EMILIO COVELLI ANARCHICO *

Un terzo, malaugurato incidente (ancora l’urto violento di un automezzo) e il busto di Emilio Covelli, raffigurato sulla lapide posta ad un angolo del palazzo omonimo tra Via Ognissanti e Via Zanardelli a Trani, è andato completamente in frantumi. “E questa volta sarà difficile recuperarlo - mi ha detto qualche giorno fa con grande rammarico la signora Maria Cristina Covelli - giacché gli “addetti ai lavori” da me finora interpellati praticamente si sono dichiarati incapaci di restaurarlo. In ogni caso io conservo tutti i frammenti che sono stati raccolti dopo l’incidente, ed anche alcune fotografie dell’opera dello scultore tranese Nicola Scaringi.”
Così, dopo gli analoghi episodi verificatisi negli anni Ottanta, testimone indignato di un ennesino attentato al patrimonio storico di Trani (nel passato ho proposto più volte la sistemazione della lapide in una sede più sicura), mi sembra il caso di ricordare i tempi in cui l’effigie di Emilio Covelli fu scoperta (nel secondo dopoguerra, per iniziativa degli anarchici), ma soprattutto di tornare a scrivere sulla figura e sull’opera dell’uomo che Giacinto Francia (fu lui a tenere per l’occasione il discorso commemorativo) era solito accomunare a Giovanni Bovio per indicarne la città natale (“Trani, la città di Bovio e di Covelli”); che l’illustre filosofo e politico tranese definì “uno dei più potenti ingegni delle Puglie”; e che Carlo Cafiero, suo inseparabile compagno, rispettò ed amò con tutte le forze dell’animo.




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Economista e cultore di scienze sociali e statistiche “di livello e frequentazioni europee”, ma soprattutto fervente internazionalista, teorico dell’anarchia e, con Carlo Cafiero, “attivissimo fino ai processi repressivi e alla morte”, Emilio Covelli nacque a Trani, da ricca e aristocratica famiglia, il 5 agosto del 1846.

Dopo aver frequentato, con Carlo Cafiero, il Ginnasio e il Liceo nel Seminario di Molfetta, Covelli si recò all’Università di Napoli, dove conseguì la laurea in Giurisprudenza.In quella città, come tanti altri suoi coetanei, fece parte del “Comitato Napoletano di Azione”, un’associazione di tendenze politiche liberal-democratiche. Poi, per le sue relazioni con i “Giovani hegeliani”, che egli frequentò durante i suoi viaggi in Germania (ad Heidelberg partecipò ad alcuni congressi internazionali di scienze sociali ed economiche, discipline delle quali egli era studioso ed apprezzato docente) finì con l’aderire alle teorie del socialismo anarchico.
“Personaggi come Marx, Bakunin, Babeuf, Owen e Fourier – ha scritto Michele Dell’Aquila in un capitolo della “Storia della Puglia” a cura di Giosuè Musca e pubblicato da Adda nel 1979 – avvenimenti come l’Internazionale del 1864, la Comune di Parigi del 1871, ebbero diffusione attraverso fogli e riviste numerosi presenti quasi in ogni centro, accanto alle teste moderate e della borghesia conservatrice (…). E se Francesco Fanelli e poi Francesco Colella erano gli animatori dei circoli e dei primi comitati operai nei centri bracciantili di Andria, Corato, Minervino, Spinazzola, San Severo, Lucera, Barletta, Trani, Brindisi, Taranto, la Puglia ebbe anche i suoi teorici: Carlo Cafiero (1846 – 1892), un aristocratico di Barletta, di alto ingegno e di vasta cultura, venuto a contatto con Carlo Marx e con Bakunin, ed Emilio Covelli, di Trani. Certamente – continua Dell’Aquila – si trattava ancora una volta di intellettuali, in qualche caso perfino di aristocratici, come il Cafiero, ma questa volta meno isolati nei confronti delle masse che venivano comprendendo la dura lezione della storia e si aggregavano nelle prime leghe operaie.”

Di qui, allora, gli arresti subìti da Covelli nel 1875 e nel 1877 sotto l’imputazione di “propaganda sovversiva” prima e la falsa accusa di aver partecipato alla rivolta di S. Lupo (una borgata in provincia di Benevento, dove, il 3 aprile del 1877, sotto il comando di Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, un gruppo di internazionalisti insorse “a nome della rivoluzione sociale”. La rivolta fu domata dall’intervento dell’esercito e gli insorti portati nella prigione di S. Maria Capua Vetere).

Prosciolto dopo quattro mesi di carcere preventivo, Covelli fu costretto a ritirarsi a Trani per ingiunzione paterna. Ma, intollerante della sorveglianza della polizia pugliese, evase di nuovo a Napoli prima e a Genova poi, dove venne nuovamente arrestato “per reato di cospirazione intesa a cambiare e distruggere la forma di governo e di eccitamento ai cittadini di armarsi contro i poteri dello Stato” nonché “per diffusione di stampe incendiarie nel regno e all’estero”.

Prosciolto in istruttoria nel dicembre del 1878, ma ammonito “a non dare luogo ad ulteriori sospetti sul suo conto e di sottomettersi alle prescrizioni che gli saranno imposte dall’autorità di pubblica sicurezza”, fu obbligato dalla presenza dalla questura genovese ad abbandonare la Liguria e, munito di foglio di via obbligatorio, rientrò a Trani.
Ma anche questa volta il soggiorno nella sua città natale fu breve.
In seguito alla furiosa reazione che seguì all’attentato di Passanante contro il re Umberto I, fu tradotto di nuovo a Genova, processato e nuovamente assolto. Di là, temendo di ricadere nelle mani della polizia, si rifugiò, conducendo vita di miseria, in Svizzera e in Francia.
Ritornò in patria dopo alcuni anni di esilio, ma la polizia si accanì ancora contro di lui. Venne arrestato e tradotto nelle carceri di Genova, donde i compagni tentarono di farlo uscire presentandolo, nel 1882, candidato alla Camera dei deputati nel collegio di Monselice.
Alle elezioni però ottenne soltanto pochissimi voti (malgrado la riforma elettorale del’82 il suffragio era ancora ristretto perché rimanevano esclusi dal voto gli analfabeti e i nullatenenti).
Un altro tentativo di rendergli più sopportabile la prigionia, che ormai lo aveva fiaccato nello spirito e nella salute, facendolo trasferire nel carcere di Trani, fu poi sdegnosamente respinto da Covelli (“si sarebbe lasciato portare all’inferno – egli scrisse – piuttosto che mendicare la pietà del ministro Zanardelli”).
Liberato, infine, per la quinta o sesta volta nel giro di sette anni, si stabilì a Parigi dove, nonostante la sua malferma salute e lo stato di estrema indigenza nel quale si era ridotto, s’impegnò attivamente nelle dispute e nelle polemiche che, all’epoca, dividevano il movimento socialista e rivoluzionario.
“Povero Emilio – scrisse in quegli anni Carlo Cafiero – Spoglio di libri come di panni, viveva poveramente in una stamberga. Malgrado tutto ciò, nei due giorni che passai con lui, egli non cessò mai di parlare delle cose nostre, pieno di fede nell’avvenire della nostra Italia, il paese meglio disposto per iniziare la nuova era.”
Risale a questi ultimi anni parigini la famosa “Protesta” che Emilio Covelli scrisse contro quei compagni che, come Andrea Costa, nel frattempo avevano abbandonato le idee anarchiche e avevano maturato l’adesione al socialismo.
E’ certamente una testimonianza, questa “Protesta”, della fine dell’utopia anarchica, ma anche un violento atto di accusa contro l’opportunismo politico e un’affermazione di dignità e di fierezza d’animo.
“In quanto a me – vi scrisse infatti tra l’altro – non mi vendo né ai governi né ai partiti (…). Io ho rifiutato tutto, ed ho bramato la miseria, le persecuzioni, le calunnie per restare ciò che sono…”.
Si tratta delle parole che si leggono nella lapide scolpita da Nicola Scaringi a Trani e che ancora oggi, per tanti giovani, suonano come un esempio altissimo di rigore morale e di coerenza intellettuale.
Era il 1884 quando Covelli tornò in Italia: Ma, ormai logorato da tanti anni di persecuzioni poliziesche e di sventure, in preda ad uno “sconcerto nervoso”, venne costretto a peregrinare da allora attraverso i manicomi d’Italia. In uno di questi, secondo la testimonianza di alcuni suoi compagni, fu rinchiuso arbitrariamente per 63 giorno nel 1884. Nel 1887 languiva ancora nel manicomio dei Ponti rossi a Napoli, e in quello di Nocera inferiore, il 15 agosto del 1915, all’età di 69 anni, egli si spense,
Ventitre anni prima, proprio in quel manicomio, era morto Carlo Cafiero, l’amico e il compagno di sempre che, nel 1882, scrivendo da Locarno per sostenere la candidatura di Covelli, così, tra l’altro, aveva detto: “In causa delle sue idee socialiste, Emilio Covelli ha perduto salute, averi ed uno splendido avvenire borghese (,,,). Debole, quale egli è fisicamente, ha saputo per lungo tempo sopportare le durezze dell’esistenza ed, al bisogno, vendere il letto e le camicie per soccorrere la causa, affrontando con la miseria anco il manicomio ed il dolore di suo padre, che nel suo cuore affettuoso trovavano un’eco profonda. Nell’indigenza, non gli è stato possibile procurarsi un pane, non solo per la sua natura troppo riservata e non troppo adatta per certi lavori manuali (…), ma soprattutto per la sua estrema delicatezza di sentire, spinta, talvolta, sino all’assurdo. In tale condizione, ha dovuto sottomettersi a sacrifici ben più gravi, tra i quali citerò la vendita dei suoi cari libri. (…) Io conosco Emilio a fondo (…) e lo rispetto e lo amo con tutte le forze dell’animo. L’amo e lo rispetto per la sua grande dottrina e per la sua filosofia, l’amo e lo rispetto per la squisitezza dei suoi sentimenti, per la delicatezza di tutto il suo essere tanto gentile ed umano, e per se stesso soggetto a soffrire più di qualunque altro, l’amo e lo rispetto per l’amore e il rispetto che, non conoscendolo, altri non gli porta…”.

Tra gli scritti di Emilio Covelli, riportati perlopiù indirettamente dai suoi numerosi studiosi (tra i quali Antonio Lucarelli, Raffaele Cotugno, Alfonso Scirocco e Mario Spagnoletti, autore, quest’ultimo, di un saggio fonda-mentale dal titolo “Emilio Covelli tra Marx e Bakunin”, pubblicato nel 1982 in un fascicolo dell’”Archivio Storico Pugliese”) ricordiamo soprattutto: “L’Economia politica e il Socialismo”, Napoli 1874.
Domenico di Palo



LA PROTESTA



“Anarchico italiano, rifugiato a Parigi, assistendo ieri sera al meeting pubblico della Conferenza Internazionale alla sala Levis, fui oggetto della più vile delle provocazioni da parte del cittadino Jofffrin. Io lo designai al cittadino Brousse come agente provocatore, ma non potei ottenere alcune spiegazioni sia dall’uno che dall’altro.
Ero di già assai eccitato, e malgrado mi si chiamasse timido perché non avevo ancora risposto con schiaffi a coloro che li avevano sì ben meritati, pure dichiarai ai miei vicini che sarei stato tranquillo, avendo compreso che tutto questo non era che una macchina montata espressamente per espellermi dalla sala e fors’anche per farmi arrestare.
Si voleva impedirmi d’essere presente all’allocuzione del deputato Costa, che temeva d’essere sentito da me nel suo rapporto sulle cose d’Italia; fors’anche si voleva costringermi a raccozzarmi con Costa, a domandare d’essere delegato alla Conferenza e ad ingaggiarmi nel Partito Operaio. Macchina o intrigo, è stato un fiasco. Ho resistito a tutte le provocazioni ed hanno dovuto sciogliere la seduta per poter farmi uscire con degli altri, e solo dopo hanno fatto parlare Costa, che non ha più avuto paura della mia presenza. Lascio la gesuita Brousse ed al suo mandatario Joffrin la responsabilità delle loro azioni. Ho deplorato che degli italiani che sono sotto l’influenza di un francese, abbiano usato delle violenze nel meeting del 30 ottobre. Un delegato inglese ha detto allora che bisognava lavare in famiglia la biancheria sporca della politica italiana, ed io risponderò che del sudiciume ce n’è dappertutto, anche nel paese dove gli operai protestano contro la condanna di Luisa Michel in Francia, e non muovono un dito per gli orrori dei loro padroni contro i poveri Irlandesi. Gli italiani, come tutti i popoli, sono divisi; ma ne sono causa gli sfruttatori
Ciò che deploro ancor di più, è che si dice sovente che bisogna conoscersi per intendersi, che si teme la luce e si perseguitano i contraddittori.
In quanto a me che sono combattuto, perché non mi vendo né ai governi né ai partiti, non mi resta che dichiarare che amo molto la Francia, ma che diffido di tutti i pretesi capi dei Governi dell’avvenire, che da quanto si vede presentemente, non sono né più giusti né più umani di tutti gli sfruttatori passati e futuri.
Infine, nel caso che Joffrin e Brousse siano stati ingannati dalle insinuazioni di Costa, io sfido questo rinnegato che ha accettato d’essere deputato e triunviro della democrazia, mentre io ho rifiutato tutto, ed ho bramato la miseria, le persecuzioni, le calunnie per restare ciò che sono, lo sfido pubblicamente ad attaccarmi, se può, senza maschera.”
Parigi, 1°
novembre
1883.
Emilio Covelli


* Pubblicato in “Il Giornale di Trani” del 27 settembre 2002 con il titolo “Covelli, un pezzo di storia… in pezzi”, e riscritto sulla base dell’articolo già uscito su “SINGOLARE/PLURALE”, Trani gennaio-febbraio 1981.

1 commento:

  1. Omaggi a chi continua a diffondere il nome di Emilio Covelli, nonostante i tempi siano cambiati, e i governi appaiano più demogerontocratici, c'è chi continua ad andare via, a patire la fame per delle idee, morirne ma di morte lenta.
    Quel paese nel qale anche io sono nato e da cui anche io sono fuggito, deve ricordare che tra quelle rive nascono pensieri senza confini....
    Covelli G.

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