Per iniziativa del Comune di Tricarico, dove Rocco Scotellaro nacque nel 1923, e con un’introduzione di Nicola Tranfaglia, a quasi 50 anni dalla prima edizione nei mitici “Libri del tempo”, sono usciti da Laterza “L’uva puttanella” e i “Contadini del Sud”, cioè l’opera in prosa del giovane poeta lucano.
Si tratta di una pubblicazione doppiamente meritoria: primo perché ci dà un ‘idea precisa della direzione in cui dovrebbero muoversi quei Comuni che mirano, per così dire, al recupero della propria memoria storica; secondo perché contribuisce a diffondere, presso i giovani che ancora lo ignorano, la conoscenza di un autore la cui opera fu, per tanti aspetti, rappresentativa di un’intera generazione, e di una pagina ricca di umori della nostra storia.
La vicenda di Scotellaro, infatti, fu la vicenda tipica di quell’intellettuale meridionale che nel clima pesante del dopoguerra fu portato dagli avvenimenti a impegnarsi fino in fondo nella lotta politica e a pagare duramente il presso della sua scelta. Il tratto che contraddistinse questa nuova figura di intellettuale fu una carica interna generosissima, una vocazione morale rara a riscontrarsi. E fu proprio questa vocazione morale, questa generosità a portare il poeta lucano non solo a legare il suo lavoro, politico e culturale, allo sforzo di elevazione sociale della sua gente, ma anche ad accettare fino alle estreme conseguenze il suo destino di figlio di una terra contadina. Egli, infatti, non esitò ad assumere responsabilità superiori alla sua natura, fino a portarlo, a 23 anni, all’incarico di sindaco di Tricarico, un comune in cui all’epoca non era possibile operare calcoli o fare distinzioni. Le occupazioni delle terre, che tra il 1q949 e il 1950 si erano estese anche in Basilicata, già, infatti, terrorizzavano i proprietari e la vecchia classe dirigente che cominciò a reagire con tutti i mezzi, non esclusa la violenza ammantata di legalità. Scotellaro fu la vittima più illustre di questa reazione. Accusato, infatti, addirittura di concussione fu costretto a subire la più dolorosa esperienza della sua vita, la prigione, nel carcere di Matera, nella primavera del 1950. E si deve all’indignazione dei compaesani, all’azione energica di uomini politici, ma soprattutto all’assistenza fraterna di Carlo Levi se fu riconosciuto innocente e assolto dal reato.
Rocco Scotellaro visse dunque intensamente la logorante esperienza degli anni che seguirono la Liberazione, e da questa esperienza egli emerse poi con l’urgenza di un contenuto realistico nella sua opera. Ma come quasi tutti gli scrittori dell’epoca, alle prese con un neorealismo letterario, egli si mosse con qualche difficoltà. E se alla fine (sul terreno del realismo socialista allora di moda) la resta estetica della sua urgenza realistica (ma non solo quella) suscitò polemiche e discussione, bisogna comunque affermare che i suoi scritti sempre discoprono il mondo in cui egli vibra.
Oggi dunque che un clima di schiarita ideologica permette una più circostanziata classificazione storica, si è un po’ tutti d’accordo a leggere l’opera di Scotellaro nei termini di una problematica di crisi, drammaticamente sofferta e non potuta risolvere: “L’ordine che non c’è - egli scrisse in una nota su “L’uva puttanella” - non lo troverete come è appunto nel grappolo d’uva che gli acini sono di diversa grandezza anche a volere usare la più accurata sgramolatura. Questi sono acini piccoli, asprini, seppure maturi che andranno egualmente nella tina del mosto il giorno della vendemmia. Così io e il paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo”.
Ma torniamo ai due libri ripubblicati da Laterza.
“L’uva puttanella”, si sa, è quanto ci resta del disegno di romanzo autobiografico in cui Scotellaro intendeva riflettere la sua esperienza di uomo politico impegnato e insieme di scrittore che da quelle esperienza trae ragione di ispirazione.
Da un punto di vista formale l’opera procede su toni diversi, da una narrazione, cioè, a fondo lirico, specie dove si accenna a soluzioni favolose, ad uno stile più asciutto quando nasce da una più sincera disposizione realistica.
L’intreccio, molto semplice, non è privo di simboli, e di essi Scotellaro si serve per allegorizzare nella sua esperienza la situazione meridionale.
Così l’uscita dal paese per la vigna paterna, dove Rocco dopo le dimissioni da sindaco va a leggere e a studiare, ma soprattutto a ricercare un segno per l’azione futura, assume un valore rituale. E’ il ritorno alla terra che non tradisce, il ricorso all’intimità familiare della memoria. E in questa vigna perfino le zolle e le piante hanno un potere di rievocazione. E Rocco ripercorre ad una ad una le tappe di una cronaca familiare : le storie del nonno, dello zio, del padre, e poi la sua infanzia, la sua adolescenza. Poi Rocco divenuto sindaco, e i ricordi sono anche più gravosi del suo incarico: Michele suicida per un sequestro, il con fino di Innocenzo, la storia di Pasquale il fuochista che, disperata, si è fatto saltare in un mucchio di fuochi d’artificio. Poi i ricordi della guerra, in una vena di sottile umorismo quando si riferiscono ad avvenimenti storici, ma più profondamente partecipi, più drammatici quando interessano una famiglia, i figli. E infine gli ultimi ricordi, quelli dei 40 giorni passati in carcere. In carcere Rocco non si sottrae a nessuno di quegli ingrati compiti che la prigione impone, ma intanto sente la sua utilità di uomo che sa leggere e scrivere, e gliene viene una dignità nuova quando riesce a dimostrare, attraverso la lettura del “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, che il suo mestiere non è un divertimento a vuoto.
Quanto ai “Contadini del Sud”, ricordiamo che si tratta di confessioni e narrazioni auto-biografiche di alcuni contadini meridionali, rese nell’immediatezza del loro linguaggio naturale, analogica e asintattica, con appena una spruzzata esteriore di lingua.
Nella struttura curata da Manlio Rossi Doria nell’edizione del 1954 ed oggi riproposta da Tranfaglia, comprendono soltanto cinque di quelle “vite” che dovevano confluire in un più vasto programma di esplorazione del comportamento culturale religioso e morale dei contadini meridionali. Tuttavia da essi già risulta un’immagine singolarmente significativa dei contadini del Sud. Così l’invalido, falegname e contadino, che lotta per anni a colpi di carta bollata e di ricorsi di proteste di cartelli di invettive, è simbolo di un’eterna lotta inadeguata tra l’individuo e la burocrazia. Cos’ì le “vite” di Chironna “evangelico”, di Andrea Di Grazia e di Antonio Laurenzana hanno in comune alcuni tratti essenziali: un’esistenza senza gioie, la grande povertà e la ferma volontà di affrontare ogni sorta di sacrifici. Ultima tra le cinque “vite” è quella di Cosimo Montefusco, un analfabeta di 17 anni, bufalaro nella piana di Eboli e la cui più grande aspirazione è quella di avere un orto o almeno di stare a padrone a zappare, ma non più appresso agli animali.
Certo, come sottolineò duramente all’epoca l’intero stato maggiore del partito comunista meridionale (che in verità – ricorda onestamente Nicola Tranfaglia . sia pure in ritardo, passato di moda il realismo socialista, riconobbe qualche anno dopo il proprio errore politico e culturale), la realtà che questa “vite” rappresentano potrebbe sembrare una realtà prepolitica che lascia poco prefigurare le lotte contadine degli anni ’50. Ma, al di là di ogni presunto “esame non storico della realtà meridionale”, è proprio nel personaggio Scotellaro che bisogna fissare l’attenzione, poiché è in lui che si può vedere il protagonista del libro stesso, in Rocco Scotellaro che, sia pure nei suoi limiti, sia pure nelle sue intime contraddizioni, già somiglia (per dirla con la lingua dei vari Alicata Amendola o Napolitano, ma per svuotare dall’interno la valenza polemica delle loro argomentazioni) all’intellettuale gramsciano disposto com’egli è “a mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore permanentemente perché non puro oratore”.
E in tal senso gli rende giustizia Nicola Tranfaglia che, concludendo la sua ampia e articolata introduzione e cercando di definire l’eredità di Rocco Scotellaro, ricorda il suo “contributo originale al processo di risveglio delle masse contadine” e il “ruolo rivestito dalla sua battaglia politica e culturale nel momento in cui il centrismo era entrato in crisi e nuovi spazi potevano aprirsi alle forze della sinistra”.
Si tratta di una pubblicazione doppiamente meritoria: primo perché ci dà un ‘idea precisa della direzione in cui dovrebbero muoversi quei Comuni che mirano, per così dire, al recupero della propria memoria storica; secondo perché contribuisce a diffondere, presso i giovani che ancora lo ignorano, la conoscenza di un autore la cui opera fu, per tanti aspetti, rappresentativa di un’intera generazione, e di una pagina ricca di umori della nostra storia.
La vicenda di Scotellaro, infatti, fu la vicenda tipica di quell’intellettuale meridionale che nel clima pesante del dopoguerra fu portato dagli avvenimenti a impegnarsi fino in fondo nella lotta politica e a pagare duramente il presso della sua scelta. Il tratto che contraddistinse questa nuova figura di intellettuale fu una carica interna generosissima, una vocazione morale rara a riscontrarsi. E fu proprio questa vocazione morale, questa generosità a portare il poeta lucano non solo a legare il suo lavoro, politico e culturale, allo sforzo di elevazione sociale della sua gente, ma anche ad accettare fino alle estreme conseguenze il suo destino di figlio di una terra contadina. Egli, infatti, non esitò ad assumere responsabilità superiori alla sua natura, fino a portarlo, a 23 anni, all’incarico di sindaco di Tricarico, un comune in cui all’epoca non era possibile operare calcoli o fare distinzioni. Le occupazioni delle terre, che tra il 1q949 e il 1950 si erano estese anche in Basilicata, già, infatti, terrorizzavano i proprietari e la vecchia classe dirigente che cominciò a reagire con tutti i mezzi, non esclusa la violenza ammantata di legalità. Scotellaro fu la vittima più illustre di questa reazione. Accusato, infatti, addirittura di concussione fu costretto a subire la più dolorosa esperienza della sua vita, la prigione, nel carcere di Matera, nella primavera del 1950. E si deve all’indignazione dei compaesani, all’azione energica di uomini politici, ma soprattutto all’assistenza fraterna di Carlo Levi se fu riconosciuto innocente e assolto dal reato.
Rocco Scotellaro visse dunque intensamente la logorante esperienza degli anni che seguirono la Liberazione, e da questa esperienza egli emerse poi con l’urgenza di un contenuto realistico nella sua opera. Ma come quasi tutti gli scrittori dell’epoca, alle prese con un neorealismo letterario, egli si mosse con qualche difficoltà. E se alla fine (sul terreno del realismo socialista allora di moda) la resta estetica della sua urgenza realistica (ma non solo quella) suscitò polemiche e discussione, bisogna comunque affermare che i suoi scritti sempre discoprono il mondo in cui egli vibra.
Oggi dunque che un clima di schiarita ideologica permette una più circostanziata classificazione storica, si è un po’ tutti d’accordo a leggere l’opera di Scotellaro nei termini di una problematica di crisi, drammaticamente sofferta e non potuta risolvere: “L’ordine che non c’è - egli scrisse in una nota su “L’uva puttanella” - non lo troverete come è appunto nel grappolo d’uva che gli acini sono di diversa grandezza anche a volere usare la più accurata sgramolatura. Questi sono acini piccoli, asprini, seppure maturi che andranno egualmente nella tina del mosto il giorno della vendemmia. Così io e il paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo”.
Ma torniamo ai due libri ripubblicati da Laterza.
“L’uva puttanella”, si sa, è quanto ci resta del disegno di romanzo autobiografico in cui Scotellaro intendeva riflettere la sua esperienza di uomo politico impegnato e insieme di scrittore che da quelle esperienza trae ragione di ispirazione.
Da un punto di vista formale l’opera procede su toni diversi, da una narrazione, cioè, a fondo lirico, specie dove si accenna a soluzioni favolose, ad uno stile più asciutto quando nasce da una più sincera disposizione realistica.
L’intreccio, molto semplice, non è privo di simboli, e di essi Scotellaro si serve per allegorizzare nella sua esperienza la situazione meridionale.
Così l’uscita dal paese per la vigna paterna, dove Rocco dopo le dimissioni da sindaco va a leggere e a studiare, ma soprattutto a ricercare un segno per l’azione futura, assume un valore rituale. E’ il ritorno alla terra che non tradisce, il ricorso all’intimità familiare della memoria. E in questa vigna perfino le zolle e le piante hanno un potere di rievocazione. E Rocco ripercorre ad una ad una le tappe di una cronaca familiare : le storie del nonno, dello zio, del padre, e poi la sua infanzia, la sua adolescenza. Poi Rocco divenuto sindaco, e i ricordi sono anche più gravosi del suo incarico: Michele suicida per un sequestro, il con fino di Innocenzo, la storia di Pasquale il fuochista che, disperata, si è fatto saltare in un mucchio di fuochi d’artificio. Poi i ricordi della guerra, in una vena di sottile umorismo quando si riferiscono ad avvenimenti storici, ma più profondamente partecipi, più drammatici quando interessano una famiglia, i figli. E infine gli ultimi ricordi, quelli dei 40 giorni passati in carcere. In carcere Rocco non si sottrae a nessuno di quegli ingrati compiti che la prigione impone, ma intanto sente la sua utilità di uomo che sa leggere e scrivere, e gliene viene una dignità nuova quando riesce a dimostrare, attraverso la lettura del “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, che il suo mestiere non è un divertimento a vuoto.
Quanto ai “Contadini del Sud”, ricordiamo che si tratta di confessioni e narrazioni auto-biografiche di alcuni contadini meridionali, rese nell’immediatezza del loro linguaggio naturale, analogica e asintattica, con appena una spruzzata esteriore di lingua.
Nella struttura curata da Manlio Rossi Doria nell’edizione del 1954 ed oggi riproposta da Tranfaglia, comprendono soltanto cinque di quelle “vite” che dovevano confluire in un più vasto programma di esplorazione del comportamento culturale religioso e morale dei contadini meridionali. Tuttavia da essi già risulta un’immagine singolarmente significativa dei contadini del Sud. Così l’invalido, falegname e contadino, che lotta per anni a colpi di carta bollata e di ricorsi di proteste di cartelli di invettive, è simbolo di un’eterna lotta inadeguata tra l’individuo e la burocrazia. Cos’ì le “vite” di Chironna “evangelico”, di Andrea Di Grazia e di Antonio Laurenzana hanno in comune alcuni tratti essenziali: un’esistenza senza gioie, la grande povertà e la ferma volontà di affrontare ogni sorta di sacrifici. Ultima tra le cinque “vite” è quella di Cosimo Montefusco, un analfabeta di 17 anni, bufalaro nella piana di Eboli e la cui più grande aspirazione è quella di avere un orto o almeno di stare a padrone a zappare, ma non più appresso agli animali.
Certo, come sottolineò duramente all’epoca l’intero stato maggiore del partito comunista meridionale (che in verità – ricorda onestamente Nicola Tranfaglia . sia pure in ritardo, passato di moda il realismo socialista, riconobbe qualche anno dopo il proprio errore politico e culturale), la realtà che questa “vite” rappresentano potrebbe sembrare una realtà prepolitica che lascia poco prefigurare le lotte contadine degli anni ’50. Ma, al di là di ogni presunto “esame non storico della realtà meridionale”, è proprio nel personaggio Scotellaro che bisogna fissare l’attenzione, poiché è in lui che si può vedere il protagonista del libro stesso, in Rocco Scotellaro che, sia pure nei suoi limiti, sia pure nelle sue intime contraddizioni, già somiglia (per dirla con la lingua dei vari Alicata Amendola o Napolitano, ma per svuotare dall’interno la valenza polemica delle loro argomentazioni) all’intellettuale gramsciano disposto com’egli è “a mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore permanentemente perché non puro oratore”.
E in tal senso gli rende giustizia Nicola Tranfaglia che, concludendo la sua ampia e articolata introduzione e cercando di definire l’eredità di Rocco Scotellaro, ricorda il suo “contributo originale al processo di risveglio delle masse contadine” e il “ruolo rivestito dalla sua battaglia politica e culturale nel momento in cui il centrismo era entrato in crisi e nuovi spazi potevano aprirsi alle forze della sinistra”.
Domenico di Palo
* Pubblicato in “Corrispondenze”, gennaio-febbraio 2001; in “La Vallisa”, n. 58, aprile 2001; “in Risorgimento e Mezzogiorno”, nn. 23/24, dicembre 2001; e in “Misure critiche”, nuova serie, Anno I, n. 1, 2002
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