La prima reazione positiva che si può tranquillamente fissare dopo la lettura de “La terra di Francesca”, l’ultimo romanzo della trilogia che Maria Marcone ha dedicato alle “generazioni” della donna pugliese del ‘900 (Schena editore, 1991), è che si tratta di un libro che davvero si legge tutto d’un fiato.
Questo significa, evidentemente, che l’aspettativa e la curiosità umana non vengono mai meno.
Il romanzo infatti, più de “Le stelle di Ninella” e de “I labirinti di Lucia” (gli altri due libri della trilogia) è molto ben strutturato e per questo può annoverarsi (con “Alice - la morte la fame e la scrittura” e “Nicolino”) tra le prove narrative migliori della scrittrice pugliese.
Ed è ben strutturato per l’intreccio soprattutto, ma anche per i maggiori temi psicologici e sociologici di cui è ricco.
Uno di questi, centrale, è la donna, tema per eccellenza della Marcone.
Nel libro si vede come essa, anche nel Sud, oggi non solo può crescere e vincere per forza propria ma, al di là di ogni condizionamento esterno, occupare un suo posto autonomo e positivo nel mondo e nella storia, della quale anzi finisce con l’essere coscienza e motore se è lei a definire muovere e risolvere tutte le vicende. Così è per Francesca, la giovane protagonista del romanzo che, dopo il trauma della sua esperienza affettivo-familiare, trova nella conversione e nell’impegno totale in una comunità per il recupero dei tossicodipendenti una nuova e superiore ragione di vita.
Un altro tema si potrebbe chiamarlo la forza oscura del desiderio e l’impeto delle passioni, che la Marcone, nella sua infinita indulgenza, non contempla mai nell’ottica di una castigatezza affettata o di una esasperazione deformante, ma nell’ambito della lucida coscienza della dinamica e del reciproco condizionarsi degli affetti umani. Nessuna inflessione moralistica, in tal senso, e nulla di morboso ha la seduzione di Michele, il padre rivelatosi putativo, da parte di Francesca, e il rapporto tra i due, pur nutrito di motivazioni e umori complessi, è vissuto con tale naturalezza e così limpida trasparenza da dar vita alle pagine forse più belle del romanzo.
C’è poi un terzo tema che si deve ricordare: quello della solidarietà, espresso nel fenomeno attualissimo del volontariato e che la Marcone riesce a cogliere con grande linearità ed efficacia e mai affidandosi, come purtroppo spesso accade in tanti narratori, a mezzi didascalici o retorici.
E questo è possibile non solo perché i suoi strumenti espressivi si sono ulteriormente affinati e lo stesso dialogo, a cui ella fa da sempre ricorso per una presa diretta della realtà, è più secco ed immediato, ma soprattutto perché la dimensione religiosa che muove questa solidarietà (una dimensione di certo a livello inconscio presente fin nelle prime opere della scrittrice pugliese e già acutamente intravista venticinque anni fa da Vito Maurogiovanni quando recensiva la sua opera prima, “Le stanze vuote”, edita da Cappelli) qui si è fatta esplicita e consapevole, e le permette di essere decisamente più partecipe della vicenda narrata. Giacché Maria Marcone (come la sua giovane eroina), pur senza rinnegare se stessa ma vivificando nella “fede ritrovata” la sua innata disponibilità umana, ha intanto per così dire davvero cambiato pelle.
Di qui, allora, quella linearità ed efficacia di cui si è già detto, e di qui l’ottimismo di cui, infine, è pervaso “La terra di Francesca”. Un ottimismo di certo controcorrente, che forse può lasciare scettiche le nostre coscienze laiche, gli assertori e i teorici della universale crisi di valori nella società contemporanea, ma che tuttavia, nel romanzo che chiude degnamente la trilogia (e che - va sottolineato – al di là di ogni operazione critica di smontaggio già funziona benissimo come un tutt’uno) si pone come forza autentica del sentire la vita e come strumento assoluto per renderla migliore.
Questo significa, evidentemente, che l’aspettativa e la curiosità umana non vengono mai meno.
Il romanzo infatti, più de “Le stelle di Ninella” e de “I labirinti di Lucia” (gli altri due libri della trilogia) è molto ben strutturato e per questo può annoverarsi (con “Alice - la morte la fame e la scrittura” e “Nicolino”) tra le prove narrative migliori della scrittrice pugliese.
Ed è ben strutturato per l’intreccio soprattutto, ma anche per i maggiori temi psicologici e sociologici di cui è ricco.
Uno di questi, centrale, è la donna, tema per eccellenza della Marcone.
Nel libro si vede come essa, anche nel Sud, oggi non solo può crescere e vincere per forza propria ma, al di là di ogni condizionamento esterno, occupare un suo posto autonomo e positivo nel mondo e nella storia, della quale anzi finisce con l’essere coscienza e motore se è lei a definire muovere e risolvere tutte le vicende. Così è per Francesca, la giovane protagonista del romanzo che, dopo il trauma della sua esperienza affettivo-familiare, trova nella conversione e nell’impegno totale in una comunità per il recupero dei tossicodipendenti una nuova e superiore ragione di vita.
Un altro tema si potrebbe chiamarlo la forza oscura del desiderio e l’impeto delle passioni, che la Marcone, nella sua infinita indulgenza, non contempla mai nell’ottica di una castigatezza affettata o di una esasperazione deformante, ma nell’ambito della lucida coscienza della dinamica e del reciproco condizionarsi degli affetti umani. Nessuna inflessione moralistica, in tal senso, e nulla di morboso ha la seduzione di Michele, il padre rivelatosi putativo, da parte di Francesca, e il rapporto tra i due, pur nutrito di motivazioni e umori complessi, è vissuto con tale naturalezza e così limpida trasparenza da dar vita alle pagine forse più belle del romanzo.
C’è poi un terzo tema che si deve ricordare: quello della solidarietà, espresso nel fenomeno attualissimo del volontariato e che la Marcone riesce a cogliere con grande linearità ed efficacia e mai affidandosi, come purtroppo spesso accade in tanti narratori, a mezzi didascalici o retorici.
E questo è possibile non solo perché i suoi strumenti espressivi si sono ulteriormente affinati e lo stesso dialogo, a cui ella fa da sempre ricorso per una presa diretta della realtà, è più secco ed immediato, ma soprattutto perché la dimensione religiosa che muove questa solidarietà (una dimensione di certo a livello inconscio presente fin nelle prime opere della scrittrice pugliese e già acutamente intravista venticinque anni fa da Vito Maurogiovanni quando recensiva la sua opera prima, “Le stanze vuote”, edita da Cappelli) qui si è fatta esplicita e consapevole, e le permette di essere decisamente più partecipe della vicenda narrata. Giacché Maria Marcone (come la sua giovane eroina), pur senza rinnegare se stessa ma vivificando nella “fede ritrovata” la sua innata disponibilità umana, ha intanto per così dire davvero cambiato pelle.
Di qui, allora, quella linearità ed efficacia di cui si è già detto, e di qui l’ottimismo di cui, infine, è pervaso “La terra di Francesca”. Un ottimismo di certo controcorrente, che forse può lasciare scettiche le nostre coscienze laiche, gli assertori e i teorici della universale crisi di valori nella società contemporanea, ma che tuttavia, nel romanzo che chiude degnamente la trilogia (e che - va sottolineato – al di là di ogni operazione critica di smontaggio già funziona benissimo come un tutt’uno) si pone come forza autentica del sentire la vita e come strumento assoluto per renderla migliore.
Domenico di Palo
* Pubblicato in “La Vallisa”, quadrimestrale di letteratura ed altro, anno XI, n. 32, Bari, agosto 1992
* Pubblicato in “La Vallisa”, quadrimestrale di letteratura ed altro, anno XI, n. 32, Bari, agosto 1992
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