Io penso che se c’è uno scrittore in Italia che dai tempi del suo esordio, ad ogni nuova pubblicazione, non fallendo per così dire un colpo, sia venuto continuamente crescendo in termini di umanità e di scrittura, questi è proprio Dacia Maraini.
E basta confrontare il libro che la rese clamorosamente nota nel 1963, “L’età del malessere”, (con cui vinse il Premio Formentor) con quest’ultimo, “Voci”, uscito di recente da Rizzoli, per misurare e per valutare l’enorme progresso da lui compiuto.
In verità, già ne “L’età del malessere” vi erano tutte le premesse per una maturazione vincente: dalla scrittura rapida e incisiva, puntuale nei particolari della realtà presa ad oggetto, a quell’attenzione ai dati dell’esistenza che (cominciando ad abusare di una formula che col tempo le andrà sempre più stretta e che, io credo, non le renderà giustizia) fu definita quasi moraviana.
Insomma si capì subito che ci si trovava di fronte non solo ad una scrittrice che lasciava presagire una carica di originalità che certamente avrebbe trovato il modo di esprimersi appieno, ma anche ad una donna che rivendicava il diritto ad avere pari dignità con l’uomo e che avrebbe lottato per conquistare spazi più adeguati..
Ripercorrendo la sua biografia e la sua bibliografia si può dire ora che Dacia Maraini non è venuta meno a certe aspettative.
Anzi, sulla breccia da più di trent’anni ormai, è stata non solo testimone ma anche protagonista di quella che (per i grandi cambiamenti registrati nel costume, nella morale, nei rapporti interpersonali e sociali, e per aver portato alla ribalta un nuovo modo di essere donna) giustamente può definirsi una rivoluzione culturale.
Ed ecco quindi da tutta la sua produzione letteraria, così ricca e così varia (perché costituita non solo da romanzi, ma anche da testi teatrali, biografie e poesie), emergere e imporsi, accanto a quella della donna, la piena maturità della scrittrice, ormai capace di creare non solo opere di grande qualità ma di proporsi, con in grosso successo editoriale, anche ad un pubblico di lettori più vasto.
Mi riferisco, naturalmente, a “La lunga vita di Marianna Ucria”, il romanzo bestseller vincitore del Premio campiello 1990, che sullo sfondo di una Sicilia del primo settecento narra di un personaggio che acquista lo spessore dell’epopea e della leggenda; a “Bagheria”, una bellissima riscoperta della terra d’origine scandita da una prosa dai toni sorvegliati e comunque estremamente musicali.
E, quindi, a quest’ultimo libro, “Voci”, che, dico subito, per alcuni aspetti (come la complessità della struttura sotto l’apparente linearità della narrazione, la rinuncia a certi sovrabbondanti ideologismi e quindi la tensione a cogliere e a rappresentare anche le contraddizioni della condizione femminile) attesta un ulteriore passo in avanti nella produzione letteraria della Maraini.
“Voci” - si sa – è la storia di na giornalista di una radio privata che si trova ad indagare, suo malgrado, sul delitto di una sua vicina di casa.
Tornando da un corso di aggiornamento a Marsiglia, la giornalista, Michela Canova, (una donna laboriosa, disciplinata, autonoma, con un lavoro che le piace e che le dà da vivere - sottolinea la scrittrice - senza dover usare il suo corpo) trova aperta la porta dell’appartamento della sua coinquilina, il pavimento inondato di disinfettante e le sue scarpe stranamente appaiate vicino all’ingresso.
La portiera le dice che è stata uccisa a coltellate. La giornalista si chiede che cosa sappia di lei e deve rispondersi: niente di niente. Era un’estranea, mentre la vittima la conosceva, per via della radio, e aspirava a fare un lavoro come il suo.
Contemporaneamente alla scoperta del delitto, il direttore della emittente presso cui lavora le chiede di preparare un programma in quaranta puntate sui crimini contro le donne che restano impuniti.
E da questo momento le ricerche sui delitti, una vera e propria discesa nell’Inferno, si mescolano alle ricerche sulla morte di Angela Bari (questo è il nome della donna uccisa).
La narrazione dunque - ha ragione Daniela Pasti - è impostata su due livelli che procedono paralleli e che a volte s’intersecano.
Da una parte, infatti, la ricerca dell’assassino ha l’andamento incalzante di un giallo (trama avventurosa, la sequela di indizi,, i sospetti, il finale a sorpresa); dall’altro l’inchiesta sui delitti contro le donne accumula dati agghiaccianti, storie terribili e inserisce il caso nel quadro più ampio e reale dell’orrore quotidiano che si abbatte sulle donne.
Su tutto questo poi s’innestano altri spunti tematici: l’umana pietà mista alla ripugnanza per i tanti episodi di violenza di cui sono vittime le donne; la sottile ironia su certa sociologia che riflette sulla incomunicabilità nel nostro tempo (specialmente su quella dei moderni condomini urbani), sui giornalisti che s’improvvisano detective, e sui rapporti tra uomini e donne; i suggestivi flash nella memoria dell’io narrante tesi a ricostruire la singolare e affascinante figura di suo padre, “un uomo così giovane anche da vecchio”; le riflessioni sul mistero mutuate da Goethe (”la cosa più difficile del mondo è vedere con i propri occhi quello che sta sotto il proprio naso”), e poi quelle sui motivi dell’aggressione maschile e sulle donne che non solo aprono la porta ai loro assassini perché vogliono sedurli, vogliono dimostrare di essere più forti, ma che ci vanno a letto e li amano “perché si finisce con l’amare chi passa la notte nel tuo letto, anche se è il tuo carnefice”.
Insomma, quanto è di per sé sufficiente a definire il romanzo un libro non privo d’interesse e che, d’altra parte, affidato com’è ad una scrittura fortemente comunicativa, capace di sbalzare con energia situazioni e personaggi e caratterizza da una ricerca lessicale non meno degna di elogio, non solo ha una presa diretta sul lettore ma rafforza l’ormai generale convincimento che la Maraini è tra i migliori scrittori italiani viventi.
E qui naturalmente, pensando di aver detto tutto, si potrebbe anche mettere il punto.
Eppure tutto non è stato detto, perché a me sembra che nel romanzo si possa individuare anche un terzo livello di scrittura, che il libro insomma vada ben oltre le cose di certo pertinenti ma forse un po’ scontate che ho riferito finora; né d’altra parte queste cose ci danno una chiave di interpretazione esaustiva o comunque almeno una ragione significativa del particolare impatto che il libro ha sul lettore.
Giacché un impatto particolare davvero esso ce l’ha.
Come non pensare, ad esempio, che uno degli effetti immediati che la lettura del romanzo potrà avere su ciascuno di voi sarà quello di chiedervi, se non l’avete fatto finora, che tipo di voce è la vostra.
Assertiva, velata, titubante, soffiata, una voce dalle intenzioni eroiche, squillante, altalenante, sgranata, abitata da oscuri timori, carezzevole, o come se zoppicasse, pastosa, suadente, granulosa, unghiata, pigra, in salita, come le pesche nel vino che scivola in gola con un senso di fresco e di dolce, una voce con l’aria che ti manca ad ogni giro di frase, o col tono calante quasi a toccar terra e che poi riprende con fatica attraverso un percorso elicoidale, una voce del buon senso quotidiano, o na voce in cui si entra con piede leggero, o cristallina, o petulante?…
Ed è questo soltanto un piccolo campionario delle decine e decine di suggestive definizioni di voci umane (e non solo quelle) che ho potuto registrare nel romanzo, tanto che, a lettura ultimata, quasi non più interessato, per l’affacciarsi di nuovi spunti di riflessione, alla conclusione della vicenda narrata che pure mi aveva coinvolto, ho pensato di trovarmi soprattutto di fronte ad una vera e propria saga della voce, alla sua celebrazione trionfale, per la quale finisce col sembrare persino ovvia la confessione che l’io narrante ci lascia sulla pagina 69 del libro: “Mi accorgo che giro intorno al telefono cercando un pretesto per chiamare qualcuno e ascoltare na voce. Sono avida di voci, che siano leggere o pesanti, scure o chiare, le amo per la loro straordinaria capacità di farsi corpo. Mi innamoro di na voce, io, prima che di na persona; forse per questo lavoro alla radio; o è il mio lavoro alla radio che mi porta a dare corpo alle voci, ascoltandole con carnale attenzione”.
Così, se ne “La lunga vita di Marianna Ucria”, escludendo la parola e quindi il senso dell’udito, la percezione del mondo era affidata ai colori, alle forme, agli odori, agli afrori, eppure attraverso questa limitazione la scrittrice riusciva a restituirne intatto il sapore e la consistenza umana, in “Voci”, al contrario, è nell’esaltazione dell’udito, e quindi nella esclusione degli altri quattro sensi, che avviene la percezione del mondo.
Ma se per Marianna Ucria, la protagonista sordomuta dell’omonimo romanzo, si trattava di una scelta obbligata, su Michela Canova, la giornalista di “Voci”, agisce invece il potere di seduzione della voce, quel potere di seduzione che ha attraversato la storia della umanità e che sempre ha toccato il cuore degli uomini, da Orfeo che commuoveva anche i sassi e riusciva a impietosire gli Dei degli Inferi, alle ultime incarnazioni del mito della voce, che siano i grandi cantanti lirici o quelli della leggera o rock.
Quanto alle ragioni che stanno dietro questo potere di seduzione, basti tener presente il valore di certe simbologie, quelle simbologie ad esempio che ricordava il prof. Corrado Bologna, docente di filologia romanza all’università
di Chieti, un una bellissima intervista apparsa su un quotidiano nazionale di qualche giorno fa.
La voce, diceva pressappoco il prof. Bologna, è legata al flatus, al ritmo pulsante dell’uomo e dell’universo; il suo timbro è nello stesso tempo universale e individuale: La voce del divo come quella di ciascuno di noi è inconfondibile, è l’impronta dell’anima, la sonorità dell’esistenza.
E il contrario di questa vitalità è la morte, l’assenza di voce. Non a caso nell’antica Roma era la dea Tacita (raffigurata con un dito sulle labbra per intimare il silenzio) a presiedere al culto dei morti. I morti non parlano: a meno che, s’intende, non si faccia ricorso al paranormale.
Ecco dunque, forse, una motivazione più convincente di quella particolarità del romanzo della quale dicevo prima, una sua più attendibile chiave di lettura, e di conseguenza anche la giustificazione di quel titolo, “Voci”, apparentemente esplicito e chiarificatore, ma insieme complesso ed ambiguo, appunto come lo sono le voci, sostanze che alla fine - parafrasando un pensiero di Michelangelo Antonioni - diventano ombre, non solo nella fisica a causa della relatività, ma anche nella realtà quotidiana, perché tutte hanno unna loro verità.
Ed è la stessa cosa per Dacia Maraini che, nell’ultima pagina del libro (a conclusione della sua suggestiva combinazione - ché tale può sembrare il suo romanzo - tra interiorità e Wunderkammer, cioè della trasformazione della realtà in una scatola magica e che consente non di esorcizzare la degradazione ma almeno di aprire spiragli di illusioni), così scrive: “Ogni voce ha il timbro della verità, che non sempre coincide con la logica delle cause e degli effetti… Le voci sono corpi in moto e hanno ciascuna l’ambiguità e la complessità degli organismi viventi, belli o brutti, deboli o forti che siano, sono percorse da vene lunghissime di un azzurro che mette tenerezza, seminate di costellazioni di nei come un cielo notturno ed è difficile metterle a tacere come si fa con le parole cartacee di un libro”.
Ed ecco, tornando alla vicenda narrata, la ragion e per la quale, pur concludendosi questa vicenda con la identificazione dell’assassino, si lasciano ancora aperte altre soluzioni, si lascia praticamente irrisolto l’enigma.
Certo, “la logica delle cause e degli effetti” è sotto gli occhi di tutti, ma tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, o meglio tutte le loro voci hanno una verità, ed è proprio questa relatività che consente alla sfinge di continuare “a sorridere sorniona”.
E allora? - si chiede infine la Maraini - Si deve forse uscire dalla malia delle voci ed entrare nella logica geometrica dei segni?… E questo sarà un atto di saviezza o soltanto una scappatoia per eludere i corpi occhiuti e chiacchierini delle voci?”
Sicuramente non u n atto di “saviezza”, mi permetto di rispondere, perché se il segno, ovvero l’immagine finisce con uccidere la voce noi siamo proprio rovinati.
E’ la voce, infatti, la nostra interiorità mentre l’immagine viene dall’esterno, e solo la voce è capace di creare fantasie, che sono una forma di conoscenza ben diversa dalle fantasticherie di cui si nutre la società contemporanea.
E l’illusionismo da immagine di certa televisione, per i risultati nefasti che questa produce sulla vita democratica e culturale del paese, ne è una prova lampante.
E basta confrontare il libro che la rese clamorosamente nota nel 1963, “L’età del malessere”, (con cui vinse il Premio Formentor) con quest’ultimo, “Voci”, uscito di recente da Rizzoli, per misurare e per valutare l’enorme progresso da lui compiuto.
In verità, già ne “L’età del malessere” vi erano tutte le premesse per una maturazione vincente: dalla scrittura rapida e incisiva, puntuale nei particolari della realtà presa ad oggetto, a quell’attenzione ai dati dell’esistenza che (cominciando ad abusare di una formula che col tempo le andrà sempre più stretta e che, io credo, non le renderà giustizia) fu definita quasi moraviana.
Insomma si capì subito che ci si trovava di fronte non solo ad una scrittrice che lasciava presagire una carica di originalità che certamente avrebbe trovato il modo di esprimersi appieno, ma anche ad una donna che rivendicava il diritto ad avere pari dignità con l’uomo e che avrebbe lottato per conquistare spazi più adeguati..
Ripercorrendo la sua biografia e la sua bibliografia si può dire ora che Dacia Maraini non è venuta meno a certe aspettative.
Anzi, sulla breccia da più di trent’anni ormai, è stata non solo testimone ma anche protagonista di quella che (per i grandi cambiamenti registrati nel costume, nella morale, nei rapporti interpersonali e sociali, e per aver portato alla ribalta un nuovo modo di essere donna) giustamente può definirsi una rivoluzione culturale.
Ed ecco quindi da tutta la sua produzione letteraria, così ricca e così varia (perché costituita non solo da romanzi, ma anche da testi teatrali, biografie e poesie), emergere e imporsi, accanto a quella della donna, la piena maturità della scrittrice, ormai capace di creare non solo opere di grande qualità ma di proporsi, con in grosso successo editoriale, anche ad un pubblico di lettori più vasto.
Mi riferisco, naturalmente, a “La lunga vita di Marianna Ucria”, il romanzo bestseller vincitore del Premio campiello 1990, che sullo sfondo di una Sicilia del primo settecento narra di un personaggio che acquista lo spessore dell’epopea e della leggenda; a “Bagheria”, una bellissima riscoperta della terra d’origine scandita da una prosa dai toni sorvegliati e comunque estremamente musicali.
E, quindi, a quest’ultimo libro, “Voci”, che, dico subito, per alcuni aspetti (come la complessità della struttura sotto l’apparente linearità della narrazione, la rinuncia a certi sovrabbondanti ideologismi e quindi la tensione a cogliere e a rappresentare anche le contraddizioni della condizione femminile) attesta un ulteriore passo in avanti nella produzione letteraria della Maraini.
“Voci” - si sa – è la storia di na giornalista di una radio privata che si trova ad indagare, suo malgrado, sul delitto di una sua vicina di casa.
Tornando da un corso di aggiornamento a Marsiglia, la giornalista, Michela Canova, (una donna laboriosa, disciplinata, autonoma, con un lavoro che le piace e che le dà da vivere - sottolinea la scrittrice - senza dover usare il suo corpo) trova aperta la porta dell’appartamento della sua coinquilina, il pavimento inondato di disinfettante e le sue scarpe stranamente appaiate vicino all’ingresso.
La portiera le dice che è stata uccisa a coltellate. La giornalista si chiede che cosa sappia di lei e deve rispondersi: niente di niente. Era un’estranea, mentre la vittima la conosceva, per via della radio, e aspirava a fare un lavoro come il suo.
Contemporaneamente alla scoperta del delitto, il direttore della emittente presso cui lavora le chiede di preparare un programma in quaranta puntate sui crimini contro le donne che restano impuniti.
E da questo momento le ricerche sui delitti, una vera e propria discesa nell’Inferno, si mescolano alle ricerche sulla morte di Angela Bari (questo è il nome della donna uccisa).
La narrazione dunque - ha ragione Daniela Pasti - è impostata su due livelli che procedono paralleli e che a volte s’intersecano.
Da una parte, infatti, la ricerca dell’assassino ha l’andamento incalzante di un giallo (trama avventurosa, la sequela di indizi,, i sospetti, il finale a sorpresa); dall’altro l’inchiesta sui delitti contro le donne accumula dati agghiaccianti, storie terribili e inserisce il caso nel quadro più ampio e reale dell’orrore quotidiano che si abbatte sulle donne.
Su tutto questo poi s’innestano altri spunti tematici: l’umana pietà mista alla ripugnanza per i tanti episodi di violenza di cui sono vittime le donne; la sottile ironia su certa sociologia che riflette sulla incomunicabilità nel nostro tempo (specialmente su quella dei moderni condomini urbani), sui giornalisti che s’improvvisano detective, e sui rapporti tra uomini e donne; i suggestivi flash nella memoria dell’io narrante tesi a ricostruire la singolare e affascinante figura di suo padre, “un uomo così giovane anche da vecchio”; le riflessioni sul mistero mutuate da Goethe (”la cosa più difficile del mondo è vedere con i propri occhi quello che sta sotto il proprio naso”), e poi quelle sui motivi dell’aggressione maschile e sulle donne che non solo aprono la porta ai loro assassini perché vogliono sedurli, vogliono dimostrare di essere più forti, ma che ci vanno a letto e li amano “perché si finisce con l’amare chi passa la notte nel tuo letto, anche se è il tuo carnefice”.
Insomma, quanto è di per sé sufficiente a definire il romanzo un libro non privo d’interesse e che, d’altra parte, affidato com’è ad una scrittura fortemente comunicativa, capace di sbalzare con energia situazioni e personaggi e caratterizza da una ricerca lessicale non meno degna di elogio, non solo ha una presa diretta sul lettore ma rafforza l’ormai generale convincimento che la Maraini è tra i migliori scrittori italiani viventi.
E qui naturalmente, pensando di aver detto tutto, si potrebbe anche mettere il punto.
Eppure tutto non è stato detto, perché a me sembra che nel romanzo si possa individuare anche un terzo livello di scrittura, che il libro insomma vada ben oltre le cose di certo pertinenti ma forse un po’ scontate che ho riferito finora; né d’altra parte queste cose ci danno una chiave di interpretazione esaustiva o comunque almeno una ragione significativa del particolare impatto che il libro ha sul lettore.
Giacché un impatto particolare davvero esso ce l’ha.
Come non pensare, ad esempio, che uno degli effetti immediati che la lettura del romanzo potrà avere su ciascuno di voi sarà quello di chiedervi, se non l’avete fatto finora, che tipo di voce è la vostra.
Assertiva, velata, titubante, soffiata, una voce dalle intenzioni eroiche, squillante, altalenante, sgranata, abitata da oscuri timori, carezzevole, o come se zoppicasse, pastosa, suadente, granulosa, unghiata, pigra, in salita, come le pesche nel vino che scivola in gola con un senso di fresco e di dolce, una voce con l’aria che ti manca ad ogni giro di frase, o col tono calante quasi a toccar terra e che poi riprende con fatica attraverso un percorso elicoidale, una voce del buon senso quotidiano, o na voce in cui si entra con piede leggero, o cristallina, o petulante?…
Ed è questo soltanto un piccolo campionario delle decine e decine di suggestive definizioni di voci umane (e non solo quelle) che ho potuto registrare nel romanzo, tanto che, a lettura ultimata, quasi non più interessato, per l’affacciarsi di nuovi spunti di riflessione, alla conclusione della vicenda narrata che pure mi aveva coinvolto, ho pensato di trovarmi soprattutto di fronte ad una vera e propria saga della voce, alla sua celebrazione trionfale, per la quale finisce col sembrare persino ovvia la confessione che l’io narrante ci lascia sulla pagina 69 del libro: “Mi accorgo che giro intorno al telefono cercando un pretesto per chiamare qualcuno e ascoltare na voce. Sono avida di voci, che siano leggere o pesanti, scure o chiare, le amo per la loro straordinaria capacità di farsi corpo. Mi innamoro di na voce, io, prima che di na persona; forse per questo lavoro alla radio; o è il mio lavoro alla radio che mi porta a dare corpo alle voci, ascoltandole con carnale attenzione”.
Così, se ne “La lunga vita di Marianna Ucria”, escludendo la parola e quindi il senso dell’udito, la percezione del mondo era affidata ai colori, alle forme, agli odori, agli afrori, eppure attraverso questa limitazione la scrittrice riusciva a restituirne intatto il sapore e la consistenza umana, in “Voci”, al contrario, è nell’esaltazione dell’udito, e quindi nella esclusione degli altri quattro sensi, che avviene la percezione del mondo.
Ma se per Marianna Ucria, la protagonista sordomuta dell’omonimo romanzo, si trattava di una scelta obbligata, su Michela Canova, la giornalista di “Voci”, agisce invece il potere di seduzione della voce, quel potere di seduzione che ha attraversato la storia della umanità e che sempre ha toccato il cuore degli uomini, da Orfeo che commuoveva anche i sassi e riusciva a impietosire gli Dei degli Inferi, alle ultime incarnazioni del mito della voce, che siano i grandi cantanti lirici o quelli della leggera o rock.
Quanto alle ragioni che stanno dietro questo potere di seduzione, basti tener presente il valore di certe simbologie, quelle simbologie ad esempio che ricordava il prof. Corrado Bologna, docente di filologia romanza all’università
di Chieti, un una bellissima intervista apparsa su un quotidiano nazionale di qualche giorno fa.
La voce, diceva pressappoco il prof. Bologna, è legata al flatus, al ritmo pulsante dell’uomo e dell’universo; il suo timbro è nello stesso tempo universale e individuale: La voce del divo come quella di ciascuno di noi è inconfondibile, è l’impronta dell’anima, la sonorità dell’esistenza.
E il contrario di questa vitalità è la morte, l’assenza di voce. Non a caso nell’antica Roma era la dea Tacita (raffigurata con un dito sulle labbra per intimare il silenzio) a presiedere al culto dei morti. I morti non parlano: a meno che, s’intende, non si faccia ricorso al paranormale.
Ecco dunque, forse, una motivazione più convincente di quella particolarità del romanzo della quale dicevo prima, una sua più attendibile chiave di lettura, e di conseguenza anche la giustificazione di quel titolo, “Voci”, apparentemente esplicito e chiarificatore, ma insieme complesso ed ambiguo, appunto come lo sono le voci, sostanze che alla fine - parafrasando un pensiero di Michelangelo Antonioni - diventano ombre, non solo nella fisica a causa della relatività, ma anche nella realtà quotidiana, perché tutte hanno unna loro verità.
Ed è la stessa cosa per Dacia Maraini che, nell’ultima pagina del libro (a conclusione della sua suggestiva combinazione - ché tale può sembrare il suo romanzo - tra interiorità e Wunderkammer, cioè della trasformazione della realtà in una scatola magica e che consente non di esorcizzare la degradazione ma almeno di aprire spiragli di illusioni), così scrive: “Ogni voce ha il timbro della verità, che non sempre coincide con la logica delle cause e degli effetti… Le voci sono corpi in moto e hanno ciascuna l’ambiguità e la complessità degli organismi viventi, belli o brutti, deboli o forti che siano, sono percorse da vene lunghissime di un azzurro che mette tenerezza, seminate di costellazioni di nei come un cielo notturno ed è difficile metterle a tacere come si fa con le parole cartacee di un libro”.
Ed ecco, tornando alla vicenda narrata, la ragion e per la quale, pur concludendosi questa vicenda con la identificazione dell’assassino, si lasciano ancora aperte altre soluzioni, si lascia praticamente irrisolto l’enigma.
Certo, “la logica delle cause e degli effetti” è sotto gli occhi di tutti, ma tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, o meglio tutte le loro voci hanno una verità, ed è proprio questa relatività che consente alla sfinge di continuare “a sorridere sorniona”.
E allora? - si chiede infine la Maraini - Si deve forse uscire dalla malia delle voci ed entrare nella logica geometrica dei segni?… E questo sarà un atto di saviezza o soltanto una scappatoia per eludere i corpi occhiuti e chiacchierini delle voci?”
Sicuramente non u n atto di “saviezza”, mi permetto di rispondere, perché se il segno, ovvero l’immagine finisce con uccidere la voce noi siamo proprio rovinati.
E’ la voce, infatti, la nostra interiorità mentre l’immagine viene dall’esterno, e solo la voce è capace di creare fantasie, che sono una forma di conoscenza ben diversa dalle fantasticherie di cui si nutre la società contemporanea.
E l’illusionismo da immagine di certa televisione, per i risultati nefasti che questa produce sulla vita democratica e culturale del paese, ne è una prova lampante.
Domenico di Palo
*Per la presentazione del libro “Voci” di Dacia Maraini il 17 febbraio 1995 al Museo Diocesano di Trani. Poi pubblicato a cura de “La Maria del porto” in “Progetto lettura. Incontri con l’autore”, Trani 2000.
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