungo lavoro, un grande amore per l’arte, e una abnegazione a tutta prova, era vano sperare di raggiungere in questa regione. Io l’ho raggiunto, e quel che più conta, con mezzi tanto esigui, da far sorridere chiunque sia abituato a nuotare nell’abbondanza del materiale, a disporre in ogni occorrenza delle migliori fonderie e delle più celebri officine meccaniche, ad avere a’ propri ordini bravi e provetti operai, cui la scuola continua dei maestri rende più facile e abituale la tecnica tipografica. I miei mezzi invece furono sempre molto limitati, e quindi il lavoro ottenuto con tali mezzi ha un valore di gran lunga maggiore di quello ottenuto con un corredo di caratteri esteso, svariato, sempre nuovo e con macchine portate alla perfezione”.
Questo, allora, scrisse Vecchi di suo pugno, in un volumetto ormai introvabile (è sparito anche dalla nostra Biblioteca Comunale) e che pertanto mi piacer ebbe veder ripubblicato, anche perché estremamente il-luminante, più di ogni altra mediazione, la personalità e l’opera del grande tipografo-editore.
E furono parole che trovarono un’immediata corrispondenza in tutti i necrologi scritti all’indomani della sua morte, e tra i quali mi piace ricordare quello, apparso su “La Critica” il 12 febbraio del 1906, scritto da Benedetto Croce, il suo più grande sodale e il suo più grande autore, e quello, a firma di Arnaldo Cervasato, su “La Nuova Parola” dello stesso anno.
“Chi come me – scrisse tra l’altro il Croce – è stato per oltre venti anni col povero Vecchi in relazioni ininterrotte e quasi giornaliere, e ha potuto sperimentare a lungo l’onestà, la buona fede, la rigida osservanza negli impegni, la bontà e ingenuità dell’animo, la vivezza della mente, sente di aver perduto in lui un cooperatore prezioso e un amico saldissimo, e non sa rassegnarsi al pensiero della sua sparizione…”. E aggiungeva il Croce: “Quali fossero le condizioni della Puglia or sono trentotto anni, quali sforzi dovesse compiere ed ostacoli superare il Vecchi, col suo ideale altissimo dell’arte tipografica in paesi nei quali la tipografia era ridicolmente esercitata e produceva stampati insigni per grossolanità e cattivo gusto e infiorati di quasi incredibili errori, narrò egli stesso… Il Vecchi (natu-ralmente con la semplicità, la nitidezza e la correttezza delle sue edizioni) portava in quei paesi di barbarie tipografia gli ideali estetici di Gaspare Bàrbera…”.
E su “La Nuova Parola”, al grande filosofo di Pescasseroli così faceva eco il Cervasato, che di quel periodico era anche direttore e proprietario.
“Con qualunque criterio egli vi fosse giunto, sta di fatto che il Vecchi, settentrionale di nascita e di abitudini, appena stabilitosi in Puglia, sent+ gradatamente farsi chiaro e dominante in lui il sentimento di un dovere e di un compito: il sentimento di una missione nella vita; onde in breve tempo la sua officina assunse l’esatto carattere che le doveva rendere ciò che essa fu e rimane: il primo centro di cultura nella terra pugliese, primo cronologicamente e unico per lunga serie di anni, sino alla geniale iniziativa di Giuseppe Laterza, e dei suoi figli. Sprezzante e noncurante di lucri superflui alla sua frugale vita di lavoro, il Vecchi si diede anzitutto a esplorare in lungo e in largo la regione che il caso aveva assegnato alla sua attività, a collegare gli studiosi, a pubblicar libri che la illustrassero… Così con gli scarsissimi aiuti locali avendo contrari, al principio, come al solito, l’indifferenza e l’invidia di alcuni suoi conterranei, il Vecchi mostrava sin dagl’inizi della sua carriera come egli concepisse (e tanto naturalmente da parere… involontariamente) la sua arte come un apostolato. Chi può enumerare le moltissime opere dedicate specialmente alla storia delle Puglie, che in un trentennio uscirono dalle sue officine?… Quanto al valore tecnico di quelle edizioni, a parer mio – aggiungeva il Cervasato – esse hanno fatto e fanno del Vecchi il primo tipografo (primo senza contrasti in confronto a chicchessia…) dell’Italia moderna…”.
Ed ecco perché, parafrasando le parole che Giovanni Beltrani pronunciò nel suo “discorso commemorativo” il 25 marzo del 1906, e mettendo il punto a questa mia relazione, noi dobbiamo onorare Valdemaro Vecchi, ma soprattutto, per quanto ci è possibile ancora, dobbiamo impegnarci, nell’interesse della civiltà della nostra città e della nostra regione, a far sì che i suoi libri siano conservati e che la sua opera, sorretta da nuovo vigoroso alimento, non scompaia del tutto dalla nostra terra. Grazie.
Cercherò naturalmente di assolvere nel modo migliore possibile il compito che mi è stato affidato, ma prima di parlarvi di Valdemaro Vecchi permettetemi comunque di dirvi che non ho la pretesa di considerarmi uno storiografo e, se è vero che ho pubblicato anche un libro sulla cultura del ‘900 a Trani e che ho scritto alcuni articoli sul nostro grande tipografo ed editore, non presumo di fare lo storico della città.
Sono un letterato piuttosto, a cui di tanto in tanto piace fare delle incursioni nella storia locale, e a cui di tanto in tanto, per amore di Trani, piace cimentarsi in battaglie culturali che, suo malgrado, finisce spesso col perdere.
Già, le mie battaglie perdute, come quella, ad esempio, sostenuta proprio in nome di Valdemaro Vecchi sul quale stasera sono stato invitato a parlarvi, un invito perciò che certamente mi onora ma che, vi confesso, solo in parte mi ricompensa dell’amarezza che provai nel febbraio del 1984, quando, per l’ordinanza di un pretore, la Tipografia Vecchi fu sfrattata dai locali di Via Cavour, nella quale era stata fino allora ubicata, costretta a trasferirsi altrove e quindi, quasi per un insanabile precipitare di eventi, a cedere, ad un distributore librario barese, persino la titolarità.
Certo, sul piano della procedura civile, non c’era nulla da eccepire al modo con cui si concluse il contenzioso tra il nuovo proprietario dello stabile e il tipografo erede del Vecchi.
Tuttavia – e perdonatemi se parlo ancora di me – come sottolineai su “SIMGOLARE/PLURALE”, il periodico da me diretto per tredici anni, con quel provvedimento per l’alto valore storico e culturale della Tipografia, a Trani si cancellava per sempre una pagina gloriosa della sua storia.
Dissi allora, e non ho alcuna remora a ripeterlo oggi, che sbagliava il proprietario dello stabile quando destinò i locali della tipografia ad uffici della sua ditta; sbagliava il tipografo quando solo tardivamente si mostrò capace di prescindere dagli interessi della sua azienda; ma soprattutto sbagliavano le autorità competenti, le istituzioni, i partiti politici che, non accogliendo l’accorato appello da me, purtroppo in grande solitudine, ad essi rivolto dalla pagine del mio giornale (per la cronaca il Consiglio Comunale dell’epoca si limitò ad approvare un ordine del giorno in cui si facevano soltanto “auspici” perché il patrimonio culturale della tipografia non andasse disperso), non adottarono alcun provvedimento (il vincolo, ad esempio) teso a conservare alla città i locali dell’antica tipografia, con tutto quello che conteneva e che la valorizzava.
E così Trani fu privata per sempre dalla testimonianza di n momento altissimo non solo della sua storia, ma di quella dell’intero Mezzogiorno d’Italia.
Nei locali della tipografia, infatti, soprattutto nelle prime due stanze, ancora si respirava l’atmosfera pregnante di quei fermenti culturali che si ebbero nel Mezzogiorno nei primi decenni dell’Unità d’Italia.
L’arredamento, anche se malandato, era ancora quello dello studio in cui attorno al Vecchi si erano avvicendati, nella loro intensa attività di promozione culturale, le personalità intellettuali più illustri del secondo Ottocento.
In quei locali, tra la caduta del fascismo e l’avvento della democrazia, Domenico Pàstina, figura esemplare per dirittura morale e politica, era stato l’animatore di quel gruppo di ragazzi che, dopo gli anni bui del ventennio nero, finalmente avevano voluto saperne di più su Benedetto Croce e sulla storia “come pensiero e come azione”.
E in quei locali, nell’ottobre del 1943, era venuta alla luce “L’Italia del Popolo”, l’edizione meridionale de “L’Italia libera”, un giornale che segnò la ripresa della libertà di stampa in Italia e che, sequestrato per ordine del governo Badoglio, all’epoca di stanza a Brindisi dopo la sua fuga da Roma, portò conseguentemente all’assurdo arresto (revocato comunque a furor di popolo nel giro di sette giorni) dello stesso Pàstina, di Vincenzo Calace, altra luminosa figura dell’antifascismo pugliese e italiano, e dello stampatore Francesco Petrarota.
Tanto bastava a significare l’importanza storico-culturale della Tipografia Vecchi e quindi a giustificarne la conservazione.
Ma questa, purtroppo, nel febbraio del 1984 non interessò nessuno.
Il misfatto fu compiuto, la memoria storica fu cancellata e un patrimonio di grandissimo valore cominciò ingloriosamente a disperdersi.
Non per amore di polemica dico ancora oggi queste cose, ma per ricordare a me stesso, e ai giovani che mi ascoltano, che il grado di civiltà di un popolo si misura nel rispetto che esso ha per la sua memoria storica.
Guari a cancellarla, questa memoria, avremmo soltanto barbarie!
Guai a cancellarla, questa memoria, avremmo soltanto barbarie!
Ecco perché il Club Unesco di Trani e la Sezione cittadina della Società di storia patria fanno bene ad organizzare serate come questa; ecco perché, qualche anno fa, il Liceo Scientifico di Trani, intitolando la sua sede al grande tipografo-editore, ha compiuto un’opera di civiltà.
Ed ecco perché mi sembra opportuno rilanciare in questa sede quel progetto di un “Fondo Vecchi”, di cui si è parlato tempo fa, e di cui purtroppo confesso di non sapere più nulla di preciso: un fondo che non solo miri al recupero della ricca produzione editoriale della casa editrice tranese, ma contribuisca alla promozione di iniziative culturali e nazionali tese a ricordare il grande tipografo-editore, e ne sostenga i programmi e gli scopi.
Su Valdemaro Vecchi, si sa, nel 1979 pubblicò un bel libro Benedetto Ronchi, il sempre compianto direttore della nostra Biblioteca Comunale, il cui grande e inestimabile patrimonio librario egli amò, incrementò e seppe organizzare su basi più moderne e funzionali e che oggi, purtroppo, per l’incuria e la mediocrità degli uomini, mi si dice ridotto in condizioni pietose e chissà quanto ancora funzionali.
Ma tratteniamo ancora un po’ dentro di noi la indignazione per quest’altro capitolo sciagurato della storia di Trani e torniamo stasera a Valdemaro Vecchi (mi diceva l’amico Peppino Giusto che sugli innumerevoli beni perduti a Trani si potrebbero scrivere decine di libri.
Fu dunque il libro di Ronchi, dopo gli affettuoso scritti di Giovanni Bel-trani (lo studioso che, al di là del carattere erudito della sua opera, ebbe il merito di rilanciare gli studi storici a Trani) e di Nicola Pàstina (fratello di Domenico e altra no bile figura della nostra storia), fu dunque il libro di Ronchi – dicevo – a colmare una lacuna che più di tanti aveva avvertito lo stesso Pàstina, il quale, dando vita nel 1966, con l’avv. Agostino Caiati, dinamico editore di santo Spirito, ad una nuova edizione della “Rassegna Pugliese” e facendo proprio un antico desiderio di Benedetto Croce di una completa rassegna della produzione di Valdemaro Vecchi, né affidò appunto il compito a Benedetto Ronchi.
E non si può dire che tale compito non sia stato assolto con impegno, se ancora oggi, per chi voglia accostarsi al nostro tipografo-editore, la monografia di Ronchi, molto informata e corredata da un catalogo di tutte le 1076 edizioni pugliesi di Valdemaro Vecchi (ma qualcuno dice che siano ancora di più) è un importante punto di riferimento.
Chi fu allora Valdemaro Vecchi?
Nato a Borgo San Donnino (si chiamerà Fidenza dal 1927) in provincia di Parma, il 5 ottobre del 1840, da buona famiglia caduta in povertà (suo padre, il tipografo Giuseppe Vecchi, aveva con dotto na vita brillante e dispendiosa da ex benestante borghigiano), a 15 anni il giovane Vecchi lasciò la casa paterna per Milano, dove trovò lavoro presso il tipografo Guglielmini, lo stesso che stampò l’edizione del 1840 de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, e dove ben presto dalle mansioni di compositore passò a quella, ben più importante, di proto.
Nel 1859 tornò a Parma, e qui ebbe modo di praticare, con entusiasmo, l’attività di giornalista, nella quale si distinse – scrive il Croce – come scrittore chiaro, vivace e dotato di bella cultura.
Fu questa una passione che, trasmessagli dal padre, rimase sempre viva in lui, che la riprese con successo negli anni pugliesi.
Tre anni dopo fu chiamato ad Alessandria per dirigere una tipografia, e da Alessandria (dove nel 1864 aveva sposato Luisa Penna, che gli fu compagna devota per tutta la vita), cedendo ai ripetuti in viti dell’amico piemontese Giuseppe Onesti, direttore delle scuole municipali di Barletta e attratto dalla sua bravura di tipografo, nel 1864 si trasferì nella città di Eraclio.
A Barletta egli trascorse un decennio operoso e in verità non sempre sereno e, dopo la morte del suo unico figliuolo di quattro anni (Tommasino), nel 1879 venne a Trani, città allora sede di una Corte di Appello e che per la sua intensa vita giuridica e forense sembrava offrirgli la possibilità di incrementare e migliorare la sua attività editoriale.
A Trani, infatti, dopo aver scelto come socio Giuseppe Petrarota, e fino al 1906, anno della sua morte, egli con autentico spirito di pioniere, per le condizioni di estrema arretratezza della nostra terra, e quindi noncurante di più facili guadagni, svolse una intensa attività tipografica ed editoriale che subito si distinse non solo per la semplicità, la nitidezza e la correttezza della stampa (“le mie edizioni sono semplici – egli scrisse – non frasche, non fronzoli, non fregi, o il meno possibile”) e pertanto nettamente superiore a quella di tutte le altre, e in verità molto poche tipografie della regione (2 o 3 a bari, 2 assai piccole a Trani, qualcuna a Foggia e a Lecce), ma soprattutto per aver mobilitato intorno a sé le energie intellettuali più vive del tempo.
Tra esse, infatti, vi fu non solo Benedetto Croce che, dunque, prima di approdare a Laterza, con Vecchi ebbe una feconda relazione di oltre vent’anni (stampando con lui dal 1903 la “Critica”, la sua famosa rivista di storia, letteratura e filosofia e pubblicando ben 16 opere della sua monumentale attività di studioso), ma anche, tra gli altri, Giovanni Gentile, Antonio Labriola e Bertrando Spaventa, insomma i maggiori nomi della filosofia tra Ottocento e Novecento, i quali dunque – ricorda giustamente Eugenio Garin nella sua prefazione al libro di Ronchi – passarono tutti da Trani prima che da Bari.
E, proprio per la presenza di questo sodalizio, nel 1884 potè nascere la “Rassegna Pugliese”, la rivista in cui Vecchi raccolse scritti e documenti per la storia scientifica, civile e letteraria della Puglia, e alla quale egli sacrificò “buona parte del suo tempo e delle sue fatiche”.
La rivista, grazie ad un modesto prezzo di abbonamento (“il giornale, nel suo genere, più a buon mercato d’Italia”) e ad una tiratura (assolutamente eccezionale in quei tempi) di ben tremila copie, riuscì ad avere una notevole diffusione in Puglia e fuori fino al dicembre del 1913, oltre cioè la morte dello stesso editore, al quale nella direzione era subentrato intanto Giovanni Beltrani.Nei suoi venticinque anni di vita la “Rassegna Pugliese” costituì dunque “il cimento più arduo” per il Vecchi e sulle sue pagine scrissero i più bei nomi della cultura pugliese di quegli anni, come Giovanni Beltrani, Cosimo Bertacchi, Giovanni Bovio, Francesco Carabellese, Giuseppe Ceci, Raffaele Cotugno, Francesco Cutinelli, Raffaele De Cesare, Giustino Fortunato, Giacinto Francia, Armando Perotti, Cesare Ricco, Orazio Spagnoletti, e i giovanissimi Pasquale Càfaro, Tommaso Fiore, Michele Viterbo e Michele Vocino che, insieme ai molti collaboratori esterni (tra i quali lo stesso Benedetto Croce, che vi scriveva con lo pseudonimo di Gustavo Colline), s’impegnarono a fare di essa la vera rassegna della vita intellettuale della Puglia, la sede più importante del dibattito culturale del tempo.
Una caratteristica significativa di questo di battito, sempre vivo ed informato, fu la separazione tra la cultura, elemento di unione tra gli uomini, e la politica militante che divide; una separazione, come vedremo, ampiamente motivata e comunque esplicitamente programmata.
Vecchi, infatti, volle perentoriamente tale distinzione, e lo si può desumere, oltre che da una consuetudine di lavoro e da un costante e preciso indirizzo nella direzione della “Rassegna Pugliese”, anche da quanto ebbe a scrivere
Nella circolare del luglio 1883, con la quale annunciava ai pugliesi la nascita della sua rivista.
“Ogni ramo dello scibile – egli scrisse – dovrà pagare il suo tributo alla mia rassegna, dalla quale intendo soltanto escludere la così detta politica militante: perocché nessuna polemica di questo genere ha diritto di turbare il sereno cielo della scienza; e nessun pretesto voglio lasciare a quanti sono uomini d’ingegno e di cuore, perché mi neghino il loro con senso a cagione del credo politico”.
Ecco, allora, le ragioni per cui sulla “Rassegna Pugliese” vi scrivessero uomini di diversa tendenza politica e, ad esempio, n articolo di Giovanni Beltrani, conservatore e convinto monarchico, fosse affiancato ad uno di Giovanni Bovio, democratico e repubblicano.
Qualcuno forse oggi definirebbe questo comportamento “bipartisan”. Io non credo che sia la stessa cosa, anche perché alla base di tale presa di posizione c’era soprattutto la consapevolezza che “la politica, specie quella locale, poteva surriscaldare gli animi e renderli ciechi”; una consapevolezza che al vecchi, d’altra parte, derivava dall’amara esperienza personale vissuta negli anni barlettani, quando il giornale da lui fondato e diretto in quella città, “Il Circondario di Barletta” (all’epoca la Terra di Bari era divisa in tre circondari, di Bari, di Barletta e di Altamura), si vide violentemente e ripetutamente attaccato da parte degli avversari “a causa dell’insofferenza alle critiche e alla pubblica discussione e soprattutto della scarsa maturità di un ambiente sociale non aduso alla libera circolazione delle idee e al giuoco democratico”.
Tuttavia, se queste furono le ragioni che spinsero Vecchi a separare la cultura dalla politica, come non cogliere nella vita della “Rassegna Pugliese” un altro, e certamente più alto, modo di fare politica?
Come quando, ad esempio, egli rivolse ai pugliesi l’invito a non rimanere impassibili e a non tollerare ulteriormente che “dominasse sovrana ed assoluta nella così detta repubblica delle lettere una stampa, la quale, in grazia dell’alta e fedele posizione in che fortuna l’ha collocata, stima in diritto di guardare dall’alto in giù i prodotti del Mezzogiorno, quando non siano al servizio del consorzio centrale”.
Giovanni Beltrani ritenne di poter cogliere in tale appello la prima enunciazione, sia pure abbozzata, del problema del Mezzogiorno, e quindi una prima risposta a quella tesi dello squilibrio strutturale tra Nord e Sud d’Italia che il Risorgimento politico del paese – lo sappiamo tutti – non era stato capace di risolvere.
Certo, Vecchi fu sempre sensibile alle istanze sociali di progresso e di affrancamento dalla miseria e dall’ignoranza e aveva coscienza delle reali condizioni dell’Italia postunitaria.
In una conferenza tenuta nel Teatro Comunale di Trani il 20 settembre del 1895 per il XX Anniversario della Liberazione di Roma, infatti, pur riconoscendo i vantaggi che derivavano al nostro paese sul piano della rappresentatività internazionale, egli accennò alla “crisi economica gravissima” in cui versava l?Italia, al “disagio” in cui si trovavano “quasi tutte le classi sociali” e soprattutto alla “misera condizione dell’operaio”: si tratta di una “verità ineluttabile e dolorosissima”, disse tra l’altro.
Non è dunque così azzardato fare di lui anche un precursore delle battaglie meridionalistiche.
E, d’altra parte, come negare che la sua scelta di operare al sud, e con-tinuare ad operarvi nonostante le condizioni di estrema arretratezza riscontrate, la scelta di valorizzare le energie intellettuali più vive, pubblicandone le opere (“Né mi limitai ad offrire alla gioventù studiosa delle Puglie le colonne della “Rassegna” – per la quale tutti gli ingegni pugliesi si mossero da lungo letargo – ma apprestai ad essa anche la mia opera di editore, stampando a mio totale rischio parecchi volumi” – egli scrisse in proposito), fu anche una scelta “politica”, nel senso più nobile della parola, naturalmente?
E dei risultati ampiamente positivi di questa scelta gli diede sinceramente atto il deputato, giornalista e storico di origine pugliese Raffaele De Cesare quando, rammaricandosi con lui per la sua mancata partecipazione ala Esposizione generale di Torino del 1884 (alla Mostra torinese il Vecchi partecipò soltanto nella seconda edizione del 1898, vincendovi la medaglia d’argento), così gli scriveva tra l’altro: “Io le devo molti ringraziamenti, ed ella ed i lettori ne intendono la ragione; li devo a lei, che, non pugliese, sostiene ogni legittimo interesse della Puglia, e lo fa con sacrifizi proprii, certo non lievi, con quel garbo modesto, ch’è di pochi, e con quella fede intera e sicura, senza la quale non si compie nulla di serio, di fecondo, di durevole”. E aggiungeva: “… Non mi è ancora riuscito, caro signor Vecchi, di discorrere del gran bene morale e intellettuale, che ella vi fa (in Puglia): principalissimo l’aver fondato un’effemeride, che indubbiamente per serietà di contenuto, per eleganza e proprietà tipografica, potrebbe competere con le buone riviste straniere: All’infuori della “Nuova Antologia”, ch’è essenzialmente italiana, non vi è oggi in Italia un regione, che abbia come la Puglia una rassegna sua propria, scritta quasi interamente da pugliesi, e campo aperto ai giovani, ed a quanti in questa opera di morale riedificazione vogliono correre con l’opera del loro ingegno: Il merito n’è tutto di lei, non pugliese, ed io sono lieto di attestarlo, e di prometterle che in una Mostra, alla quale, vincendo la sua indomabile ritrosia, concorresse con la “Rassegna” e le altre sue belle edizioni, io, se avessi la fortuna di essere Giurato di questa Mostra – nazionale o interregionale che sia – spenderei tutta la mia opera perché a lei, grande benemerito della Puglia, fosse assegnato un premio eccezionale…”.
Ma andiamo avanti.
Alla “Rassegna Pugliese” si affiancarono ben presto altre riviste, come “Napoli nobilissima”, rivista di topografia ed arte napoletana, tesa ad esaltare il patrimonio storico-artistico della città partenopea e del Mezzogiorno in generale; l’”Archivio storico pugliese”, organo della Società di studi storici della Puglia, che pubblicava i risultati delle ricerche della Società di studi storici per la Puglia; la rivista mensile dedicata ai nuovi ideali nell’arte, nella scienza, nella vita “La Nuova Parola”; ed infine alcuni periodici a carattere strettamente giuridico, tra cui la famosissima “Rivista di Giureprudenza” che, uscita dal 1976 al 1914, fu diretta dall’avvocato e parlamentare Giuseppe Alberto Pugliese.
Se a queste riviste si aggiungono poi le mille e più pubblicazioni stampate o pubblicate dal coraggioso editore (tra cui la monumentale opera in tre grandi volumi in folio “La Terra di Bari sotto l’aspetto storico, economico e naturale”, i volumi dei “Codici Diplomatici” e dei “Do-cumenti e monografie” della Commissione provinciale di archeologia e storia della stessa provincia, e le collane “Biblioteca napoletana di storia e letteratura” e “Studi di letteratura, storia e filosofia”, curate da Benedetto Croce), e si ricordano i nomi dei relativi autori, si comprende come l’operazione editoriale e culturale di cui fu protagonista Valdemaro Vecchi non solo interessò i giuristi, gli storici e i letterati, ma registrò i temi essenziali di un dibattito dalle prospettive e dai confini più ampi: dalla grande fortuna del pensiero di Bertrando Spaventa (critico, com’è noto, verso lo spiritualismo cattolico) nella cultura meridionale, alla riproposizione del suo pensiero e dell’hegelismo tout court da parte di Giovanni Gentile; dalla diffusione del pensiero socialista, attraverso la mediazione di Antonio Labriola, alla critica attenzione di Benedetto Croce ai suoi scritti filosofici e politici.
Non sembra comunque difficile, scorrendo le pagine del “Catalogo Vecchi” ricostruito da Benedetto Ronchi, isolare un numero rilevante di monografie che rinviano tutte alla cultura positivistica di fine Ottocento. Per esempio le numerose pubblicazioni sul comportamento delinquenziale, che risentono fortemente delle teorie di Cesare Lombroso, il fondatore dell’antropologia criminale, e alla condizione femminile; il contributo offerto alla “questione pedagogica” ed alla formazione dei docenti della scuola postunitaria, e i primi tentativi di interpretazione sociologica della realtà italiana e meridionale.
Non è forse un caso – sottolineò il prof. Pietro Sisto in una recensione al libro di Ronchi – che la produzione editoriale del Vecchi sembra proprio incontrare nei primi anni del Novecento delle notevoli difficoltà: quando l’8 febbraio del 1906 (e non il giorno 9, com’è inciso sulla targa di Via Cavour e ripetuto in tanti scritti) Valdemaro Vecchi, per un forte attacco di angina pectoris (tragica conseguenza dell’enorme fatica cui si era sottoposto) moriva in estrema povertà (anche per essersi egli sobbarcato alle spese di altre due tipografie che intanto aveva aperto a Giovinazzo e San Severo e che ben presto si rivelarono finanziariamente disastrose), le condizioni sociali, economiche e politiche che erano state alla base di quella cultura positivista e degli ideali risorgimentali erano ormai profondamente mutate, e profondamente mutata, per l’affermarsi di posizioni antipositivistiche sul terreno storico-filosofico e antinaturalistiche su quello artistico, era di conseguenza la cultura dominante.
In questa “nuova” realtà, invece, riusciva a trovare un suo spazio una famiglia di ex falegnami di Putignano, i Laterza, che, dopo aver imparato il mestiere da Vecchi, ebbero la capacità (eliminando da un lato la componente più provinciale del positivismo e consolidando dall’altro il legamo con quella cultura crociana, più aperta ed “europea”, che era ormai in grado di assicurare un mercato al libro) di fondare su “basi nuove” e, come poi si è visto, certamente più durature (visto che di recente si è festeggiato il suo centenario) la casa editrice barese.
Che poi le scelte della casa editrice barese finissero per danneggiare gli autori meridionali, relegati (tranne alcuni casi) al ruolo di autori di serie B a vantaggio di quelli del nord, è un altro discorso, certamente non liquidabile in due battute e quindi da fare in altra occasione.
Perché qui, avviandomi alla conclusione, mi limito a dire che proprio queste scelte (e al di là degli effetti generalmente positivi che esse sortirono) oggi mi fanno apprezzare ancora di più la “meridionalità” di Valdemaro Vecchi, la sua grande passione civile, l’onestà e l’impegno disinteressato così generosamente profuso nel suo lavoro, quella meridionalità, quella passione civile e quell’impegno che, d’altra parte, lo spinsero a creare nella nostra città il primo centro di cultura della terra pugliese e la prima tipografia dell’Italia moderna.
Possiamo affermarlo a chiare lettere noi oggi, ma ne aveva chiara coscienza anch’egli all’epoca.
Nel 1898, in una memoria autobiografica molto cara al Croce, scritta per l’Esposizione generale di Torino e pubblicata col titolo “Trent’anni di lavoro in Puglia”, parlando di sé con la consueta umiltà e modestia, ma comunque consapevole degli ostacoli superati, così egli disse infatti: “Io comprendo benissimo che i miei lavori sono delle cose modeste in confronto di quelli che si fanno in tante altre tipografie dell’alta Italia, ove l’arte tipografica ha raggiunto il massimo splendore. Ma i miei lavori, fatti in Puglia, ove l’arte tipografica trent’anni fa era nello stato più miserando che si possa mai concepire (l’arte tipografica era ridicolmente esercitata e produceva stampati insigni per grossolanità e cattivo gusto e infiorati di quasi incredibili errori), segnano indubbiamente un progresso, che senza una ferrea volontà, un lungo lavoro, un grande amore per l’arte, e una abnegazione a tutta prova, era vano sperare di raggiungere in questa regione. Io l’ho raggiunto, e quel che più conta, con mezzi tanto esigui, da far sorridere chiunque sia abituato a nuotare nell’abbondanza del materiale, a disporre in ogni occorrenza delle migliori fonderie e delle più celebri officine meccaniche, ad avere a’ propri ordini bravi e provetti operai, cui la scuola continua dei maestri rende più facile e abituale la tecnica tipografica. I miei mezzi invece furono sempre molto limitati, e quindi il lavoro ottenuto con tali mezzi ha un valore di gran lunga maggiore di quello ottenuto con un corredo di caratteri esteso, svariato, sempre nuovo e con macchine portate alla perfezione”.
Questo, allora, scrisse Vecchi di suo pugno, in un volumetto ormai introvabile (è sparito anche dalla nostra Biblioteca Comunale) e che pertanto mi piacer ebbe veder ripubblicato, anche perché estremamente il-luminante, più di ogni altra mediazione, la personalità e l’opera del grande tipografo-editore.
E furono parole che trovarono un’immediata corrispondenza in tutti i necrologi scritti all’indomani della sua morte, e tra i quali mi piace ricordare quello, apparso su “La Critica” il 12 febbraio del 1906, scritto da Benedetto Croce, il suo più grande sodale e il suo più grande autore, e quello, a firma di Arnaldo Cervasato, su “La Nuova Parola” dello stesso anno.
“Chi come me – scrisse tra l’altro il Croce – è stato per oltre venti anni col povero Vecchi in relazioni ininterrotte e quasi giornaliere, e ha potuto sperimentare a lungo l’onestà, la buona fede, la rigida osservanza negli impegni, la bontà e ingenuità dell’animo, la vivezza della mente, sente di aver perduto in lui un cooperatore prezioso e un amico saldissimo, e non sa rassegnarsi al pensiero della sua sparizione…”. E aggiungeva il Croce: “Quali fossero le condizioni della Puglia or sono trentotto anni, quali sforzi dovesse compiere ed ostacoli superare il Vecchi, col suo ideale altissimo dell’arte tipografica in paesi nei quali la tipografia era ridicolmente esercitata e produceva stampati insigni per grossolanità e cattivo gusto e infiorati di quasi incredibili errori, narrò egli stesso… Il Vecchi (natu-ralmente con la semplicità, la nitidezza e la correttezza delle sue edizioni) portava in quei paesi di barbarie tipografia gli ideali estetici di Gaspare Bàrbera…”.
E su “La Nuova Parola”, al grande filosofo di Pescasseroli così faceva eco il Cervasato, che di quel periodico era anche direttore e proprietario.
“Con qualunque criterio egli vi fosse giunto, sta di fatto che il Vecchi, settentrionale di nascita e di abitudini, appena stabilitosi in Puglia, sent+ gradatamente farsi chiaro e dominante in lui il sentimento di un dovere e di un compito: il sentimento di una missione nella vita; onde in breve tempo la sua officina assunse l’esatto carattere che le doveva rendere ciò che essa fu e rimane: il primo centro di cultura nella terra pugliese, primo cronologicamente e unico per lunga serie di anni, sino alla geniale iniziativa di Giuseppe Laterza, e dei suoi figli. Sprezzante e noncurante di lucri superflui alla sua frugale vita di lavoro, il Vecchi si diede anzitutto a esplorare in lungo e in largo la regione che il caso aveva assegnato alla sua attività, a collegare gli studiosi, a pubblicar libri che la illustrassero… Così con gli scarsissimi aiuti locali avendo contrari, al principio, come al solito, l’indifferenza e l’invidia di alcuni suoi conterranei, il Vecchi mostrava sin dagl’inizi della sua carriera come egli concepisse (e tanto naturalmente da parere… involontariamente) la sua arte come un apostolato. Chi può enumerare le moltissime opere dedicate specialmente alla storia delle Puglie, che in un trentennio uscirono dalle sue officine?… Quanto al valore tecnico di quelle edizioni, a parer mio – aggiungeva il Cervasato – esse hanno fatto e fanno del Vecchi il primo tipografo (primo senza contrasti in confronto a chicchessia…) dell’Italia moderna…”.
Ed ecco perché, parafrasando le parole che Giovanni Beltrani pronunciò nel suo “discorso commemorativo” il 25 marzo del 1906, e mettendo il punto a questa mia relazione, noi dobbiamo onorare Valdemaro Vecchi, ma soprattutto, per quanto ci è possibile ancora, dobbiamo impegnarci, nell’interesse della civiltà della nostra città e della nostra regione, a far sì che i suoi libri siano conservati e che la sua opera, sorretta da nuovo vigoroso alimento, non scompaia del tutto dalla nostra terra. Grazie.
Domenico di Palo
* Conferenza tenuta per il Club Unesco di Trani e la Sezione cittadina della Società di Storia patria per la Puglia nel salone del Circolo Unione di Trani il 25 novembre del 2001, e poi pubblicata, su “Il Giornale di Trani”, aprile-maggio del 2002, in sei puntate successivamente raccolte in un volumetto di 40 pagine corredato di foto e bibliografia; sulla rivista “Brindisi economica”, n. 4, 2001, e su “Risorgimento e Mezzogiorno – Rassegna di studi storici”, n. 1-2 del dicembre 2001.
In parte il testo era già uscito, con altro titolo, ancora sul pe-riodico “Il Giornale di Trani” del 2 giugno 2001, e su “Corrispondenze”, giugno 2001.
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